Diritto e valori
DOI: 10.1401/9788815413499/c13
XIII
Le modificazioni del rapporto di lavoro alla luce dello statuto dei lavoratori
Da L’applicazione dello Statuto dei lavoratori, a cura di G. Pera, Milano, F. Angeli, 1973, pp. 17-30 e, con titolo diverso, da «Mass. giur. lav.», 1972, pp. 559-564
1. La rilevanza del nesso funzionale rapporto di lavoro-impresa nello statuto dei lavoratori.
Nel bilancio di due anni di applicazione dello statuto dei lavoratori forse una voce può essere iscritta senza incertezza nel capitolo delle «modificazioni del rapporto di lavoro», voce attiva per i prestatori di lavoro, ma non necessariamente passiva per i datori: ed è il visibile mutamento dell’equilibrio sostanziale di potere delle parti. Lo statuto ha decisamente avviato un processo di obsolescenza della figura del lavoratore contrattualmente debole, da considerare quasi alla stregua di un incapace, alla quale si sono ispirati per decenni i numerosi cahiers de doléances presentati dal diritto del lavoro al diritto civile: figura che ancora campeggia nella sentenza 10 giugno 1966, n. 63 della Corte costituzionale sulla prescrizione dei diritti dei prestatori di lavoro. Si colloca davvero fuori dalla realtà il Tribunale di Prato quando, in una sentenza del febbraio 1972
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, immagina che nelle aziende «l’imprenditore sia riguardato come un potente su cui a fatica si osa alzare lo sguardo».
Per l’operatore del diritto, chiamato a interpretare la legge, il bilancio di due anni di applicazione dello statuto elenca una serie imponente di problemi, che sono venuti affastellandosi con una varietà di soluzioni contrastanti, la quale denuncia per se stessa la mancanza di sicuri criteri di interpretazione sul piano sistematico. Si comprende perciò l’auspicio di uno sconsolato pretore di provincia, che ha candidamente invocato «un per quanto possibile ¶{p. 372}sollecito intervento della Suprema Corte, che valga a dissipare dubbi altrimenti difficilmente superabili ed a tracciare direttive»
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. Ma, a parte la recente sentenza delle sezioni unite
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, che ha negato l’applicabilità dell’art 28 ai rapporti di impiego con lo Stato con un importante obiter dictum sul problema generale dell’applicabilità di detto articolo ai licenziamenti e ai trasferimenti, a parte questa sentenza, dicevo, la cui rapidità è stata favorita dall’insorgere in via pregiudiziale della questione di regolamento di giurisdizione, il faro della Cassazione tarda ad illuminarsi.
Sul piano sistematico occorre rispondere alla domanda come lo statuto abbia inciso, modificandola, sulla struttura del rapporto di lavoro, e in particolare come reagisca sul piano della considerazione normativa, quale emerge dallo statuto, il nesso strumentale del rapporto di lavoro con l’impresa. La dottrina appare riluttante a impegnarsi in questo tipo di problematica, in parte a causa di certo fastidio oggi di moda per il metodo dogmatico, ma soprattutto perché assorbita dal lavoro di analisi e classificazione di una congerie di pronunce giurisprudenziali le più varie e talora anche le più impensate. Sicché si ha la sensazione, non infondata, che i dati del problema ricostruttivo del rapporto di lavoro non siano ancora maturi, e certo io non sono qui con la presunzione di risolverlo.
