Bruno Manghi
Declinare crescendo
DOI: 10.1401/9788815413505/c2
Questo messaggio è anzitutto rivolto a una élite di delegati e di responsabili di fabbrica, gli opinion-leaders, coloro che vivono l’organizzazione come obiettivo in sé. Un’area che in questi anni si è grandemente ampliata e che rappresenta il filtro per la costruzione del consenso. Ad essi il compito di rafforzare quella delega verso l’alto che il movimento già spontaneamente offre nell’orizzonte di incertezza e anche di difficoltà di comprensione che caratterizza una crisi lunga e profonda. Il sindacato tende quindi a passare da un ciclo di formazione e di allargamento del consenso di massa a una fase di gestione del consenso. Non è qui in discussione la politicizzazione dell’azione sindacale, bensì il modo di proporla, di condurla e quindi di svuotarla. Si esaltano tutti gli aspetti che accomunano il sindacato a un mezzo di comunicazione di massa. La trasmissione di immagini e di messaggi avviene largamente al di fuori degli organismi dirigenti sindacali: la TV, i quotidiani, i settimanali, sono i canali emergenti esterni, mentre all’interno stanno le manifestazioni, le assemblee «aperte», le conferenze di produzione, i convegni di massa, le grandi kermesses che periodicamente fanno concentrare in grandi città italiane masse di lavoratori. Il linguaggio diventa omogeneo, si affacciano forme di divismo, scompaiono gradualmente i già scarsi elementi di creatività decentrata (giornali di fabbrica, cartelli redatti spontanea
{p. 28}mente), il fischio e l’applauso diventano gli avvenimenti da ricordare, le battaglie tra slogan ritualizzano gli spazi di dibattito.
Le lotte stesse diventano occasione di diffusione di parole d’ordine e di sentimenti, al punto che si può provocatoriamente affermare che, mentre generalmente nel passato moderatismo sindacale significava portare a casa il più possibile lottando il meno possibile, oggi moderatismo significa lottare al massimo rivendicando il meno possibile. Osservazione che nella sua ambiguità qualunquistica coglie quanto nuovo qualunquismo può scaturire da questa tendenza sindacale, ove si affermasse definitivamente. Ciò si accompagna a notevoli modificazioni del comportamento e a una vera e propria ridefinizione dell’organizzazione. Si tratta di un processo ancora in corso (non tutti i giochi sono fatti), ma vale la pena di prevederne le possibili conclusioni. Ci sembra a questo proposito di poter intravvedere quattro contraddizioni emergenti:
  1. si minano le basi non solo di un avanzamento dell’unità sindacale ma della stessa certezza dell’unità d’azione;
  2. avallando la tendenza alla delega e riducendo gli spazi di partecipazione propositiva si costruisce un movimento che avrà molte difficoltà in una fase di transizione, sia sul versante dei sacrifici, sia su quello delle lotte e del controllo;
  3. si riduce un grande processo di politicizzazione in atto alla sola scelta di schieramento e di adesione passiva;
  4. si alimenta per reazione un nuovo spazio di qualunquismo e di emarginazione dai processi di partecipazione.
Naturalmente questo tipo di sindacalismo, se si afferma, ha la possibilità di tenere a lungo, mal{p. 29}grado le contraddizioni che scatena. È compito dei sindacalisti e dei militanti stabilire per tempo quali prezzi sono disposti a pagare rispetto alle speranze ingenue ma non infondate che animarono gli anni ’60 e le lotte 1967-’73. Ma esaminiamo più nel dettaglio alcuni aspetti dell’oggi.

