Da esuli a francesi
DOI: 10.1401/9788815413031/c1
Ancor più nei contesti periferici,
poi, questi esuli si mettevano in luce per le loro competenze, riuscendo a farsi
apprezzare anche dalla popolazione locale, che spesso chiedeva esplicitamente la
prosecuzione del loro soggiorno. Casi, questi, di straordinaria importanza, perché
attestano come quest’emigrazione fosse intesa dal paese d’accoglienza più quale risorsa
che come fonte di preoccupazione. Dei vari esempi possibili a tal riguardo quello più
indicativo riguarda i napoletani Matteo Vasta e Agostino Pecchia, il primo medico e il
secondo professore di matematica ed entrambi giunti in Francia nel 1799 per poi
ritrovarsi nel piccolo comune savoiardo di La Chambre a causa di problemi di salute
¶{p. 53}che avevano impedito loro di raggiungere Bourg-en-Bresse per
arruolarsi nella Legione italica. Quando nell’estate del 1801 la Sotto-prefettura del
dipartimento del Mont-Blanc fu incaricata di fornire informazioni sulla condotta dei due
a seguito della loro richiesta di ottenere «l’autorisation de fixer leur résidence en
France», i funzionari non poterono che lodarli riconoscendone la serietà e il positivo
apporto fornito a quelle aree.
Di Pecchia si informava che «quant à
ses moyens d’existence, ils consistent dans le prix de l’enseignement», al punto tale da
dimostrarsi non solo capace di spaziare oltre la sua specifica disciplina (in quanto
insegnava «les langues anciennes, la géographie, l’histoire, l’arithmétique et
l’histoire naturelle»), ma anche disponibile a prestare i propri servizi nella vicina
Saint-Jean-de-Maurienne, dove aveva conquistato la stima generale «par ses procédés doux
et honnêtes et une conduite irréprochable»
[47]
. Su Vasta i commenti erano ancor più elogiativi, dato che si comunicava che
«ses connaissances étendues dans la partie de médecine l’ont fait généralement
rechercher et il n’est pas de jour que l’humanité n’ait à se glorifier des soins qu’il
veut bien donner». Inoltre, nemmeno le convinzioni politiche dei due potevano lasciare
dubbi, dato che se di Pecchia si comunicava che «les opinions qu’il a manifestées sont
dans le meilleur sens», di Vasta si annunciava che egli era «en faveur du gouvernement».
Insomma, davvero tutto portava a ritenere la loro presenza una risorsa da non farsi
sfuggire e dunque a chiedere al ministro Fouché di autorizzare – come poi sarebbe
avvenuto – il prosieguo della loro residenza in Francia
[48]
.
Dunque, proprio nella fase in cui un
gran numero di esuli ritornava nella penisola nuovamente occupata dai francesi, proprio
nei mesi in cui a Parigi discutibili comportamenti individuali e ambigue posizioni
politiche destavano l’allarme della polizia, non mancavano casi di italiani giudicati
talmente virtuosi da rendere la continuazione del loro soggiorno oltralpe non solo
possibile, ma addirittura auspicabile.¶{p. 54}
3. La coordinazione della mobilità: una questione internazionale
Nello stesso mese di marzo 1801 in
cui a Parigi si scioglieva la Commissione per il soccorso ai rifugiati, a Firenze, dopo
settimane di trattative diplomatiche, veniva approvata la pace fra la Repubblica
francese e la Corte di Napoli. Si sanciva così il seppur parziale riavvicinamento fra
due paesi che, a seguito dell’adesione della Corte borbonica alla «seconda coalizione»
anti-francese, avevano combattuto su fronti opposti nel 1799. Nelle intenzioni dei
firmatari, il testo avrebbe dovuto avere ripercussioni anche sul fronte dei rifugiati in
Francia, in quanto mirava a favorire il rientro in patria dei napoletani protagonisti
delle recenti vicende. Nello specifico, l’articolo 7 prevedeva che:
S.M. Sicilienne s’engage aussi à permettre que tous de ses sujets qui n’auraient été poursuivis, bannis, ou forcés de s’expatrier volontairement que pour des faits relatifs au séjour des Français dans le Royaume de Naples, retournent librement dans leur pays et soient réintégrés dans leurs biens.
Insomma, si confermava anche per via
diplomatica la volontà di agire per un riordinamento del quadro politico che permettesse
l’allontanamento degli esuli meridionali dai territori dell’Esagono.
