Diritto e valori
DOI: 10.1401/9788815413499/c15
XV
L’enciclica «Laborem exercens» e la cultura industriale
Da «Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali», 1982, n. 16, pp. 595-606
1. Le reazioni del mondo degli imprenditori.
L’ultimo documento della dottrina sociale della Chiesa non ha mancato, come il primo, di produrre in alcuni settori dell’opinione pubblica «una certa impressione di sgomento, anzi di molestia e per taluno anche di scandalo»
[1]
. Dopo un anno dalla pubblicazione dell’enciclica Laborem exercens di Giovanni Paolo II, spente le prime e non sempre meditate reazioni del mondo laico, il testo pontificio merita di essere riletto senza intenti apologetici e senza pregiudizi, con la disponibilità alla comprensione secondo buona fede propria degli «uomini di buona volontà», ai quali, e non soltanto ai cattolici, l’enciclica è indirizzata.
Non occorre occuparsi delle manifestazioni di insofferenza esibite dalla cultura radicale, programmaticamente ostile ad ogni espressione sociale del fenomeno religioso, e si possono pure tralasciare, perché fondate su un fraintendimento abbastanza evidente, le critiche avanzate dagli ecologisti, alle cui orecchie l’enfatizzazione del precetto biblico «soggiogate la terra» è suonata come un invito allo sfruttamento ad oltranza delle (limitate) risorse terrestri, mentre le parole della Genesi sono invocate dal Papa come fondamento del principio direttivo di tutta l’enciclica, il principio del primato umano nel cosmo.
Richiedono, invece, attenta considerazione, dal momento che oggetto principale della riflessione pontificia è ¶{p. 410}il lavoro subordinato nelle imprese, le reazioni del mondo degli imprenditori
[2]
, dove il documento è stato generalmente accolto con serietà e rispetto, ma in alcuni commenti, non privi di venature polemiche, anche come un nuovo segno della «secolare diffidenza, se non inimicizia, tra cristianesimo e cultura dell’industrializzazione»
[3]
. Queste reazioni offrono un punto di vista che forse contribuisce a un approfondimento del senso dell’enciclica e dell’elemento di novità che essa introduce nell’atteggiamento della Chiesa.
Si può ammettere che la preoccupazione di riaffermare e rinsaldare il principio della dignità umana quale valore supremo di un giusto ordinamento dei rapporti economici ha impresso all’enciclica un certo carattere di unilateralità, del resto proprio di ogni pensiero percorso da una forte tensione ideale. È rimasta in ombra la forma giuridica della prestazione di lavoro, cioè il rapporto contrattuale con l’imprenditore-datore di lavoro, così che da questa parte si è avuta l’impressione di una sottovalutazione dell’attività organizzativa e direttiva dell’impresa e dei vincoli tecnologici ed economici dai quali è condizionata; ed ha pure destato sorpresa che, malgrado il grave decadimento dell’etica del lavoro di cui è stato testimone l’ultimo decennio, sia mancato ogni riferimento agli obblighi di diligenza e di lealtà che dal contratto liberamente stipulato derivano al prestatore di lavoro.
2. La condanna del collettivismo.
Una lettura dell’enciclica, che voglia evitare interpretazioni non conformi alle intenzioni del magistero ecclesiastico, deve rispettare alcune regole ermeneutiche.
La prima regola vieta di accostarsi al documento esclusivamente da punti di vista e con misure di valutazione attinti alla cultura e all’esperienza europeo-occidentali, ¶{p. 411}trascurando l’universalità della missione della Chiesa e la diffusione in tutti i paesi del mondo dell’uditorio al quale il Sommo Pontefice si rivolge.
Le garanzie giuridiche indicate come necessarie e doverose per assicurare ai lavoratori un’esistenza degna dell’uomo (diritto di associazione sindacale, diritto di controllo sull’organizzazione del lavoro, protezione contro i rischi di eventi diminutivi della capacità di lavoro e di guadagno, ecc.) sono largamente in atto nei sistemi di relazioni industriali delle democrazie occidentali, dei quali ormai da tempo non si può dire che siano pensati esclusivamente «secondo le categorie dell’economismo». La condanna dell’«errore dell’economismo» (a parte la non felice scelta di questo termine nella traduzione italiana) non implica disconoscimento dei valori economici di cui l’impresa è portatrice, ma deve essere compresa coordinandola con i luoghi (nn. 7 e 13) dove si ammonisce che l’errore del primitivo capitalismo, ossia l’industrializzazione perseguita dall’impresa paleocapitalistica col sacrificio dei valori soggettivi inerenti alla dimensione umana del lavoro, «può ripetersi in altre circostanze di tempo e di luogo». Il riferimento ai regimi collettivistici, in cui l’uomo individuo è totalmente sacrificato a un soggetto assoluto collettivo, è trasparente. Invero, in nessun documento precedente la critica del collettivismo è condotta con maggiore rigore scientifico come in questo. La rigorosità scientifica è attinta attraverso una linea di argomentazione ormai separata dalla difesa dell’istituto della proprietà privata, che nell’insegnamento tradizionale della Chiesa è ritenuto di diritto naturale
[4]
. Poiché la collettivizzazione dei mezzi di produzione significa in realtà trasferimento del controllo dei beni produttivi da «un certo gruppo sociale» (proprietari privati) a «un altro gruppo di persone» (classe politico-burocratica dominante), il problema della subordinazione, che è il nodo centrale delle relazioni industriali, si pone indipendentemente dal regime giuridico della proprietà.¶{p. 412}
In questo senso, ma solo in questo, si può condividere il commento di parte cattolica, secondo cui la Laborem exercens rinnova la dottrina sociale della Chiesa collocandola al di sopra dei sistemi e così rendendola più capace di penetrazione anche in sfere culturali diverse da quella europea
[5]
. Resta fermo peraltro, e su questo punto l’enciclica ha il merito di riportare il pensiero cristiano alle sue tradizioni più genuine, che «la fonte ultima del diritto non è la collettività, ma la personalità spirituale dell’uomo, la sua dignità umana e la sua libertà»
[6]
. Il primato della persona sul sociale è un principio-cardine del cristianesimo.
