Luigi Mengoni
Diritto e valori
DOI: 10.1401/9788815413499/c15
La Chiesa non condanna questo modo di considerare il lavoro, del resto inseparabile dall’economia industriale, ma si preoccupa di mettere in guardia contro la tendenza – innegabilmente insita nella forma di pensiero sottostante all’industrialismo – a ipostatizzare la finzione. L’esperienza delle prime società industriali del secolo scorso ha dimostrato che gli effetti di tale ipostatizzazione, la quale dimentica la sostanza umana del lavoro e lo degrada ad oggetto dell’economia, non possono essere sopportati a lungo da nessuna società. La finzione del lavoro come bene di mercato deve essere controllata nelle sue applicazioni dall’etica sociale e dal diritto, sì da impedire che trascenda in conseguenze pregiudizievoli (per usare l’espressione dell’art. 41, comma 2° Cost.) alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana. A questo scopo è sorto «un nuovo ramo della disciplina giuridica affatto ignorato nei secoli passati» [9]
, fondato sull’«indissolubile collegamento dell’uomo che lavora con la dimensione economica
{p. 414}della sua prestazione» [10]
. Il moderno diritto del lavoro assume a suo compito non solo la tutela del lavoratore, parte contrattuale debole, in relazione al bene che offre sul mercato, ma anche la garanzia della dimensione umana della prestazione di lavoro nei confronti del potere organizzativo e direttivo dell’imprenditore, al quale, mediante il contratto, è assoggettata.
I contenuti del diritto del lavoro nei paesi industrializzati dell’occidente sono omogenei con la dottrina sociale della Chiesa. Quando ammonisce che «il fondamento per determinare il valore del lavoro umano non sia prima di tutto il genere di lavoro che si compie, ma il fatto che colui che lo esegue è una persona» (n. 6), l’enciclica di Giovanni Paolo II fissa un duplice principio che nel nostro ordinamento è sancito (con formula che inverte l’ordine dei due membri) da una norma costituzionale (art. 36, comma 1°), e in altri (per es. Francia e Spagna) è attuato da una legislazione che determina periodicamente l’ammontare del salario minimo garantito [11]
. E quando soggiunge che «ciò non vuol dire che il lavoro umano, dal punto di vista oggettivo, non possa e non debba essere in alcun modo valorizzato e qualificato» (cioè fruito come bene economico), ma che «prima di tutto il lavoro è “per l’uomo”, e non l’uomo “per il lavoro”», traendone più avanti (n. 19) il corollario che il processo lavorativo deve essere organizzato e adattato in modo da rispettare «le esigenze della persona e le sue forme di vita», essa impartisce un criterio di organizzazione del lavoro che trova riscontro letterale nella legge della Germania Federale sulla {p. 415}costituzione delle aziende [12]
, la quale impone al datore di lavoro e ai rappresentanti dei lavoratori, che con lui collaborano alla formazione delle decisioni concernenti l’organizzazione produttiva, di «tenere presenti, a questo riguardo, le indicazioni acquisite dalla scienza del lavoro per una organizzazione del lavoro a misura d’uomo».
Infine, quando conclude che i rapporti di lavoro si misurano «soprattutto col metro della dignità del soggetto stesso del lavoro, cioè della persona, dell’uomo che lo compie», l’enciclica indica quale istanza etica di controllo del regolamento positivo di tali rapporti un valore in cui numerose costituzioni del secondo dopoguerra ripongono espressamente la fondazione ultima dell’ordinamento giuridico [13]
. Il pensiero corre immediatamente al celebre art. 1 della Costituzione di Bonn, ma l’art. 2 della nostra contiene un enunciato equivalente, posto che il concetto di «dignità umana» è la sintesi dei «diritti inviolabili dell’uomo» [14]
. Questo concetto è la traduzione secolarizzata dell’idea biblica che l’uomo è stato creato da Dio a sua immagine e somiglianza [15]
, e nella tradizione dell’umanesimo liberale moderno corrisponde al principio kantiano, fondato sulla natura razionale dell’uomo e sulla sua autonomia morale, secondo cui «l’uomo in tutte le sue azioni, tanto in quelle che riguardano lui stesso, come in quelle che si riferiscono agli altri uomini, deve sempre essere considerato come un fine, e mai unicamente come un mezzo» [16]
. Certo la secolarizzazione separa il concetto di dignità umana dall’idea di un diritto divino, ma ciò che qui interessa è rilevare la consonanza col pensiero cristiano del fondamento etico del diritto positivo nelle costi{p. 416}tuzioni successive alla tragica esperienza delle due guerre mondiali.