Ma che non si tratti di una problematica da sottovalutare, buona soltanto per confezionare titoli accademici, è dimostrato da gravi incertezze circa la nozione di contratto di lavoro, rilevabili proprio nell’area della dottrina e della giurisprudenza più impegnate nello sforzo di estrarre dallo statuto il massimo significato normativo possibile: col risultato che volta a volta vengono assunte in premessa concezioni contraddittorie, a seconda del grado di convenienza dell’una o l’altra alla soluzione cui si vuole pervenire. Il che non giova alla credibilità delle argomentazioni.¶{p. 373}
Ad esempio, per confortare la tesi che gli operai di un reparto a valle della linea di produzione devono essere pagati anche per le ore non lavorate a causa dell’astensione dal lavoro degli addetti ai reparti a monte nel quadro di uno sciopero articolato, è stata riesumata la concezione paleocapitalistica del contratto di lavoro come compravendita di forza-lavoro, alla stregua della quale (del resto con scarsa coerenza) il contenuto della obbligazione del lavoratore viene identificato non nella prestazione di lavoro, bensì nello stare a disposizione del datore per il tempo delimitato dall’orario di lavoro
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. Concezione apertamente contrastata dallo statuto, dove le norme sul diritto di assemblea e sui permessi retribuiti stanno a dimostrare il superamento dell’idea del datore di lavoro come padrone del tempo e dei movimenti del dipendente. E infatti, allorché si presenta l’ulteriore quesito se il datore di lavoro, per ipotesi in mora credendi, abbia l’obbligo di pagare l’intera retribuzione al lavoratore, di cui ha illegittimamente rifiutato l’offerta di prestazione, oppure possa dedurre quanto il lavoratore abbia eventualmente guadagnato occupando il suo tempo al servizio di terzi, allora tale facoltà viene negata in base alla premessa diametralmente opposta che il datore di lavoro «non ha acquistato né la forza-lavoro né il tempo del lavoratore, ma è solo divenuto creditore della esplicazione di un’attività lavorativa in proprio favore»
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. Ma questa premessa è stata di nuovo abbandonata quando si è trattato di decidere la questione se l’obbligo di reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore ingiustamente allontanato dal servizio sia direttamente coercibile nelle forme dell’esecuzione specifica previste dall’art. 612 c.p.c. Per giustificare la soluzione affermativa la sentenza 21 aprile 1972 del pretore di Milano
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ha elaborato una nuova premessa, a tenore della quale nella moderna concezione del rapporto di lavoro, emergente dai principi innovatori della carta costituzionale e dalle conseguenti statuizioni della legge 20 ¶{p. 374}maggio 1970, «la prestazione di lavoro si sottrae alla regola tradizionale che la caratterizzerebbe come puro debito».
Dal punto di vista della nostra indagine si tratta di una delle sentenze più interessanti, o stimolanti come oggi si usa dire. Essa interpreta lo statuto nel senso che la prestazione di lavoro non può più considerarsi materia esclusivamente di un obbligo «del lavoratore», ma è divenuta termine oggettivo di riferimento anche di un diritto del medesimo, distinto e autonomo rispetto al diritto alla retribuzione. Circa la natura di tale diritto l’orientamento del pretore non lascia dubbi. Non si tratterebbe di un semplice diritto di credito, definibile, in senso ellittico, come diritto all’esecuzione della prestazione dedotta in contratto, ma piuttosto di un diritto sul posto di lavoro, strutturalmente analogo al diritto di godimento, e come tale realizzabile indipendentemente dalla cooperazione del datore di lavoro. Infatti, la corrispondente posizione passiva di quest’ultimo è individuata dalla sentenza in un dovere negativo di «tollerare la presenza del lavoratore nel posto di lavoro», cioè appunto nei termini del dovere di pati tipicamente corrispondente ai diritti di godimento. Solo in questi termini si spiega, in linea di logica astratta, il riconoscimento della coercibilità diretta dell’obbligo del datore, nella forma sostitutiva dell’«accompagnamento del lavoratore sul posto di lavoro, ad opera di un ufficiale giudiziario». Ma questa forma non rientra propriamente nella previsione dell’art. 612 c.p.c., concernente l’esecuzione forzata specifica degli obblighi di fare o di non fare: in realtà non è altro che un’estensione al caso di specie della forma esecutiva prevista dall’art. 608 per il rilascio di cose immobili.