3. Il valore della dignità umana come limite della considerazione oggettiva del lavoro.
In secondo luogo, il canone della totalità ermeneutica deve essere applicato non solo all’interno del documento in questione, ma anche nel senso che esso e le sue singole parti devono essere interpretati nel contesto di tutti i documenti precedenti del magistero. Giovanni Paolo II non intende contraddire il magistero anteriore, ma piuttosto svilupparlo e aggiornarlo, ritornando sul problema del lavoro «senza peraltro avere l’intenzione di toccare tutti gli argomenti che lo concernono» e «conservando sempre quella base cristiana di verità, che possiamo chiamare perenne».
Rimane valido pertanto, e deve essere richiamato come criterio interpretativo della nuova enciclica, un punto fondamentale della Quadragesimo anno di Pio XI, dove si respinge energicamente «l’affermazione che il contratto di offerta di prestazione d’opera sia di sua natura ingiusto»
[7]
. Del resto, la legittimazione della struttura del rapporto di lavoro secondo il modello dello scambio è presupposta dalla nuova enciclica nel punto in cui identifica nel sistema salariale il «modo più importante per re¶{p. 413}alizzare la giustizia nei rapporti lavoratore-datore di lavoro» (n. 19).
Ciò significa che la considerazione oggettiva del lavoro alla stregua di un bene economico suscettibile di un prezzo di mercato non è per se stessa incompatibile con la dignità umana del lavoratore: a condizione che mai se ne perda di vista il carattere fittizio. Non è concepibile un’economia di mercato che non includa un mercato del lavoro, posto che in essa il processo di produzione è organizzato nella forma giuridica della compravendita
[8]
. Ma anche un’economia collettivistica interamente pianificata non può tralasciare la considerazione del lavoro come costo di produzione, cioè appunto la descrizione fittizia del lavoro come bene economico, trattandosi di un elemento integrante del calcolo economico con cui si determina l’aggregazione ottimale dei fattori produttivi.
La Chiesa non condanna questo modo di considerare il lavoro, del resto inseparabile dall’economia industriale, ma si preoccupa di mettere in guardia contro la tendenza – innegabilmente insita nella forma di pensiero sottostante all’industrialismo – a ipostatizzare la finzione. L’esperienza delle prime società industriali del secolo scorso ha dimostrato che gli effetti di tale ipostatizzazione, la quale dimentica la sostanza umana del lavoro e lo degrada ad oggetto dell’economia, non possono essere sopportati a lungo da nessuna società. La finzione del lavoro come bene di mercato deve essere controllata nelle sue applicazioni dall’etica sociale e dal diritto, sì da impedire che trascenda in conseguenze pregiudizievoli (per usare l’espressione dell’art. 41, comma 2° Cost.) alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana. A questo scopo è sorto «un nuovo ramo della disciplina giuridica affatto ignorato nei secoli passati»
[9]
, fondato sull’«indissolubile collegamento dell’uomo che lavora con la dimensione economica
¶{p. 414}della sua prestazione»
[10]
. Il moderno diritto del lavoro assume a suo compito non solo la tutela del lavoratore, parte contrattuale debole, in relazione al bene che offre sul mercato, ma anche la garanzia della dimensione umana della prestazione di lavoro nei confronti del potere organizzativo e direttivo dell’imprenditore, al quale, mediante il contratto, è assoggettata.
Note
[1] Sono parole di Pio XI, enc. Quadragesimo anno, n. 3 (in Vito, Introduzione alle Encicliche e ai Messaggi sociali. Da Leone XIII a Giovanni XXIII, Milano, 1962, p. 38) a proposito della Rerum novarum di Leone XIII.
[2] Da parte delle organizzazioni sindacali dei lavoratori i commenti non sono andati al di là di poche parole di circostanza (salvo un articolo del Segretario generale della Uil sull’«Avanti!» del 17 settembre 1981).
[3] Cfr. Lombardi Vallauri, Corso di filosofia del diritto, Padova, 1981, p. 599.
[5] Cfr. l’«editoriale» di «Civiltà Cattolica», quad. 3151 del 3 ottobre 1981.
[6] Cfr. Auer, Der Mensch und das Recht, in Naturrecht oder Recbtspositivismus?, a cura di Maihofer, Darmstadt, 1962, p. 464.
[7] N. 29 (Vito, op. cit., p. 58).
[8] Cfr. Polany, La grande trasformazione, Torino, 1974, pp. 95, 99 ss.
[10] Sinzheimer, La democratizzazione del rapporto di lavoro (1928), trad. it. in «Giornale dir. lav. e rel. ind.» n. 2 (1979), p. 222.