Tuttavia, proprio come era successo
dopo i provvedimenti prefettizi, la reazione di parte italiana fu di difendere la
continuazione del proprio soggiorno transalpino. Del resto, gli stessi accordi di pace
lasciavano molti dubbi sull’effettiva garanzia di un rientro a Napoli, tanto da rendere
non solo preferibile, ma quasi necessario il rifiuto di partire. Infatti, già nei giorni
precedenti l’approvazione del trattato, avvenuta il 28 marzo, in un estremo tentativo di
sollecitare una revisione delle decisioni ormai prossime alla ratifica, alcuni rifugiati
indirizzavano al primo Console una memoria contenente le loro perplessità su quegli
accordi. Significativo, tra l’altro, che a farlo fossero proprio i due ex componenti
della Commissione, ossia Ciaia e Paribelli, perché ciò attesta la continuità
dell’operato dei più importanti esponenti dell’e¶{p. 55}migrazione
meridionale anche dopo l’esaurimento delle loro funzioni istituzionali
[49]
. I due contestavano proprio l’articolo 7, giudicato troppo ambiguo nelle
modalità d’esecuzione del ritorno in patria, perché a loro avviso avrebbe messo gli
esuli in balia della Corte borbonica, che non avrebbe fatto altro che sfruttare ogni
pretesto per «achever sa vengeance et rendre évasif l’article de l’amnistie»
[50]
.
Al di là delle garanzie sul rientro,
nella memoria molto si insisteva su un aspetto solo apparentemente secondario quale il
recupero dei beni lasciati nel Regno
[51]
. Anche da questo punto di vista l’articolo 7 creava ampie ambiguità, perché
non solo non specificava se e come tale possesso poteva essere esercitato dall’estero,
ma soprattutto nulla diceva riguardo l’auspicata soppressione del
valimento, cioè una tassa sui beni che i feudatari dimoranti
fuori dai territori nazionali dovevano versare alla corona. La questione assumeva una
certa valenza perché da essa passavano le possibilità di recuperare le ricchezze mobili
o i prodotti di quelle immobili. Non a caso, la richiesta dell’abolizione del
valimento sarebbe divenuta ancor più pressante quando, nel
novembre successivo, la Corte napoletana approvò il sequestro dei beni dei cittadini
assenti.
Per questo, già ai primi di
dicembre, sulla questione interveniva uno dei più anziani rifugiati napoletani a Parigi
quale Michele Torcia, in passato segretario di Legazione del Regno di Napoli in Olanda
per poi schierarsi a sostegno della causa repubblicana nel 1799. Indirizzandosi al
neonato Tribunato, questi chiedeva la restituzione dei beni di circa «trois cents
exilés», insistendo sulla necessità di estendere tale restituzione alle «classes
nécessiteuses», al cui interno individuava in particolare uomini con ruoli intellettuali
e artistici
[52]
. Qualche mese più tardi, nel marzo 1802, altri
ri¶{p. 56}fugiati inviavano ai consoli una memoria in cui descrivevano
il valimento come un inaccettabile «impôt extraordinaire» con cui
la Corte di Napoli, «forcée par l’article 7 du traité de Florence à rendre nos biens
saisis à cause des événements de ce pays, a trouvé le moyen de les ressaisir sous le
prétexte de notre absence du Royaume». Gli autori della petizione (Pietro Battiloro,
Alessandro D’Azzia, Michele De Tommaso, Pasquale Falcigno, Domenico Tupputi e l’ormai
qui noto Francesco Ciaia) chiedevano non solo la «restitution de leur revenus perçus par
le fisc», ma anche una piena «liberté d’exportation», cioè il permesso di «vendre et
aliéner leurs biens et d’en exporter les biens hors du Royaume», in tal modo attestando
come nei loro animi la prospettiva della continuazione del soggiorno all’estero fosse
ormai sempre più consistente
[53]
.
È significativo, dunque, che nella
primavera del 1802, a un anno di distanza dal Trattato di Firenze, ad attirare
l’attenzione degli esuli napoletani fossero non tanto le omissioni del testo in merito
alle mancate garanzie dovute a coloro i quali volessero far rientro in patria, quanto le
necessità di recuperare le proprie ricchezze. Infatti, sottrarre i propri beni al
sequestro borbonico o scongiurare il pagamento del valimento
significava poter usufruire della disponibilità economica necessaria per la
sopravvivenza all’estero.
