Quale welfare dopo la pandemia?
DOI: 10.1401/9788815412003/c12
ConclusioniQueste Conclusioni sono di Lavinia Bifulco e Maria Dodaro
Notizie Autori
Lavinia
Bifulco è professoressa ordinaria di Sociologia presso il Dipartimento di
Sociologia e Ricerca sociale dell’Università di Milano-Bicocca. Si occupa di politiche di
welfare, teorie dell’azione pubblica, governance e partecipazione
sociale, innovazione sociale e istituzionale, gestione delle emergenze in campo sanitario,
filantropia. Fra le sue pubblicazioni recenti, Handbook of Public
Sociology (con V. Borghi, a cura di, 2023).
Notizie Autori
Maria
Dodaro è ricercatrice di Sociologia dei processi economici e del lavoro
nell’Università di Padova. I suoi interessi di ricerca riguardano principalmente i
cambiamenti economici e socioistituzionali dei sistemi di welfare con attenzione alla scala
locale, ai processi di finanziarizzazione, alle dinamiche di responsabilizzazione e
individualizzazione, all’agency. Tra le sue pubblicazioni recenti,
Unpacking the «Start-up City». Entrepreneurship, Neoliberal Governance and
Local Actors Agency (2023).
Abstract
Il volume si chiude tracciando una panoramica della realtà attuale assai poco incoraggiante, caratterizzata da una continuità perfino peggiorativa rispetto al periodo pre-Covid 19. Sembra dunque che lo shock della pandemia non abbia sortito effetti, rivelandosi insufficiente a produrre cambiamenti sia nella sanità, che nel contrasto alla povertà e nel diritto allʼistruzione. In conclusione tuttavia vengono fornite alcune soluzioni e spunti propositivi utili a prefigurare un ideale welfare post-pandemico.
Apriamo queste note conclusive
ritornando al quesito di partenza: quale welfare dopo la pandemia?
Diciamo subito che, se si tratta di
comprendere la realtà nella quale ci troviamo, i capitoli ci restituiscono una situazione di
continuità perfino peggiorativa rispetto al pre-pandemia. Insomma, è come prima ma un po’
peggio. La situazione della sanità è inequivocabile in proposito: l’aumento dei cosiddetti
medici a gettone, l’allungarsi delle liste d’attesa oltre ogni soglia di accettabilità, il
ricorso crescente al privato (per chi può) e la quota sempre maggiore di persone che
rinunciano alle cure sono fatti noti, cui rischiamo di abituarci. L’attualità politica di
questi giorni ci consente di suffragare in tempo reale con altri dati il pessimismo di
queste considerazioni: stando alle ultime note di aggiornamento al documento di
programmazione economica (ottobre 2023) il rapporto fra spesa sanitaria e PIL peggiorerà,
attestandosi al 6% nel 2025 rispetto al 7% del 2022. È poi di fondamentale importanza
sottolineare il significativo arretramento nel contrasto alla povertà causato
dall’abolizione del reddito di cittadinanza evidenziato da Benassi e Busilacchi
(supra), ulteriormente accentuato dall’aumento generalizzato dei
prezzi dopo la pandemia. Per restare ai fatti di stringente attualità, l’anno scolastico e
accademico 2023-2024 è stato aperto da diverse proteste degli studenti e delle studentesse
delle scuole superiori e delle università. Queste proteste richiamano l’attenzione
sull’insufficienza delle risorse destinate alle borse di studio e sull’emergenza abitativa
in molte città, e sull’indebolimento del diritto allo studio che ne consegue, ma va anche
¶{p. 206}evidenziata la domanda di maggiore supporto psicologico nelle
scuole e negli atenei. Il carattere peculiare di questa rivendicazione ci interroga sulla
salute mentale come tassello cruciale del diritto alla salute e, al contempo, sugli effetti
che i cambiamenti in corso hanno sulle vite delle persone, in una società sempre più
individualizzata, performativa e disorientata.
Da questo punto di vista certamente non
aiuta l’ethos di cui è intrisa l’agenda politica dei giorni d’oggi. Un
ethos che esaspera le logiche di iper-responsabilizzazione e
moralizzazione che da anni orientano le politiche di welfare. Inoltre sta riprendendo vita e
linfa l’idea – antica e mai del tutto accantonata – del welfare come beneficenza, come
concessione contingente, condizionata e arbitraria, organizzata attorno all’imperativo del
lavoro [Castel 1995]. Per di più, in parallelo è forte più che mai la spinta a competere per
risorse che sono (definite come) scarse. Le due cose, come sappiamo, si alimentano a
vicenda: le pretese legittime – cioè i diritti – tendono a perdere spazio e legittimità a
favore sia della logica della benevolenza sia della logica di mercato.
