Paolo Conte
Da esuli a francesi
DOI: 10.1401/9788815413031/c1
dove non si voglia impiegar fuori questi uomini perché si credono pericolosi, domando: che ne faremo dentro? Domando se un governo necessariamente debolissimo può fare a meno di
{p. 58}neutralizzare i partiti impiegandone li individui. Domando se non è preferibile dividerli e spargerli sia in un luogo poi o in altro al tenerli riuniti. Per chi pensa più all’interno che all’estero queste domande troveranno una risposta diversa da quella che si darà da chi pensa più all’estero che all’interno: ossia da chi pensa più alli altrui che ai nostri interessi [55]
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Per Melzi, dunque, la questione dell’inserimento dei rifugiati nell’amministrazione napoleonica si inseriva in una valutazione più ampia che doveva tener conto anche delle necessità del contesto italiano, perché doveva servire sì da strumento per incanalare (e controllare) il dissenso, ma anche da modalità per favorire la dispersione fisica degli uomini ideologicamente più connotati. Non a caso, durante tutta la sua vicepresidenza egli avrebbe ribadito la convinzione per cui, al fine di «neutralizzare il partito de’ patriotti e conservare così sicurezza e quiete», occorresse «tentare di riunire in corpi regolari questo partito, in modo da contenderlo, occupandolo opportunamente all’uopo ancora fuori d’Italia» [56]
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Pertanto, anche dopo la nascita della Repubblica italiana, Milano non sostituì automaticamente Parigi come luogo di confluenza degli esuli del 1799, perché se la politica di Melzi puntava a un allontanamento dei repubblicani più accesi, ancor meno graditi erano i rifugiati di altre nazioni. Discorso nel complesso simile riguardò anche la Torino ormai diventata possedimento francese, tant’è che, nel segnalare l’arrivo a Parigi di Guglielmo Cerise (fra i più importanti giacobini piemontesi e ai tempi annoverato fra gli uomini «qui voulaient une démocratie absolue»), il generale Jacques-François Menou, nella sua funzione di amministratore della 27a Divisione militare, invitava il ministro della giustizia francese Claude Régnier a impiegarlo «dans une manière quelconque» purché fosse «loin de son pays (le Piémont) et aussi loin de Paris, d’où il faut éloigner toute espèce de moyen de ferment» [57]
. Insomma, tanto Torino quanto Mila{p. 59}no si trovavano a vivere, seppur con le dovute differenze, la stessa preoccupazione tipicamente parigina di evitare la concentrazione al proprio interno dei repubblicani giudicati pericolosi.
Del resto, tale presenza suscitava inquietudine anche nella Roma papale, dove in quegli stessi mesi l’ambasciatore François Cacault scriveva al suo superiore Talleyrand che «les plus mauvaises sujets de ces Italiens en France, d’où ils ont été rejetés en Piémont et en Cisalpine», erano lontani dall’«abandonner les espérances ambitieuses que les idées de trouble révolutionnaire avaient présentées à leur imagination». Secondo i rapporti in suo possesso, infatti, questi uomini continuavano ad animare un partito unitario il cui obiettivo era di «détrôner en même temps tous les monarques et faire du pays entier une seule République italienne» [58]
. Non stupisce, pertanto, che già nel marzo 1802, dopo che l’anno precedente il comitato di governo della Cisalpina aveva emanato una circolare che invitava napoletani e romani a rimpatriare approfittando delle intese diplomatiche stipulate dalla Repubblica francese con i rispettivi governi per mezzo del Trattato di Firenze e del Concordato, a Milano prendessero sempre più corpo progetti di allontanamento degli stranieri, fra cui spiccava quello presentato dal patrizio Luigi Porro Lambertenghi [59]