Qualche mese prima, inoltre, lo
svolgimento dei Comizi di Lione aveva ulteriormente modificato le linee della gestione
dei rifugiati. La decisione assunta in quel congresso, ossia l’istituzione di una
Repubblica italiana con capitale a Milano e con un presidente operante a Parigi (così
come operante a Parigi era il ministro degli esteri, individuato nella figura di
Ferdinando Marescalchi), rendeva ormai il coordinamento degli esuli non più una
questione di esclusiva competenza francese, bensì un tema dalle implicazioni molteplici
e dai connotati più accentuatamente europei. Se fino a quel momento favorire il ritorno
di uomini collocatisi su posizioni repubblicane era stata operazione che aveva risposto
soprattutto alla necessità di scongiurare disordini ¶{p. 57}in terra
francese, da quel momento tale operazione doveva tener maggiormente conto degli
equilibri e dei bisogni delineatisi a Milano, dove non solo erano sempre meno graditi
gli italiani di altre realtà statuali (i quali, soprattutto napoletani, avevano già dato
prove tutt’altro che rassicuranti nel corso del Triennio), ma risultavano alquanto
indigesti anche quei cittadini locali appena rientrati dalla Francia.
L’esempio più significativo è
costituito da quel Cesare Paribelli che, dopo esser stato fra i protagonisti della
Repubblica napoletana e poi fra i più attivi esponenti dell’esilio parigino, nella tarda
primavera del 1802 aveva fatto ritorno a Milano, dove, da valtellinese, aveva chiesto e
ottenuto un incarico diplomatico. La decisione del vicepresidente della Repubblica, il
nobile moderato Francesco Melzi d’Eril, fu di nominarlo segretario di legazione a Berna,
ma tale scelta fu poco apprezzata dal presidente Bonaparte che, dopo averne preso atto
con disappunto, si affrettò a imporre il richiamo per mezzo del ministro degli esteri
Marescalchi. La convinzione del primo Console era che, essendo Paribelli «sempre il
rivoluzionario di Napoli, un intrigante smascherato», il suo incarico in Svizzera
contravvenisse all’importante «massima di non mandar fuori persona che abbia la menoma
aria di rivoluzione»
[54]
. A Melzi, pertanto, non restava far altro che richiamarlo a Milano e
provvedimento simile prese in quegli stessi giorni anche per un altro patriota «assai
caldo e [...] di molto entusiasmo» quale il veneto Ugo Foscolo, destinato a un incarico
simile in Toscana. Al tempo stesso, però, il vicepresidente non nascondeva a Marescalchi
i suoi dubbi su una simile gestione, attestando tra l’altro come il suo proposito fosse
di avviare la dispersione logistica degli uomini politicamente più pericolosi e non
certo di favorire la loro valorizzazione istituzionale:
dove non si voglia impiegar fuori questi uomini perché si credono pericolosi, domando: che ne faremo dentro? Domando se un governo necessariamente debolissimo può fare a meno di¶{p. 58}neutralizzare i partiti impiegandone li individui. Domando se non è preferibile dividerli e spargerli sia in un luogo poi o in altro al tenerli riuniti. Per chi pensa più all’interno che all’estero queste domande troveranno una risposta diversa da quella che si darà da chi pensa più all’estero che all’interno: ossia da chi pensa più alli altrui che ai nostri interessi [55] .
Note
[47] ANF, F/7, cart. 7809, dr. 5.
[48] Ibidem.
[49] Conte, Cesare Paribelli, cit., pp. 298-308.
[50] AMAE, Cp, Naples, cart. 127, ff. 125-132.
[51] Sul sequestro dei beni degli esuli: C. Brice (a cura di), Proprietà e politica: esilio sequestri e confische nel lungo Ottocento italiano, numero monografico di «Mélanges de l’École française de Rome», 129, 2017.
[52] M. Torcia, Lettre au Citoyen Chabaud-Latour, Paris, 10 frimaire X (1/12/1801).
[53] AMAE, Cp, Naples, cart. 127, ff. 265-266.
[54] C. Zaghi (a cura di), I carteggi di Francesco Melzi D’Eril duca di Lodi, Milano, 1958, vol. 2, pp. 88-89.
[55] Ibidem, pp. 125-127.