Appare perciò fuori misura l’accusa rivolta all’enciclica di insistere troppo sul concetto generico di dignità dell’uomo e di sviluppare sulla base di esso un insegnamento «ancora lontano dalla moderna società industriale» [17]
. Critiche del genere sono suggerite dalla delusione per presunte lacune dell’enciclica in ordine a temi centrali della cultura industriale, quale ad esempio il tema della professionalità. Ma Giovanni Paolo II «ha voluto darci una meditazione teologica e filosofica sul lavoro umano» [18]
, non una trattazione pratica dei problemi del lavoro. Non è affare della Chiesa addentrarsi in discussioni su recenti politiche egualitaristiche del diritto del lavoro, e in particolare della contrattazione collettiva (nuovi criteri di inquadramento delle mansioni, automatismi salariali di vario genere, progressione automatica delle carriere in funzione della sola anzianità, ecc.), che innegabilmente hanno mortificato l’esigenza di un giusto apprezzamento della professionalità, e delle quali si ammette ormai da tutti la necessità di correzione. Compito del magistero ecclesiastico è, invece, di richiamare, da un lato, l’obbligo morale dell’imprenditore di favorire lo sviluppo della professionalità dei lavoratori adeguando l’organizzazione del lavoro al progresso tecnico ed economico [19]
, dall’altro i limiti che alla considerazione del lavoro come «valore di professionalità vendibile sul mercato» derivano dal valore extra-economico della dignità umana: valore che non può essere svalutato quasi fosse un residuo di culture preindustriali.
In realtà i due valori si pongono su piani diversi e con funzioni diverse. Il primo è un criterio di giustizia {p. 417}commutativa nei rapporti di lavoro, improntati alla regola dell’equivalenza delle prestazioni propria dei contratti di scambio; il secondo è un criterio di protezione del lavoratore contro possibili conseguenze dei meccanismi di mercato, le quali si rivelassero non consone con la sua qualità di persona. Anche su questo punto l’enciclica si astiene da prescrizioni specifiche, non insegna direttamente quel che si deve fare ora e qui in una situazione determinata, anzi prende le distanze (ed è questo uno dei suoi pregi di originalità) da determinate tecniche di protezione sociale. Alla domanda «che cosa dobbiamo fare?» l’etica, a differenza del diritto, non risponde indicando immediatamente il contenuto del dovere, che può variare a seconda delle situazioni concrete, bensì fornendo i criteri mediante i quali esso è da riconoscere.

4. Il problema centrale dell’enciclica: la conciliazione della società tecnologica col postulato umanistico.

Caratteristica peculiare della Laborem exercens, che la rende diversa dalle encicliche precedenti, è lo sviluppo per così dire circolare (o, forse meglio, a spirale) del pensiero attorno a un unico problema, che viene continuamente ripresentato e rimeditato sotto nuovi aspetti: il problema della conciliazione della moderna società tecnologica col postulato umanistico. Questo problema è riproposto dalla più alta autorità religiosa in un momento in cui si annuncia la terza rivoluzione industriale.
La preoccupazione centrale del Pontefice, profondamente radicata nella teologia e nell’antropologia bibliche, è che l’uomo produttore non perda il contatto con l’uomo sapienziale: senza la sapienza l’uomo è «incapace di comprendere la giustizia» [20]
. Un tempo l’homo faber e l’homo sapiens (nel senso etimologico di «assaporatore», ossia dotato della sensibilità ai valori) erano uniti; nella società moderna tendono a separarsi perché la forma di pensiero del primo è divenuta radicalmente diversa.
Il «nocciolo duro» dell’enciclica, che a certuni è parso {p. 418}indigesto, si trova nei nn. 7 e 13, dove è denunciato l’«errore fondamentale dell’economismo». Il significato attribuito a questo termine, in sé ambiguo, è chiarito nei contesti successivi dall’aggiunta dell’aggettivo «materialistico» o dall’uso sinonimo del sostantivo «materialismo» nell’accezione in cui nel linguaggio filosofico contemporaneo sono preferiti i termini fisicalismo, naturalismo oppure obiettivismo fisicalistico [21]
.