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Di conseguenza, piuttosto difficile diventava il ruolo del ministro Marescalchi, il quale in qualità di titolare del dicastero degli esteri della Repubblica italiana doveva interfacciarsi con Milano per tutelare gli interessi del suo paese, ma al contempo, in quanto operante a Parigi, non poteva ignorare le esigenze di parte transalpina. Cosicché, nel febbraio 1803 questi comunicava a Melzi che, dopo aver consultato il primo Console «sopra tutti i soggetti in genere che sarebbe bene poter allontanare dalla nostra Repubblica», quest’ultimo si era mostrato «costantemente propenso a darvi tutta la mano», ma a condizione che si procedesse al contempo a un altrettanto necessario allontana{p. 60}mento dei rifugiati da Parigi. A suo avviso, se nella capitale francese si poteva chiudere un occhio «per quelli ch’hanno qualche sostanza», meno tolleranza doveva esser riservata per quelli che «non hanno un soldo, i quali sono sempre i più pericolosi» e per i quali si proponeva di procedere all’allontanamento «severamente e fermamente» [60]
. Di qui, la sua proposta di un «progetto d’inviare in qualche modo alle colonie codesti nostri ufficiali riformati» e la risposta di Napoleone che lo invitava piuttosto a concentrarsi sulla possibilità di «formare una Legione Italica, la quale forse non importerebbe che fosse neppur completa, [...] a disegno d’inviarla in qualche luogo ove non potesse nuocere» [61]
. Di qui, ancora, la sua costante sottolineatura circa la necessità di un rapporto più forte che legasse i suoi uffici tanto alla polizia francese, che doveva aggiornarlo sull’arrivo degli stranieri a Parigi, quanto alla divisione degli esteri operante a Milano, che doveva invece esercitare maggiore circospezione nel rilascio dei passaporti per la Francia [62]
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Del resto, il tema del rilascio dei passaporti costituì in quegli anni un terreno alquanto delicato, in particolare in una città come Parigi che diventava sempre più un centro di convergenza continentale. Tale questione assunse una portata rilevante soprattutto dopo che un’ordinanza governativa del 1803 e alcune istruzioni del ministro Fouché dell’anno successivo consolidarono un sistema in cui – come mostrato da Vincent Denis – «l’essentiel n’est pas de contrôler la circulation, mais de savoir qui sont les étrangers, ce qu’ils font et où ils vont» [63]
. Di conseguenza, la priorità era data non più al rilascio preventivo dei passaporti, ma all’obbligo per i viaggiatori di farli vidimare una volta giunti a destinazione. Tutto ciò, non poco alimentato dal clima di crescente sfiducia nei confronti delle autorità frontaliere, si fondava sulla responsabilizzazione delle strutture in loco, {p. 61}le quali – dai titolari degli alberghi ai diplomatici – assumevano un ruolo rilevante nel consentire il soggiorno dei nuovi arrivati, assicurandone al contempo la sorveglianza [64]
. Non a caso, durante la stagione consolare si succedettero diversi progetti volti a potenziare il controllo degli stranieri residenti nella capitale attraverso la sorveglianza dei luoghi d’accoglienza: ad esempio, già sul finire del 1802 era presentata una proposta che prevedeva di «organiser à Paris un bureau ressortissant de la police secrète où les chefs des maisons garnies signaleront journellement les étrangers de tout rang admis à y loger» [65]
