Paolo Conte
Da esuli a francesi
DOI: 10.1401/9788815413031/c3
Insomma, proprio il lavoro nelle istituzioni serviva ai patrioti italiani – anche a Parigi e anche per breve tempo – a superare (almeno in parte) reticenze e scetticismi e così costruire nuovi legami senza per questo abbandonare le posizioni degli anni precedenti. Del resto, alla bontà di tale operato dava ancora una volta un generale riconoscimento lo stesso Marescalchi, ammettendo, sin dall’ottobre 1802, che «se abbiamo avuto qui qualche cattivo soggetto, ne abbiamo di quelli che fanno onore» [65]
.
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Tuttavia, occorre fare attenzione a non semplificare le modalità d’inclusione di tali uomini negli organismi napoleonici a Parigi, perché tale inserimento fu sì uno strumento per accrescere il consenso, servì certo quale meccanismo di controllo nei confronti di un personale giudicato potenzialmente pericoloso, ma comunque non fu affatto scontato e automatico. Esso, infatti, non poteva non tener conto di questioni di squisita opportunità politica, tanto più in una realtà, quella parigina, in cui il prestigio e la delicatezza delle materie trattate richiedevano una certa cautela nella selezione dei funzionari.
Cosicché, non mancarono i casi in cui fu proprio Marescalchi a favorire l’estromissione da cariche pubbliche di uomini giudicati pericolosi. Fu quanto avvenne al milanese Francesco Visconti, ex ambasciatore cisalpino a Parigi nel Triennio e poi tornato in Francia a causa dell’emarginazione subita per volontà di Melzi. Sul suo conto, nel settembre 1802, il ministro degli esteri parlava come di un uomo «con poca testa e idee sconvolte» e descriveva con preoccupazione l’«aria d’osservatore» che lo aveva indotto a stendere «qualche rapporto politico, di cui non si asterrà dal far parte costì ai suoi aderenti» [66]
. Situazione simile fu quella del professore bolognese Giovanni Aldini, per il quale nel dicembre 1803 chiedeva l’espulsione da Parigi perché disgustato dai modi con cui questi era solito comportarsi nei saloni della capitale, dove «non si presenta[va] in un luogo che non applichi tosto le sue mani a palpeggiare le natiche delle signore» [67]
. A tale motivazione, tuttavia, se ne aggiungeva un’altra più segreta, ossia la circostanza per cui l’Aldini in questione fosse il fratello di quell’Antonio che era il principale avversario di Marescalchi alla carica di ministro degli esteri e che, non a caso, nel 1805, con la trasformazione della Repubblica in Regno, sarebbe stato nominato segretario di Stato a Parigi contrastandolo nel ruolo di principale referente italiano di Napoleone.
Quanto a Melzi, poi, ancor più accanita era la sua {p. 119}avversione nell’assegnare incarichi istituzionali a uomini politicamente connotati. Se per Celentani i toni critici non erano bastati a scongiurarne l’inserimento nel dicastero parigino a causa del sostegno a questi fornito dal ministro Berthier, maggiore successo ottenne per Pietro Pulli, altro napoletano raccomandato da un’importante personalità francese quale il generale Jean-Pierre Lacombe-Saint-Michel. Nell’estate del 1804, infatti, dopo aver motivato la propria ostilità con la descrizione dei «danni abbastanza rilevanti» che questi aveva procurato alla Repubblica [68]
, faceva notare come Pulli non fosse «cittadino nostro, ma un napoletano rifugiato, testa calda se ve n’è uno» [69]
. In maniera piccata, poi, aggiungeva che proprio le informazioni ricevute circa la sua condotta parigina non facevano che confermarlo nella convinzione di estrometterlo da incarichi in Italia:
Se quest’uomo è di tanta abilità e pieno di tanti meriti in faccia al governo francese, non conviene ch’egli se ne privi per farne regalo a noi che non sappiamo che farne. Se anche la mia determinazione di allontanarlo da impiego fosse stata mal fondata, la sua condotta a Parigi, dove egli nella lettera dice essersi portato solo per collocare un figlio nel Prittaneo, ma dev’essere invece per servire agli intrighi di Lacombe, i suoi conseguenti discorsi contro del governo italiano, le sue memorie contro i sistemi e le determinazioni nostre, e tutto ciò che voi me ne scrivete avrebbero bastato a giustificarla pienamente. [...] e ditelo pur francamente a chi che sia, che io non sono in conto alcuno disposto a impiegare quest’uomo qui. E per i meriti ch’egli aver può presso il governo francese, pensi questo a premiarlo impiegandolo costì, ma non fra noi [70]
.
