Da esuli a francesi
DOI: 10.1401/9788815413031/p1
Introduzione Quando l’esilio non si conclude
Quando nella primavera del 1796 le
armate repubblicane francesi facevano il loro ingresso nei territori della penisola, Antonio
Buttura aveva preso gli ordini sacri da poco meno di due anni e si avviava a una tranquilla
vita religiosa da trascorrere nella terra natia, sulle rive del lago di Garda. Eppure,
questo giovane originario della provincia veronese di Malcesine che proprio in quei giorni
compiva il suo venticinquesimo anno d’età avrebbe vissuto il resto della propria vita in
maniera molto diversa rispetto a quanto aveva fino a quel momento immaginato
[1]
. Di lì a breve, infatti, si sarebbe svestito dell’abito talare per schierarsi a
sostegno della causa rivoluzionaria: così, al trasferimento a Venezia, città nella quale
subito militò nei circoli patriottici e fu segretario del Congresso Veneto, sarebbe a
stretto giro seguito, dopo la stipula del Trattato di Campoformio nell’ottobre 1797, un
nuovo cambio di città che questa volta lo portò a Milano, dove intensificò la sua attività
repubblicana collaborando con le neonate istituzioni cisalpine e intervenendo sui fogli
democratici del tempo
[2]
.
Per questo, qualche anno più tardi, nei
drammatici mesi del 1799 che videro il crollo delle «Repubbliche sorelle» e la crisi del
sogno rivoluzionario italiano, fu costretto, come gran parte dei suoi compagni, a rifugiarsi
oltralpe per sottrarsi all’arresto. Cominciava così il suo esilio in Francia, ossia quella
tappa che, ben oltre il suo singolo caso, si sarebbe rivelata – come ha a suo tempo
ricostruito Anna Maria ¶{p. 12}Rao
[3]
– un passaggio decisivo per la maturazione dell’intera generazione
rivoluzionaria italiana. Tale soggiorno, infatti, avrebbe consentito a uomini di diversa
provenienza e dalle varie competenze di condividere gli stessi luoghi e lo stesso destino,
dando loro modo di confrontarsi con un contesto nazionale, quello francese del post-1789,
che era da tempo in profondo mutamento e che, a far data dal 18 brumaio, sarebbe stato
sempre più caratterizzato dall’ascesa di quel generale corso che proprio nella penisola del
1796 aveva mosso i primi passi della sua folgorante carriera.
In questo scenario, dopo aver raggiunto
Parigi, Buttura dava prova di grandi capacità relazionali, dimostrando subito, nonostante la
provenienza provinciale e la formazione religiosa, di essere a proprio agio anche fra i
prestigiosi nomi di quello che ai tempi era il centro delle grandi trasformazioni europee.
Sin dai primi mesi dal suo arrivo, infatti, seppe cogliere le possibilità offerte dal nuovo
contesto al punto da progressivamente consolidare un soggiorno che pur era cominciato per
esigenze contingenti. La sua rapida integrazione in terra transalpina fu tale da indurlo a
prolungare quel soggiorno anche quando le circostanze contestuali, nel frattempo nuovamente
mutate a seguito del ritorno dei francesi nella penisola sancito dalla vittoria sulle forze
austriache nella battaglia di Marengo del giugno 1800, gli avrebbero potenzialmente permesso
di far rientro in patria. Cosicché, proprio in quell’anno otteneva un incarico come
professore di italiano al Lycée du Prytanée de Saint-Cyr, mentre nel 1802 era nominato
archivista presso quel Ministero degli esteri della neonata Repubblica italiana che era
appena stato installato nella capitale francese. Un incarico, questo, che comunque non gli
impedì di continuare a coltivare la sua passione per la letteratura del proprio paese, dato
che, memore dei non lontani trascorsi giornalistici del Triennio, nell’estate del 1803
fondava il più importante foglio italiano pubblicato nella Francia degli albori del nuovo
secolo, «La Domenica. Giornale letterario-politico», periodico il cui
¶{p. 13}titolo molto dice non solo e non tanto del giorno di uscita dei
numeri, ma soprattutto della sua linea editoriale.