Benché il pretore abbia rinunciato a una «disamina approfondita dell’argomento», non occorre molto per rendersi conto che una tesi del genere, ribadita da una successiva sentenza sempre della pretura milanese in data 23 maggio 1972
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, attribuisce allo statuto un significato ¶{p. 375}davvero rivoluzionario. Adottando il linguaggio di uno scrittore americano
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, dovremmo concludere che l’evoluzione del nostro ordinamento è già riuscita a «separare il posto di lavoro dal datore di lavoro», cioè a renderlo indipendente da un rapporto di collaborazione col datore, così che sarebbe superata la concezione contrattualistica del rapporto di lavoro, se non in assoluto, almeno secondo il modello ricevuto dalla nostra cultura giuridica e fissato nell’art. 2094 c.c.
Ma l’idea della separazione del posto di lavoro dal datore di lavoro non è penetrata nello statuto. Certo, se non in generale, almeno in due casi speciali lo statuto riconosce al lavoratore un vero e proprio diritto al posto di lavoro, nel senso che il datore non può limitarsi a retribuire il lavoratore vietandogli l’accesso al posto di lavoro, ma è tenuto a consentirgli l’occupazione fisica del posto. Sono il caso, previsto dall’art. 18, di licenziamento ingiustificato di lavoratori dirigenti di rappresentanze sindacali aziendali o membri di commissione interna, e il caso, più generale, di licenziamento per motivi antisindacali, ammessa, secondo l’opinione ormai abbastanza consolidata, l’applicabilità dell’art. 28. In entrambi i casi l’ordine giudiziale di reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro è assistito da ima forma di coercizione indiretta, costituita nel primo caso dalla sanzione civile della condanna al pagamento al Fondo adeguamento pensioni, per ogni giorno di ritardo, di una somma pari alla retribuzione dovuta al lavoratore; nel secondo caso dalla sanzione penale prevista dall’articolo 650 c.p. Ma questi indici positivi implicano due precisazioni: a) il diritto al posto di lavoro ha struttura obbligatoria, è un diritto di credito al quale è simmetrico da parte del datore un obbligo positivo di cooperazione, funzionalmente ordinato all’attuazione della pretesa del lavoratore; b) la legge considera infun
¶{p. 376}gibile il comportamento dovuto dal datore, e quindi lo esclude dal novero degli obblighi suscettibili di esecuzione in forma specifica a norma dell’art. 612 c.p.c. Invero, la pena pecuniaria è un tipico surrogato delle forme di esecuzione diretta in forma specifica, quando tali forme non siano ammesse in generale, come accadeva sotto l’impero dei codici del 1865, oppure, se ammesse, come nell’attuale codice di procedura civile, non siano applicabili in ragione dell’infungibilità dell’obbligo. Quanto poi all’obbligo di reintegrazione sancito dal decreto o dalla sentenza pronunciati a norma dell’art. 28, è chiaro che, se esso fosse direttamente coercibile nelle forme dell’art. 612 c.p.c., l’applicazione al datore di lavoro della sanzione penale per il solo fatto della mancata spontanea osservanza sarebbe ingiustificata, in quanto colpirebbe un comportamento inidoneo a ledere l’interesse tutelato. La sanzione penale dovrebbe intervenire solo più tardi, e per tutt’altro titolo, qualora nel corso dell’esecuzione forzata il datore di lavoro opponesse resistenza all’ufficiale giudiziario o alla forza pubblica di cui fosse stata chiesta l’assistenza.
Note
[1] «Mass. giur. lav.», 1972, p. 31.
[2] Pret. Ravenna, 23 giugno 1971, in «Riv. giur. lav.», 1971, II, p. 863.
[3] «Mass. giur. lav.», 1972, p. 294.
[4] Pret. Milano, 28 febbraio 1972, ivi, 1972, p. 197.
[5] Alleva, in «Riv. dir. lav.», 1971, p. 93, nota 36.
[6] In Foro it., 1972, I, c. 1411.
[7] In «Mass. giur. lav.», 1972, p. 409. La provvisoria esecuzione concessa con la sentenza della Pretura di Milano, 3 maggio 1972, è stata revocata dalla Corte d’appello di Milano con ordinanza 30 giugno 1972, ivi, 1972, p. 408.
[8] Meyers, Ownership of Jobs, p. 15, citato da Mancini, in «Riv. giur. lav.», 1966, I, p. 114.