Aris Accornero
Il lavoro come ideologia
DOI: 10.1401/9788815410511/c2
Sono scelte da non drammatizzare, da non vivere come iatture. (Onestamente: è poi così gran male, gran perdita, se l’autorealizzazione si esternalizza?). Ma comunque sono cose oltremodo impegnative, che si potrebbero considerare avventure solo se non si impones
{p. 79}sero, anche e proprio al movimento operaio, che del Lavoro è il depositario indiscusso perfino quando si presenta sotto conformazioni a noi inconsuete; ma che nei prossimi lustri potrebbe andare incontro ad una «rivoluzione passiva» nella propria composizione sociale e al progressivo decadimento di titolarità nella rappresentanza politica.
Con questo, non si suggerisce di mollare l’ancoraggio al baricentro produttivo dell’identificazione. Si invita ad abbandonare l’operaismo faber, sovente rituale, scarsamente egemone, quintessenza sociologica di una ideologia del lavoro ormai agli sgoccioli [81]
. Sullo scorcio del secolo, è oltretutto l’unico modo che io veda per non fare il funerale a ciò che abbiamo chiamato centralità operaia, la quale va salvaguardata come opzione politica e non già come dogma scientifico. Ciò richiede che valenze ed identità del lavoro e del lavoratore salariato vengano districate dai lacci e lacciuoli in cui furori ideologici e fervore moralistico imbrigliano tuttora l’analisi sociale e anche l’iniziativa politica.
Che il lavoro sia alla base dell’identità sociale, non è né un bene né un male: è un fatto storico. E che oggi esso sia meno cogente di un secolo fa, anche questo non è né un male né un bene: è una tendenza della medesima formazione storico-sociale che ha generato tale base di identificazione. È possibile tenere conto di questa tendenza, o fame addirittura virtù, senza partire da pre-giudizi di valore, senza rimpiangere che finiscano questi ultimi 100 anni? Durante i quali il censo è stato sì soppiantato dalla professione, ma a più di metà della popolazione il ruolo lavorativo veniva ugualmente prescritto fin dalla nascita, non rimanendo ad essa che stare dentro al proprio destino sociale oppure ingegnarsi a sgusciarne via.
Che l’identità venga dalla professione, è stata certo una conquista della società e dell’umanità stessa. Ma non è detto che sia l’ultimo grido dell’identificazione sociale, così come non è detto che le istituzioni della democrazia parlamentare siano le colonne d’Ercole della partecipazione politica. Infatti è già in corso un distacco {p. 80}graduale dalla professione in senso pieno, a vita, mentre cresce il riferimento al lavoro o ai lavori concretamente svolti. L’identificazione sociale, cioè, si sta ulteriormente democratizzando. Ma questo processo, a sua volta, non può che aumentare l’influsso parallelo di ciò che lavoro non è pur essendo magari attività: dalla formazione alla partecipazione. È a questo che occorre pensare, fuoriuscendo noi stessi da determinazioni dettate dall’antropologia sociale o pretese dall’economia politica: appunto, dalla professione e dal valore.
Ripeto: è così gran male, così grave jattura, se l’autorealizzazione si esternalizza? Io dico di no. Il problema è se ciò sia possibile collettivamente al di là di uno stantio «fatevi da soli» borghese.
Se sia possibile, prima ancora che giusto. E qui si incontrano obiezioni le quali partono esattamente dal lato opposto del problema, cioè dall’interrogativo se non occorra viceversa preservare, dall’influsso estraneo e nocivo della società — dall’altro-dal-lavoro —, uno «stile specifico di classe», un «nucleo durevole di valori proletari», che evidentemente si plasmano prima di tutto alla dura scuola del lavoro [82]
.
Ritengo inutile aprire una polemica con chi intende la società come zona franca del capitale, alla quale vorrebbe contrapporre la fabbrica come regno della classe operaia: è sempre la dicotomia fra il consumo corruttore e la produzione sana, è sempre il producteur calvinista. Sono posizioni non solo scettiche sulla natura dell’uomo ma fataliste circa un suo imbarbarimento da ozio: da qui le virtù antropologicamente fondative del lavoro manuale, da qui la fabbrica come luogo di ascesi.