Con queste espressioni si designa il primo elemento costitutivo di quella forma globale di pensiero, sopravvenuta a partire dal secolo diciassettesimo, che passa sotto il nome di «scientismo tecnologico» [22]
. Sul piano teoretico essa tende a una matematizzazione universale, a ridurre la conoscenza alla misurazione quantitativa dei fenomeni (ciò che non è misurabile empiricamente non è conoscibile). In questo senso il profondo mutamento avvenuto negli ultimi secoli, per cui la razionalità della fisica è assurta a modello esemplare di qualsiasi autentica conoscenza [23]
, è stato definito come un processo di formalizzazione (o soggettivizzazione) della ragione [24]
.
Il secondo elemento costitutivo dello scientismo tecnologico si radica sul piano pratico ed è dato dall’organizzazione industriale (cioè dalla razionalizzazione in termini quantitativi) del dominio sulla natura, il quale diventa un processo aperto nel futuro. Ciò comporta un mutamento di senso del lavoro. Nella società industriale il lavoro ha senso solo in una organizzazione, e pertanto «la
{p. 419}struttura sociale e l’esistenza umana sono determinate, in tutte le loro ramificazioni, dalla natura del lavoro e dalla sua distribuzione» [25]
.
Note
[9] Quadragesimo anno, n. 8 (Vito, op. cit., p. 43).
[10] Sinzheimer, La democratizzazione del rapporto di lavoro (1928), trad. it. in «Giornale dir. lav. e rel. ind.» n. 2 (1979), p. 222.
[11] Nella relazione alla legge francese del 24 maggio 1864, che abolì il divieto penale delle coalizioni operaie e padronali, questo principio è fondato sulla distinzione tra «prezzo corrente» del lavoro e «prezzo naturale», inteso come minimo (commisurato alle «subsistances nécessaires au soutien de la vie et à l’éducation de sa famille») al di sotto del quale il primo non deve mai scendere: altrimenti «si les rapports de l’offre et de la demande sont respectés, les lois de l’humanité sont en souffrance» (cfr. Ollivier, Démocratie et liberté, Paris, 1867, pp. 160 s.).
[12] Betriebsverfassungsgesetz del 15 gennaio 1972, § 90.
[13] Cfr. da ultimo, Stark, Menschenwürde als Verfassungsgarantie, in Cristianesimo, secolarizzazione e diritto moderno, a cura di Lombardi Vallauri e Dilcher, Milano-Baden-Baden, vol. I, 1981, pp. 805 ss.
[14] Del resto, il riferimento al concetto di «dignità umana» o di «esistenza libera e dignitosa» (= degna dell’uomo) è esplicito negli artt. 36, comma 1° e 41, comma 2°, e analogo è il principio del «rispetto della persona umana» enunciato nell’art. 32, comma 2°.
[15] Gen. 1, 26; 5 1; Sap. 2, 23.
[16] Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, in Kant’s Werke, vol. IV, Berlin, 1911, pp. 428 s.
[17] Così Lunati, in Sole-24 Ore del 24 settembre 1981.
[18] Cfr. «Civiltà Cattolica», «editoriale» cit.
[19] Merita di essere ricordato il passo della Quadragesimo anno, n. 32 (Vito, op. cit., p. 60), dove la correlazione delle rivendicazioni salariali agli incrementi di produttività è riconosciuta come principio di giustizia, ma con la riserva che la minore produttività non sia imputabile «a indolenza, a inettezza e a noncuranza del progresso tecnico ed economico», cioè a inefficienza o scarsa etica professionale del management.
[20] Sap. 9, 5.
[21] Il primo termine è stato proposto, come è noto, per qualificare la filosofia del Circolo di Vienna, secondo cui sono fomite di senso solo le proposizioni traducibili in una proposizione della fisica. Il secondo termine è corrente soprattutto presso i positivisti logici anglosassoni (Dewey ecc.). Il terzo è usato in un senso più generale e con intenti critici («per indicare gli equivoci filosofici che derivano da un fraintendimento del vero senso della fisica moderna») da Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano, 1975, pp. 51 ss., 129, nota 5, 350 ss.
[22] Cfr. Lombardi Vallauri, I presupposti del processo di industrializzazione, in «Atti» del XLVIII corso di aggiornamento culturale dell’Università cattolica, Milano, 1979, pp. 50 ss.; e, dello stesso autore, Corso di filosofia del diritto, cit., pp. 236 s., 244 ss.
[23] Husserl, Crisi delle scienze europee, cit., pp. 53 ss., spec. 89 ss.
[24] Horkheimer, Eclisse della ragione, Torino, 1969, p. 14.
[25] Jaspers, Origine e senso della storia, Milano, 1982, pp. 128 s.