Ma in quei primi anni francesi per
Buttura le soddisfazioni arrivarono anche sul fronte privato, in quanto il suo approdo
oltralpe gli permise di conoscere quella che sarebbe stata la donna della sua vita, una
giovane del posto di nome Nicole Dufour con cui si sposò già ai primi del 1801 e che gli
avrebbe dato ben cinque figli. Proprio allo scopo di ottenere il riconoscimento del
matrimonio da parte della Chiesa di Roma, nel settembre 1803 scriveva al cardinale Giovanni
Battista Caprara, ai tempi legato pontificio in Francia, per sollecitarlo a intercedere in
suo favore e assicurargli la sempre più necessaria «réconciliation» con un’istituzione che
pur egli aveva frequentato fino a qualche tempo prima, ma con cui, dopo la svolta del 1796,
aveva del tutto chiuso i rapporti. La sua lettera merita qui di essere in gran parte
riproposta, perché costituisce una straordinaria testimonianza tanto della svolta
esistenziale che il contatto diretto con la rivoluzione aveva segnato per il suo percorso,
quanto della riuscita integrazione di cui fu protagonista in quel nuovo paese:
Né à Vérone, Italien, j’avais embrassé l’état ecclésiastique moins pour vocation que pour contrainte, et reçu le sacerdoce en 1794 [...]. La révolution survenue, j’en adoptai les principes avec toute l’ardeur de la jeunesse, je les prêchai même à la Société d’instruction publique; je fus employé dans le civil, d’abord à Vérone, ensuite à Venise en qualité de secrétaire du Congrès National. Entrainé par la révolution, je dus émigrer de Vérone à Milan à l’époque du Traité de Campo-Formio, et de Milan à Paris en 1799. Me voyant ici, je formai le dessein de m’y établir. J’obtins une place de professeur au Prytanée en 1800, je fis ma déclaration de demeurer en France et suivant les lois du pays qui m’avait adopté, écoutant trop ma première inclination naturelle, je me mariai avec une Française, le 7 janvier 1801, et suis déjà père de deux enfants [4] .¶{p. 14}
Parole, queste, che racchiudono – con la
schiettezza e la semplicità che solo il concreto agire nel vorticoso turbine di quegli anni
può dare – l’intero senso del lavoro che qui si presenta. Esse, infatti, inducono a
considerare l’esilio anche e soprattutto come una stagione in grado di dischiudere ai suoi
protagonisti nuove e inaspettate prospettive sia sul terreno privato che su quello
professionale. Non è un caso che, tranne una breve parentesi trascorsa a Fiume per incarichi
diplomatici nel biennio 1812-1814, Buttura sarebbe rimasto a Parigi per il resto della sua
vita, conclusasi nella sua abitazione di rue de la Seine solo nel lontano 1831, dopo che ai
lunghi anni da funzionario ministeriale della stagione napoleonica erano subentrati, dal
1815, quelli interamente dedicati alla realizzazione di iniziative culturali protratte per
tutto il corso della Restaurazione e finalizzate alla valorizzazione internazionale della
letteratura italiana
[5]
. E non è un caso nemmeno che la lettera in questione fosse indirizzata non
direttamente alla Santa Sede, ma a quel cardinale Caprara che, nella sua qualità di
mediatore fra Roma e il primo Console, operava appunto a Parigi, perché ciò attesta come
proprio quel soggiorno oltralpe permettesse di tessere relazioni difficilmente attivabili
altrove.
Insomma, per lui come per molti altri
l’esilio non fu un periodo destinato a concludersi con il mutamento delle condizioni
contestuali che ne avevano causato l’avvio, né tantomeno si rivelò una fase del tutto priva
di risvolti positivi. Il suo fu il classico caso di un soggiorno inizialmente imposto dalla
contingenza politica e in seguito prolungatosi a seguito di una libera scelta individuale.