Se in queste posizioni vi è soltanto una nostalgia operaista, si potrebbe almeno convenire che una via d’intesa, di sperimentazione e d’uscita — proprio per mantenere su basi sociali la centralità politica della classe operaia — è appunto quella di aprirsi e di aprire al lavoro socialmente utile. Noi sappiamo infatti che da qui entreranno necessariamente pezzi d’identità e materiali d’identificazione inconsueti, più vicini alla vita so{p. 81}ciale che al processo produttivo, e nondimeno pienamente legittimabili oltre che legittimi. Se invece vi è l’intramontabile petizione che dal giovane Lenin in poi va chiamata economistica, allora mi sembra difficile avviare una discussione proficua; mancano le premesse minime di riferimento per liberarsi da ciò che, di fronte a questo allentamento del nesso lavoro-identità, rende molti di noi smarriti, e qualcuno fa incaponire. Cosa occorre, cosa si richiede infatti?
a) Innanzitutto, e preliminarmente, si richiede che la conoscenza e la decisione in fatto di lavoro e identità siano sottratte al vincolo della misurabilità economica, subdola schiavitù per il pensiero e l’azione del movimento operaio [83]
. Tale pretesa va addirittura ricusata se condiziona il riconoscimento sociale e la definizione di classe: sarebbe come se la legittimazione politica del movimento operaio dovesse sottostare a un esame di dimostrabilità scientifica dello sfruttamento capitalistico. Che peraltro il vecchio Marx spiega in modo plausibile [84]
. Non stiamo cercando di far funzionare sulla lavagna la teoria del plusvalore, che taluno giudica ermeneuticamente infondata ed altri tecnicamente insostenibile [85]
. (Non è forse altamente a-scientifica una nozione di tutta evidenza quale quella di produttività sociale? E Schmitt non ha forse coniato quella, chiarissima, di plusvalore politico [86]
?).
b) Si richiede in secondo luogo che analisi sociale e iniziativa politica escano dal ginepraio dell’ortodossia filologica, con la quale specialisti e dilettanti cercano di compattare o di conciliare le varie definizioni di Marx circa il carattere produttivo o no dei lavori [87]
. Troppe dispute, a base di citazioni esatte o di interpretazioni stiracchiate, riposano sulla comoda e dottrinaria certezza che, una volta definito il lavoro rispetto al valore, è bell’e collocato il lavoratore rispetto alla società. Produttivo/improduttivo: in questa maniera, l’accertamento dell’identità sociale e della collocazione di classe procede direttamente dall’esame del come si produce che cosa [88]
. È ancora il lavoro che produce il lavoratore e financo la sua coscienza, il lavoro produttivo o improduttivo di {p. 82}identità… Ma noi non stiamo andando a rinvenire quanta e quale identità sociale venga dal lavoro così dicotomizzato.
c) Non stiamo nemmeno andando a ritoccare in senso estensivo la nozione di lavoro produttivo e di composizione di classe, in modo da consentire un riconoscimento surrettizio di ceti e strati lavoratori, mediante certificato di utilità implicita: espediente che ha già portato a dichiarare «forza produttiva» la scienza, «atelier totale» l’università e «capitale umano» la cultura individuale [89]
. Espediente col quale non si va oltre l’evocazione di quei nuovi zappatori che sono il proletario dei servizi e l’operaio sociale. Siccome cresce la massa di lavoratori (e no) che Marx ha lasciato fuori dal lavoro maiuscolo, quello produttivo, c’è chi se la cava infatti aggiustando e dilatando la definizione fino a mutarne il significato secondo le necessità presenti, nel timore di dover buttare lo schema concettuale, o comunque di trovarsi senza [90]
. A mezza strada si colloca poi chi rivendica «una analisi adeguata del rapporto fabbrica-società che riempia finalmente la “proletarizzazione” di contenuti materiali attraverso l’estensione del lavoro produttivo (di valore) a una serie di attività e quindi di strati di popolazione che in Marx non trovano uno statuto di classe “oggettivo” e che la sociologia borghese definisce ora in termini di ceto medio terziario» [91]
. Si richiede pertanto, in terzo luogo, che analisi sociale e iniziativa politica rifuggano le invereconde torsioni del revisionismo réspécteus e continuista [92]
.
d) Infine si richiede che la conoscenza e la decisione in fatto di lavoro e di identità non soggiacciano al ricatto del giudizio moralistico, la schiavitù più pesante per il pensiero e per l’azione del movimento operaio. Non stiamo infatti provando a sostituire una categoria morale con un’altra, entro lo spazio etico del lavoro sociale: l’attività utile al posto di quella produttiva. (Sarebbe un po’ come ritentare da sinistra quel che da tutt’altra sponda fecero i teorici dell’economia marginalista, riconducendo e riducendo il valore all’utilità…). Anche perché è proprio qui che s’invischiano poi le {p. 83}dispute su quale il lavoro non produttivo, quali i lavoratori improduttivi, e perché, e come giudicarli di conseguenza. Lo scopo in genere è elevato, le ragioni sovente comprensibili, ma gli esiti, quelli sono sempre deleteri [93]
.