Sembra dunque che lo shock della
pandemia non abbia sortito effetti, rivelandosi insufficiente a produrre cambiamenti
sostanziali e quindi significative discontinuità tra il prima e il dopo.
La politica, nel senso della
rappresentanza e delle relative istituzioni, conta molto rispetto a questo. Non è
ragionevole, di fatto, aspettarsi che in un ciclo politico di centro-destra venga rilanciata
un’agenda del welfare. Anche se su specifiche questioni politicamente molto calde, come le
pensioni, un poco di coerenza in più rispetto agli impegni presi in campagna elettorale
avrebbe potuto spostare l’ago della bilancia verso posizioni meno indifendibili. Ma conta
anche lo spazio che il welfare del dopo pandemia ha trovato nel PNRR. Uno spazio
problematico non tanto per la quantità di risorse che sono state assegnate – una volta tanto
non esigue – ma per la continuità sostanziale delle logiche rispetto al pre-pandemia: si
pensi al rapporto fra Stato e mercato, disegnato fondamentalmente in termini di
¶{p. 207}sussidiarietà del ruolo di regolazione del primo rispetto al
secondo; o alla fiducia di stampo quasi fideistico che viene riposta nella tecnologia.
Per mitigare un poco queste tinte cupe,
si può dire che comunque qualcosa sul piano dei discorsi, delle pretese, degli orizzonti di
senso si è incrinato. La sanità peggiora ma si sono levate e si levano diverse voci, molte
più di prima, a richiedere una sanità universalistica e centrata sul territorio. E non
bisogna trascurare la sponda istituzionale che queste voci hanno trovato nell’agenda di
policy relativa alle case di comunità. I decisori nazionali una
lezione l’hanno imparata: il territorio è fondamentale. Con tutte le incognite che rischiano
di compromettere la sua effettiva messa in pratica. Ma questa è comunque una discontinuità
da sottolineare. Oltre a ciò, il lavoro di cura è uscito dall’invisibilità totale e il
dibattito sul salario minimo riflette il maggior grado di percettibilità del lavoro povero.
Le mobilitazioni degli studenti e delle studentesse per il diritto allo studio, all’abitare
e alla salute offrono un altro significativo esempio, anche rispetto alla necessità di
intervenire sull’insieme dei diritti sociali. C’è in generale da registrare uno scollamento,
uno scarto fra l’agenda politica del welfare e le domande sociali emerse con la pandemia. Se
è vero che né il bisogno né la volontà di cambiamento implicano la capacità di attuarlo
(«c’era la volontà, ma mancava la capacità» scriveva Marx nei manoscritti
economico-filosofici del 1844), questo scarto è comunque suscettibile di diventare il punto
di partenza per immaginare e disegnare un diverso welfare.
Ma quale welfare? Riproponiamo qui la
domanda da cui prende le mosse il volume, ma per dire e dirci quale welfare vorremmo che
fosse e, prima ancora, per sottolineare la necessità di interrogarci su problemi che
evidentemente sono di lungo periodo e strutturali. Ci sembra che un motivo cruciale per il
quale il cambiamento è stato più evocato che praticato durante e dopo la pandemia risieda
proprio nella difficoltà di mettere a fuoco e discutere questioni che sono incistate da
tempo nel profondo del nostro welfare. È questo uno sforzo necessario affinché la domanda di
un rafforzamento dei diritti sociali e il maggiore riconoscimento
¶{p. 208}del «valore» del welfare non sfocino semplicemente nel senso di
impotenza. D’altra parte, la scarsa riflessione sui problemi strutturali è strettamente
intrecciata alle difficoltà di immaginare delle alternative.