Pertanto, da un punto di vista
concettuale qui si intende suggerire una lettura dell’esperienza dell’esilio in parte
diversa rispetto a quella dei pur interessanti studi che sul tema sono stati dati alle
stampe nel corso degli ultimi decenni, ¶{p. 15}stagione nella quale – tanto
su impulso delle nuove ondate migratorie provenienti dai paesi del sud del mondo, quanto in
considerazione del processo di costruzione dell’Unione europea – ha avuto luogo
un’intensificazione delle ricerche sulla mobilità politica, con particolare riferimento a
quanto avvenuto nel corso del XIX secolo
[6]
. Qui, infatti, ci si propone di riflettere sull’ipotesi per cui – proprio come
Buttura confidava in quel settembre 1803 – per i protagonisti di quell’esperienza fosse
possibile elaborare, sempre nello svolgimento di quel soggiorno, il «dessein de [s’]établir»
nel paese che li aveva accolti. Ci si propone, dunque, di concepire l’esilio non per forza
come una fase contingentata nel tempo e trascorsa nel segreto della cospirazione o nel
silenzio del disimpegno, né tantomeno come una parentesi che, più o meno breve, era sempre
destinata a concludersi con il rientro in patria. Esso fu (anche) il momento di avvio di una
lunga esperienza di vita che, senza implicare l’abbandono delle precedenti convinzioni
politiche, diede modo di conseguire nuove soddisfazioni personali e gratificanti incarichi
professionali.
Certo, nel caotico contesto che
costringe uomini e donne ad abbandonare il proprio paese per mettersi in salvo all’estero,
le difficoltà – tanto di ambientamento, quanto di sostentamento economico – sono tante.
Certo, in un simile scenario la continuazione della lotta politica spesso avviene in
modalità segrete e attraverso forme associazionistiche clandestine. Ma tutto ciò non esclude
che l’esilio possa rivelarsi anche come l’inizio di un nuovo percorso di vita nel quale il
diretto interessato decide, pur con tutte le sofferenze del caso, di prolungare la propria
residenza nel paese che nel momento delle difficoltà gli ha dato alloggio
¶{p. 16}e che nel corso del tempo gli ha offerto inedite possibilità di
realizzazione.
Note
[1] Buttura nacque il 27 marzo 1771, cfr. ANF, BB/11, cart. 114/B, dr. 2591.
[2] M. Galante, Antonio Buttura e la cultura francese, Verona, QuiEdit, 2004.
[3] A.M. Rao, Esuli. L’emigrazione politica italiana in Francia (1792-1802), Napoli, Guida, 1992.
[4] ANF, AF/IV, cart. 1914, dr. 11, f. 126, Lettera di Buttura a Caprara (Parigi, 23/09/1803). Il corsivo è mio. A onor del vero, va detto che nell’autunno 1801, dopo la fine del suo impiego al Prytanée, Buttura accarezzò anche propositi di rientro a Milano e per questo scrisse al governo cisalpino per «aver un impiego nella sua patria», cfr. ASM, Autografi, cart. 116, dr. 47, Lettera di Buttura al governo cisalpino (Parigi, 22/10/1801).
[5] ANF, MC/ET/IX, cart. 1179, Inventaire après décès d’Antoine Buttura (8/09/1831).
[6] C. Brice (a cura di), Exile and the Circulation of Political Practices, Cambridge, Cambridge Scholars, 2020; D. Diaz e H. Vermeren (a cura di), Éloigner et expulser les étrangers au XIXe siècle, numero monografico di «Diasporas. Circulations, migrations, histoire», 33, 2019; L. Fournier-Finocchiaro e C. Clímaco (a cura di), Les exilés politiques espagnols, italiens et portugais en France au XIX e siècle. Questions et perspectives, Paris, L’Harmattan, 2017; S. Aprile, Le Siècle des exilés. Bannis et proscrits de 1789 à la Commune, Paris, Cnrs Éditions, 2010.