Non per trovare le soluzioni, ma già soltanto per riconoscere i problemi, sarà bene dunque d’ora in poi — benché dispiaccia — rinunciare all’operaismo faber, se non altro perché simboleggia tutte quelle rigidezze, vetustà e illusioni che ossificano il giudizio del movimento operaio sul lavoro, facendone un’ideologia [94]
. Ridefinire uno statuto sociale al lavoro salariato; individuare una via di superamento del modello proletario: questi sono i problemi, per l’analisi sociale e per l’iniziativa politica. Ma se la definizione dell’identità sociale è tratta da quella del ruolo lavorativo, e questa è desunta a sua volta dalla grandezza del valore, il metro dell’identificazione non va certo più in là di quello della produzione e lascia fuori tutto il resto. Così abbiamo una lettura parziale ed unilaterale dell’identità, come pure della classe e del lavoro, misurati soltanto economicamente. È sempre il solito stramaledetto primato delle forze produttive: l’«elemento primario», il «fattore attivo», il demiurgo tecnico di Bucharin [95]
.
Questa sfacciatissima sovranità della determinazione economica del lavoro, della classe e dell’identità, francamente, ha già fatto fin troppi danni. Forze produttive, valore-lavoro: tutto viene e tutto si evince da qui. Sono potenze genetiche, sono universi esplicativi. Ma questo, non è per caso il mero ribaltamento del feticismo, non è forse il modo di intendere e di volere del capitalismo, rovesciato più che disvelato? Non è forse applicando questo procedimento che svanì la consistenza politica della vittoriosa classe operaia russa, dopo aver dato una formidabile ma fugacissima prova [96]
? Non dice nulla l’aberrante benché ordinovistica definizione di Bucharin, secondo cui lo Stato proletario è un «soggetto economico collettivo» [97]
? Questo non è l’inizio, questa è la fine della conclamata «classe per sé»: una volta fatta la
{p. 84}rivoluzione, la levatrice torna ai fornelli, a fare la cuoca.
Note
[81] Sui limiti di questo operaismo, cfr. M. Cacciari, Trasformazione dello Stato e progetto politico, in «Critica marxista», n. 5, settembre-ottobre 1978, in particolare pp. 47-54.
[82] A. Casiccia, Sulla cultura operaia e l’identità di classe, in «La Critica sociologica», n. 39-40, autunno 1976 - inverno 1976-1977, pp. 277-8. Cfr. il classico R. Hoggart, Proletariato e industria culturale (traduzione che l’industria culturale ha dato del titolo originale The Uses of Literacy), Roma, Officina edizioni, 1970.
[83] Si veda il paragrafo 34, «Le forze produttive come punto di partenza per l’analisi sociologica», del manuale di Bucharin, Teoria del materialismo, cit., pp. 125 ss. Di questa «concezione ultra-materialistica», come la chiama giustamente V. Gerratana nella Presentazione, p. XXII, sono nefasta applicazione odierna quelle ricerche sociologiche che si rivolgono agli operai soltanto per sapere che cosa c’è nel loro reparto, senza riguardo a quanto c’è nelle loro teste.
[84] Cfr. le osservazioni di K. Korsch, Karl Marx, Bari, Laterza, 1969, pp. 138-41
[85] Mi accontenterei quindi di una soluzione quale quella di privilegiare l’elemento qualitativo nella teoria del valore come fa P. M. Sweezy, La teoria dello sviluppo capitalistico, Torino, Boringhieri, 1970, pp. 27-47, che pure C. Napoleoni critica nella sua Introduzione al volume. Per il recente dibattito italiano, cfr. M. Lippi, Marx. Il valore come costo sociale reale, Milano, Etas Libri, 1976, con essenziale bibliografia alle pp. 158-62, e i contributi di C. Napoleoni, P. Garegnani, M. Lippi, L. Colletti, E. Altvater, J. Hoffmann e W. Semmler in «Rinascita», nn. 8, 9, 12, 13, 17 18 e 21, 1978, e n. 18, 1979.
[86] C. Schmitt, Legalità e legittimità, in Le categorie del ’politico’, Bologna, Il Mulino, 1972, p. 239.
[87] Un’esposizione accessibile del problema e dei luoghi marxiani caratteristici, con particolare riguardo alle aperture contenute in taluni paragrafi delle Teorie sul plusvalore è in F. Anderlini, Lavoro produttivo e improduttivo, Bari, De Donato, 1977. Cfr. inoltre C. Napoleoni, Lezioni sul cap. VI inedito, Torino, Boringhieri, 1971.