Su questo fronte ci sembra che il volume
possa aiutare a prefigurare alcuni tratti del welfare come vorremmo che
fosse dopo la pandemia. Nel suo contributo Elena Granaglia riflette
sull’urgenza e sui dilemmi di un sistema di welfare universalistico ed equo in grado di
incidere sulle disuguaglianze avanzando anche proposte concrete nella direzione di un
rafforzamento dell’universalismo, migliorando le capacità redistributive dello Stato
sociale, contrastando la delegittimazione nei confronti dei trasferimenti monetari per le
persone in età da lavoro e sperimentando nuove forme di governance
democratica dei servizi. La riflessione di Caselli, De Angelis e Giullari porta al centro la
prospettiva di un welfare fondato sulla cura come responsabilità collettiva, in cui il
lavoro trovi adeguato riconoscimento. Su questa scia, sono diversi gli autori e le autrici
che hanno posto l’accento sulla necessità di «risocializzare» il welfare invertendo tendenze
che hanno eroso in profondità le sue ragioni costitutive: la tendenza alla celebrazione
dell’auto-organizzazione della società (Mozzana), lo slittamento delle questioni dalla sfera
pubblica a quella privata/morale (Caselli, Dodaro e Moiso), l’invisibilizzazione, anche sul
piano spaziale, della questione sociale (Voglino e Tosi). La rilevanza di queste dinamiche,
che sono trasversali a differenti ambiti di intervento, è riscontrabile – più o meno
esplicitamente – anche nella seconda parte del volume. Con brevi incursioni in vari ambiti
di policy, i contributi qui inclusi hanno evidenziato la necessità di
rafforzare i diritti sociali, in primis: il diritto a un’esistenza
dignitosa attraverso le misure di contrasto alla povertà (Benassi e Busilacchi) e alla
salute (Bifulco, Polizzi e Turri); il diritto all’istruzione basato su una scuola
strutturata principalmente come strumento di giustizia sociale anziché luogo di preparazione
alla competizione nel mercato (Romito e Borgna); e infine l’estensione dei diritti a chi ne
è attualmente per lo più escluso: i giovani, come ci ricordano Alushi e Cela, cui
aggiungiamo anche i ¶{p. 209}migranti la cui assenza in queste pagine
rappresenta uno dei limiti più importanti del volume.
Il volume nel suo insieme dà indicazioni
su alcune strategie possibili. Vorremmo chiudere evidenziando quelli che a nostro parere
sono i fili comuni.
a)
Adottare un approccio sistemico. Non è più possibile pensare che i
problemi del welfare siano risolvibili senza un coordinamento con un fascio di politiche: le
politiche fiscali; le politiche industriali, le politiche per lo sviluppo e quelle per
l’occupazione, la cui debolezza è solo in parte legata alla incerta adesione dell’Italia
agli indirizzi europei in tema di politiche attive per il lavoro; le politiche per il
territorio (si pensi alle vulnerabilità territoriali oltre che ai divari che affliggono il
nostro paese). Il «nuovo patto» che andrebbe messo alla base del welfare del dopo-Covid deve
necessariamente abbracciare più politiche, travalicando confini che sono stati istituiti e
naturalizzati decenni orsono. Altrimenti il welfare da un lato sarà destinato a essere
sempre più residuale, un welfare per i molto poveri. Dall’altro lato, nonostante la sua
residualità, sarà sottoposto a uno stress finanziario crescente, per il doppio vincolo di
problemi sociali in aumento (come si può pensare che in assenza di lavoro decente non
aumenti la povertà?) e risorse in diminuzione (oltre la parentesi del PNRR, occorrerà pur
porsi il problema di come la tassazione in Italia possa operare effettivamente sia come
meccanismo della solidarietà collettiva su base nazionale sia come meccanismo per
ridistribuire valore). Un approccio sistemico chiama naturalmente in causa anche gli altri
livelli di governo, in particolare il quadro normativo europeo e le politiche di
contenimento della spesa pubblica. In ogni caso, da una prospettiva sistemica occorre capire
come riversare in scelte concrete la rinnovata attenzione e preoccupazione che il discorso
pubblico nella pandemia ha dedicato alle questioni ambientali e ai problemi ecologici
indotti dai nostri modelli di crescita. La questione è, difatti, non solo o non tanto
ritornare al passato ma fare fronte alle incertezze, sociali ed ecologiche, del nostro tempo
presente e futuro. Si parla sempre più spesso a tale proposito di uno «stato socioecologico»
le cui fondamenta di solidarietà
¶{p. 210}poggiano sul riconoscimento
dell’interdipendenza fra le questioni della giustizia sociale e quelle, altrettanto
cruciali, della giustizia ambientale.