Insomma, se da un lato la presenza a Parigi del Ministero degli esteri della Repubblica italiana costituì un punto di riferimento importante per il mondo dell’emigrazione peninsulare, dall’altro l’accesso ai suoi uffici si rivelò non sempre dei più facili e comunque costantemente condizionato dal profilo dei soggetti in questione.{p. 120}
A tal riguardo, un’ulteriore conferma (seppur in negativo) è data dal percorso in Francia di un altro napoletano quale Luigi Pio. Giunto nella capitale transalpina sin dai primissimi anni Ottanta proprio per ricoprire funzioni diplomatiche, a seguito della presa della Bastiglia questi aveva abbandonato la carica di ambasciatore del Regno di Napoli per sostenere la causa rivoluzionaria militando nei circoli giacobini della stagione convenzionale [71]
. Anche per questo, con la svolta di termidoro si era ritrovato senza impieghi, ma aveva comunque deciso di prolungare il soggiorno oltralpe riarticolando il proprio impegno su un terreno culturale: cosa che, nella {p. 121}stagione napoleonica, da un lato gli permise di guadagnarsi da vivere attraverso corsi privati di lingua e dall’altro lo portò, pur senza mai abbandonare più espliciti propositi politici [72]
, a dare alle stampe per l’editore Louis Fayolle due antologie dei più distinti scrittori italiani [73]
.
Tuttavia, a causa dell’emarginazione impostagli sia dall’ambasciata napoletana che dagli organismi napoleonici, lo sperato impiego nel campo della diplomazia italiana continuò a non arrivare. Per questo, seppur invano, provò ad alleviare le difficoltà finanziarie facendo leva sulle antiche conoscenze contratte fra le sale della politica estera pre-rivoluzionaria. Così, nel marzo 1803, scrivendo a un suo vecchio amico d’oltre-atlantico al quale diceva di conservare, «malgré quatorze années d’éloignement», una grande riconoscenza per «les premières leçons de Liberté» da questi ricevute, gli comunicava disperato di essere oramai «réduit presque à la mendicité, car on me refuse tout emploi» e di essere per questo «obligé de donner des leçons de langue pour exister» [74]
. Per la cronaca, rispetto a lui l’amico in questione aveva nel frattempo ottenuto maggior successo nelle istituzioni del proprio paese, dato che si trattava di Thomas Jefferson e che, da circa un biennio, si era insediato alla presidenza degli Stati Uniti d’America.
Note
[65] Ibidem, vol. 3, p. 15.
[66] Ibidem, vol. 2, pp. 368-371.
[67] Ibidem, vol. 2, p. 371.
[68] Ibidem, vol. 6, p. 320.
[69] Ibidem, vol. 6, pp. 349-350.
[70] Ibidem.
[71] Sul suo impegno durante la rivoluzione vedi: E.J. Mannucci, Un napoletano nella Rivoluzione francese: appunti per una biografia di Luigi Pio, in «Mediterranea», 57, 2023, pp. 133-158; V. Martin, La diplomatie en Révolution. Structures, agents, pratique et renseignements diplomatiques: l’exemple des agents français en Italie (1789-1796), tesi di dottorato sostenuta all’Université de Paris 1, 2011, t. 2, pp. 452-471; A. Mathiez, La Révolution et les étrangères. Le chevalier Pio, in «Annales Révolutionnaires», 11, 1919, pp. 94-104. Sull’attenzione consacrata a Pio dalla storiografia rivoluzionaria sia qui consentito aprire una breve parentesi per far notare come il primo ad accendere i riflettori sul suo conto fu lo storico robespierrista Albert Mathiez. Nel suo citato articolo del 1919, questi sviluppò su Pio alcune iniziali ricerche già anticipate l’anno prima, quando, in occasione della fine del primo conflitto mondiale, aveva pubblicato – all’esplicito scopo di proporre l’internazionalismo rivoluzionario degli anni della Convenzione quale modello per l’Europa appena uscita dal baratro di una guerra non poco alimentata dai nazionalismi del tempo – il suo insuperato La Révolution et les étrangères: cosmopolitisme et défense nationale (Paris, La Renaissance du livre, 1918). Dunque, nella sua meritoria attenzione al ruolo degli stranieri nelle vicende rivoluzionarie, Mathiez, ai tempi alla ricerca di una figura in grado di legare il patriottismo italiano al giacobinismo robespierrista per evidenziare l’influenza di quest’ultimo ben oltre il territorio nazionale, si concentrò inizialmente proprio sulla figura del diplomatico napoletano. In seguito, tuttavia, dirottò i suoi studi sul toscano Filippo Buonarroti, profilo che a suo avviso meglio si prestava a tale obiettivo, in tal modo ponendo le basi per la grande attenzione su quest’ultimo che caratterizzò la storiografia rivoluzionaria del secondo dopoguerra. Insomma, l’interesse nei confronti di Pio nasceva in Francia più che in Italia ed era legato proprio ai suoi presunti rapporti con la classe dirigente della stagione del «Terrore»: anche per questo, poco o nulla sarebbe stato in seguito indagato circa il suo operato oltralpe negli anni direttoriali prima e napoleonici dopo.
[72] A. Aulard (a cura di), Paris sous le Premier Empire, Paris, Cerf, 1912, vol. 1, p. 788.
[73] L. Pio, Lettere italiane di più distinti scrittori, Paris, Fayolle, 1807; Id., Scelta di alcune commedie del Goldoni, per uso de’ dilettanti della lingua italiana, Paris, Fayolle, 1810.
[74] B. Oberg (a cura di), The Papers of Thomas Jefferson, Princeton, Princeton University Press, 2013, vol. 40, pp. 122-124.