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In questo scenario, sul fronte italiano funzioni fondamentali furono assunte dalle istituzioni governative e diplomatiche presenti nella capitale francese. Fra queste, se il ministro degli esteri della Repubblica italiana Marescalchi molto operò per conciliare le esigenze di Napoleone con quelle di Melzi, maggiori problemi creò l’ambasciata della Corte di Napoli sotto la gestione del marchese Del Gallo. Uomo di fiducia della regina, nei tre anni trascorsi a Parigi questi sfruttò tanto la vicinanza al ministro Talleyrand quanto il ruolo di controllore dell’emigrazione napoletana per stringere un solido rapporto con le istituzioni napoleoniche, grazie al quale avrebbe poi ottenuto, con il ritorno dei francesi nel Mezzogiorno d’Italia nel 1806, la carica di titolare del dicastero degli esteri del Regno di Napoli. Sin da subito, egli adottò una politica ambigua nei confronti dei connazionali che affollavano la sua ambasciata: da un lato, per conquistare il favore del ministro francese, se ne servì come spie e ne denunciò i tentativi cospirativi; dall’altro, in ossequio alle direttive provenienti dalla città partenopea, consentì l’arrivo di nuovi migranti vidimandone i passaporti e proteggendone il soggiorno.{p. 62}
Una politica, questa, che risultò sgradita agli stessi esuli del 1799, i quali, per la penna di uno di loro (che restava anonimo, ma che dichiarava di voler «concourir au bien d’une Nation et d’un Pays qui m’offre un asile»), nell’autunno del 1804, ormai compiutasi da pochi mesi la svolta imperiale, denunciavano alla polizia le ripercussioni negative della protezione incontrollata concessa da Del Gallo. In una lunga memoria, si sosteneva la necessità di ridurre il potere discrezionale attribuito all’ambasciatore nel rilascio dei permessi di soggiorno e si proponeva uno strumento «plus efficace et plus convenable à faire disparaître tous abus à cet égard» [66]
. Lo strumento in questione era un «nouveau magistrat intermédiaire entre la Préfecture et l’Ambassadeur de Naples», il quale avrebbe dovuto corrispondere segretamente con il Prefetto provvedendo all’accertamento della moralità dei nuovi arrivati per poi fornirne un rapporto con cui si sarebbe definitivamente deciso se convalidare o meno il permesso rilasciato da Del Gallo. Si trattava, quindi, di un nuovo profilo «qui pourrait être considéré et même nommé Commissaire de Police chargé de la surveillance secrète des étrangers venant de l’Italie méridionale» [67]
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Ma ciò che qui più interessa è che la memoria poneva con forza il tema delle implicazioni geopolitiche legate alla presenza napoletana a Parigi. L’autore, infatti, partiva dalla constatazione che se certo la «mémorable journée de Marengo amena une partie des déportés dans l’Italie», era altrettanto innegabile che, anche dopo il ritorno repubblicano nella penisola, «une grande partie resta dans la France et dans l’Italie et y reste toujours à narrer le roman de ses exploits, des services importantes rendus à la France, de la perte de sa fortune». Tuttavia, i problemi sorgevano sia perché gli esuli rimasti oltralpe non sempre erano repubblicani sinceri e rifugiati integerrimi (tant’è che egli stesso dichiarava di essere «témoin de la dilapidation et des vols
{p. 63}commis par tous ces soi-disant patriotes»), sia perché molti altri napoletani continuavano ad arrivare.
Note
[55] Ibidem, pp. 125-127.
[56] Ibidem, vol. 4, p. 404.
[57] ANF, F/7, cart. 6383, dr. 7821.
[58] ANF, F/7, cart. 4308.
[59] ANF, AF/IV, cart. 1707/B, dr. 3.
[60] Zaghi (a cura di), I carteggi di Francesco Melzi D’Eril, cit., vol. 4, pp. 53-54.
[61] Ibidem, vol. 4, p. 94.
[62] Ibidem, vol. 4, pp. 53-54; vol. 6, p. 49.
[63] V. Denis, Une histoire de l’identité, Seyssel, Champ Vallon, 2008, p. 311.
[64] V. Milliot, La surveillance des migrants et des lieux d’accueil à Paris du XVIe siècle aux années 1830, in Roche (a cura di), La ville promise, cit., pp. 28-29.
[65] ANF, F/7, cart. 6623, Nécessité d’opposer une police diplomatique à celle de même nature qu’exercent en France présomptivement divers cabinets étrangers.
[66] ANF, F/7, cart. 6474, Mémoire sur les sujets du Roi de Naples qui sont répandus dans toutes les grandes villes de l’Empire de France et dans l’Italie, brumaire an XIII (10-11/1804).
[67] Ibidem.