4. Il sindacato e gli altri mezzi di comunicazione di massa

Il messaggio del sindacato viene trasmesso ormai quotidianamente dai grandi mezzi di comunicazione di massa. Siamo passati da un fase di esclusione del sindacato e di una certa riottosità operaistica dei sindacalisti nei confronti dei mass-media alla consacrazione del sindacato come soggetto emergente del sistema politico.
Ieri era difficile strappare la trasmissione radiofonica di una notizia sindacale anche in presenza di avvenimenti straordinari di lotta; oggi fa notizia anche il comunicato redatto in un linguaggio incomprensibile da un’istanza dirigente o il semplice fatto che si riunisce o si aggiorna questo o quel direttivo nazionale. Beninteso, il sindacato non ha conquistato il cuore dei mezzi di comunicazione di massa e cioè la dimensione dei loro messaggi che si rivolge all’universo «privato» delle masse, ma è stato piuttosto conquistato dai mass-media. Al punto che alcuni atteggiamenti e scelte sindacali sono spiegabili soltanto sulla base della preoccupazione di diventare notizia di massa, immagine televisiva, titolo di quotidiano. È alla televisione che i dirigenti sindacali hanno elaborato una immagine del sindacato, forte e rassicurante, braccio saldo e mano tesa, cuore generoso e buonsenso, sapienza economica e amore al lavoro. Esemplare la figura principe, quella di {p. 30}Luciano Lama, sia alla TV, sia al «Corriere», officiato dalla sapiente presentazione di Massimo Riva.
I settimanali politici, come «Panorama» e «L’Espresso», forniscono poi agli addetti ai lavori l’ebbrezza di una quasi verità, tessendo quella trama di pettegolezzo e informazione riservata che è necessaria a ogni grande istituzione. Mentre, al di sopra di tutti, il «Telegiornale» consacra il sindacato e le sue dichiarazioni sempre più rarefatte nel Pantheon della Grande Politica, talvolta subito dopo la recitazione periodica dei comunicati governativi (e questo resta uno degli aspetti meno scalfiti dalla recente riforma).
L’entrata trionfale (ma pagata assai cara) del sindacato nel circuito dei mass-media è stata consentita anche dalla rivolta dei grandi commessi dell’informazione, i giornalisti; una rivolta ambigua in cui la tensione democratica è stata per i più ampiamente inquinata da una affermazione della corporazione, che ben poco ha modificato della sostanza dell’informazione. Il dato interessante e preoccupante è che il sindacato, o meglio il suo gruppo dirigente, utilizza solo apparentemente gli spazi dell’informazione di massa per comunicare con l’opinione esterna: la funzione prevalente è invece quella di trasmettere messaggi e indicazioni al quadro intermedio e agli attivisti, saltando la vecchia struttura degli organi dirigenti e della stampa sindacale, che perpetuano invece un gergo ripetitivo e noiosamente contrattato frase dietro frase.
Il sindacato ha cioè incorporato dentro il proprio circuito decisionale-informativo gli spazi conquistati nei mass-media, evitando di porsi in modo autonomo il problema di organizzare una democrazia interna all’altezza di un sindacalismo moderno e di massa. Naturalmente questo processo di incor{p. 31}poramento e di adeguamento alle regole interne dei massmedia è più un sintomo che una causa di tante modificazioni nel modo di fare il sindacato.
Ma il ritmo a cui procede l’omogeneizzazione del linguaggio sindacale dal vertice alla base, insieme con l’accentuarsi di tutti gli aspetti del consenso, sarebbe difficilmente pensabile se il sindacato non fruisse in questo modo dei mass-media e non si definisse esso stesso come un grandioso mezzo di comunicazione di massa. Un gergo sindacale è sempre esistito (se ne lamentava già Fernando Santi da un’ottica un po’ purista); da sempre parole e segni sono stati appresi dalla base, anche perché dietro i segni ci sono spesso conoscenze, sentimenti, scoperte. Talvolta il gergo sindacale si caratterizzava con elementi del lessico popolare e di fabbrica. L’identificazione passava e passa necessariamente attraverso chiavi simboliche. Oggi siamo al di là di queste dimensioni: i delegati apprendono intere circonlocuzioni, «pacchetti» di atteggiamenti, movimenti logici. Al punto che numerosi militanti, anche in riunioni ristrette, sembrano non parlare tra di loro ma rivolgersi a un interlocutore distante, che non può interloquire ma va magicamente convinto del messaggio autorevole rassicurante e severo recitato a vari livelli di capacità espressiva. I problemi specifici si eclissano; il vero problema, quello politico, non è mai qui, è sempre là, nel «quadro generale», nei cieli della strategia, ed è comunque cosa che non si può decidere ora e in questo luogo. Una caricatura del grande bisogno di politica e anche di ideologia che il sindacato ha scoperto dietro l’orizzonte della contrattazione [1]
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D’altra parte, questo modo di procedere sottrae il sindacato alla pericolosa fluttuazione del consenso legata al successo o all’insuccesso di una singola campagna di lotte, proponendo, invece, l’adesione a una linea di fondo in qualche modo avvicinabile a quella di un partito, anche se forzosamente più imprecisa e monca (almeno esplicitamente) delle conseguenze sul terreno degli schieramenti politici. Non possiamo ignorare che molto di ciò deriva dall’esigenza di sottrarre il movimento operaio a un’ottica di testarda ma perpetua opposizione, circoscritta nelle vicende della vendita della forza-lavoro. Si tratta, allora, di valutare se per questa via si sviluppano davvero le capacità dirigenti alternative del popolo, o non ci si limita a selezionare una nuova élite condizionata solo parzialmente dalla delega passiva delle masse.

5. Contrattazione e lotte

Il trionfo dell’immagine nell’azione sindacale è naturalmente percepibile nel sistema delle relazioni industriali. Già questo sistema, maturato negli anni ’60, appare per certi versi logoro e spiazzato, sia rispetto alla dislocazione nuova delle controparti (accentuato ruolo del potere pubblico e prevalere dei gruppi finanziari e multinazionali), sia all’esigenza di trasferire la logica egualitaria dalla fabbrica
{p. 33}ai rapporti tra i settori e sul piano sociale. Di qui la proposta, su cui c’è stato uno strano riserbo a discutere (con apparenti motivazioni di sinistra), di avvicinarci alla unificazione dei contratti dell’industria e di altri comparti e, in ogni caso, la consapevolezza diffusa che bisogna apportare modifiche di rilievo al sistema contrattuale. Ma i fatti critici determinanti li rinveniamo nella pratica della contrattazione e nei suoi attuali livelli di efficacia.
Note
[1] Per esemplificare la tendenza verso un linguaggio standard basti pensare alla attuale fioritura di verbi e locuzioni di «moto» in tutti i discorsi e i documenti: «andiamo a un confronto», «venire a una stretta», «andare a costruire un rapporto nuovo», «portare avanti il discorso», «andiamo a concludere» ecc. Locuzioni di moto tanto più frequenti quando invece la situazione è di stagnazione, di rimando, di non scelta. Altro esempio è l’uso sfrenato e sostanzialmente terroristico dell’aggettivo «politico» a sostegno di un meccanismo logico per cui ogni cosa specifica diventa «corporativa» e «isolata» e ogni scadenza temporale precisa esula dal «quadro generale».