[88] «Forzate e incongrue» sono quelle letture che, nelle definizioni marxiane di lavoro produttivo e improduttivo, «pretendono di trovare indicazioni utili per un’analisi delle classi sociali»: così M. Salvati, Sul programma di ricerca sottostante alla teoria del valore marxiano (e in particolare sul lavoro produttivo e improduttivo), in «Quaderni piacentini», n. 62-63, aprile 1977, p. 153. Vedi anche l’invito a usare in senso politico-ideale le categorie «cariche di storia» di lavoro produttivo/improduttivo, p. 154.
[89] Qui la distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo si trasforma, da quello «strumento di critica sociale» di cui parla P. A. Baran (Il «surplus» economico e la teoria marxiana dello sviluppo, Milano, Feltrinelli, 1962, p. 43), in uno strumento di legittimazione sociale... Ha perfettamente ragione B. Beccalli a ironizzare su queste scappatoie semantiche: cfr. la sua Prefazione a L. Annunziata, R. Moscati, Lavorare stanca, Roma, Savelli, 1978, p. XIV: «Una volta che li abbiamo messi dentro al “lavoro produttivo” non c’è barba di profeta che ci aiuti a dare un segno alla loro azione e a metterci tranquilli». Marx stigmatizzava con feroci sarcasmi questa concezione apologetica della produttività di tutte le occupazioni: cfr. Teorie sul plusvalore, cit., vol. I, pp. 582-4.
[90] Più corretta la linea interpretativa di H. Braverman, che pure non risolve bene questo punto ma, con la nozione di «massa continua di lavoro» produttivo e improduttivo, riesce a unire politicamente ciò che tiene a distinguere marxianamente: cfr. Lavoro e capitale monopolistico, Torino, Einaudi, 1978, p. 425
[91] Così M.G. Meriggi, Introduzione a J. Habermas, Lavoro e integrazione, Milano, Feltrinelli, 1975, p. 15.
[92] Meglio la coerenza con la quale P. Naville, Dall’alienazione al godimento, cit., pp. 459-72, resistendo imperturbabile alla ressa di nuovi lavori e di nuovi soggetti, ripropone i termini più stagionati e meno problematici della lezione marxista. Vedi altresì la persistenza della dicotomia in N. Poulantzas, Classi sociali e capitalismo oggi, Milano, Etas Libri, 1975, e le osservazioni di A. Baldissera, Modelli dicotomici di dominio di classe e lavoratori non manuali, in «Quaderni di sociologia», n. 2-3-4, aprile-dicembre 1978, pp. 109 ss. Al polo opposto vi è R. Richta, La via cecoslovacca, Milano, Franco Angeli, 1968, che si mette il cuore in pace dando alla scienza la medaglia di «forza produttiva centrale dell’umanità», p. 28, e promuove tutti a ingegneri: potenza dell’automazione pianificata! Cfr. il giudizio di D. Neri, Variazioni ideologiche del socialismo realizzato: 1’“umanismo” scientifico-tecnologico, in «Aut Aut», n. 145-146, gennaio-aprile 1975, pp. 57-66.
[93] Non mi pare ne esca indenne neanche Altvater, che pure stigmatizza i moralismi alla Baran, Sweezy, Gillman, Marcuse e Dutschke, quando ricorre a una contorsione per dimostrare che molti lavoratori sono sì improduttivi (nel senso marxiano) ma attivano lavoro produttivo altrui: E. Altvater, F. Huisken, Lavoro produttivo e lavoro improduttivo, Milano, Feltrinelli, 1975.
[94] A. Casiccia, Sulla cultura operaia e l’identità di classe, cit. p. 279, parla di «tradizione paleoproletaria» fatta di «subalternità parca e laboriosa» e di «valorizzazione puritana del lavoro manuale».
[95] Cfr. L’economia del periodo della trasformazione, cit. È proprio nel cap. VI di quest’opera che la nozione marxiana viene a mio avviso stravolta: cfr. le pp. 98-100, e le osservazioni assai pertinenti di Lenin: Annotazioni di Lenin al libro di Bucharin sull’economia del periodo di transizione, in «Critica marxista», n. 4-5, luglio-ottobre 1967, pp. 295-7. Voglio sperare che non appaia di cattivo gusto, dati i tempi, citare il giudizio dell’ultimo Stalin, che accusava in via postuma Bucharin «di sopravvalutare in modo eccessivo la funzione delle forze produttive»: Problemi economici del socialismo nell’URSS, Bari, De Donato, 1976, p. 120.
[96] Cfr. R. di Leo, Introduzione a L. Szamuely, Primi modelli di un’economia socialista, Napoli, Liguori, 1979, pp. 34-7.
[97] Bucharin, L’economia del periodo della trasformazione, cit., pp. 142-3.