Christoph Cornelissen, Gabriele D'Ottavio (a cura di)
La Repubblica di Weimar: democrazia e modernità
DOI: 10.1401/9788815370228/c7
D’altro canto le difficoltà che i liberali di sinistra e i socialdemocratici dovettero affrontare non sono puramente e semplicemente riconducibili alle loro rispettive piattaforme politico-ideologiche ma avevano cause più profonde. Come ha sottolineato Thomas Mergel, un tratto caratteristico della Repubblica di Weimar è consistito nel fatto che le aspettative nei confronti della politica erano estremamente alte e conseguentemente sfociarono spesso in grandi delusioni. Ciò vale anche per la spinta all’autonomia che si espresse in modo impaziente e irruente ma si scontrò con strutture percepite come molto rigide. Dal momento però che queste stesse strutture erano anche instabili, la spinta all’autonomia andava di pari passo con una aspettativa non meno marcata nei confronti del ruolo assistenziale dello Stato. Molti tedeschi si sentivano bloccati nella loro aspirazione all’autonomia, altri si consideravano vittime non adeguatamente assistite di circostanze avverse – e
{p. 183}alcuni vivevano entrambe queste condizioni. Spesso ci si accusava a vicenda di aspirare ad una falsa forma di autonomia, e quindi di perseguire scopi «egoistici» senza riguardo per nessuno. Tutto ciò non poteva che ridurre pericolosamente i margini di azione di un governo democratico, soprattutto quando questo si fondava su fragili coalizioni e disponeva di limitate risorse finanziarie. In tale contesto si intensificarono e divennero sempre più radicali gli attacchi ad un «sistema» considerato impersonale, che frenava i singoli nel loro sviluppo e li lasciava soli alle prese con i loro problemi.
Attacchi che, mette conto sottolinearlo, crearono difficoltà anche a quei partiti che erano ostili in linea di principio alla Repubblica di Weimar. In fin dei conti perseguivano anch’essi scopi collettivi, sia per la società nel suo complesso che per i propri sostenitori. L’esempio dei comunisti è, al riguardo, emblematico. Dopo i disordini e i falliti tentativi rivoluzionari dei primi anni Venti essi insistettero in particolare sulla disciplina interna e sulla fedeltà alla linea ideologica. Ma questa linea fece emergere crescenti tensioni con quegli iscritti che non intendevano rinunciare ad esprimersi liberamente sulle questioni politiche o erano perfino inclini a forme di «terrore individuale» e quindi a condurre attacchi non coordinati contro le SA, i primi gruppi paramilitari del partito nazista. Ma c’è di più: sorsero anche dubbi in merito al fatto se la rigida cultura politica del partito potesse veramente corrispondere ai desideri dell’elettorato proletario e sottoproletario.
Di questo problema era ben consapevole il comunista non ortodosso Willi Münzenberg quando nell’ultima fase della Repubblica weimariana cominciò a far uscire a Berlino quotidiani con un formato e un linguaggio più popolari rispetto a quelli del sobrio e freddo organo ufficiale del partito («Die Rote Fahne»). I nuovi giornali contenevano numerose storie di persone che avevano perso la vita, avevano subito un brutale trattamento da parte degli organi di polizia o di funzionari della pubblica assistenza e alla fine si erano per questo suicidati o avevano fatto proprio il principio della solidarietà rivoluzionaria. Il messaggio che se ne ricavava era che in una economia capitalistica difesa da istituzioni autoritarie e solo {p. 184}apparentemente democratiche l’autonomia individuale era inevitabilmente destinata a rimanere una pia illusione.
Nella futura società comunista, invece, i proletari avrebbero potuto liberamente realizzarsi, come del resto stava già avvenendo nell’Unione Sovietica – nelle fabbriche, nella vita culturale e, con il talento e l’impegno adeguati, nelle università. «Credo che Berlino non mi piaccia più, qui la vita è molto più libera, qui ognuno è veramente una ‘persona’», così un lavoratore emigrato in Unione Sovietica citato sul «Berlin am Morgen». Per parte sua, la redazione della «Welt am Abend» sottolineò come anche per lo stesso Stalin fosse importante il principio della responsabilità personale [10]
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Come stavano le cose sul versante di destra dello spettro politico? I tedesco-nazionali erano ambivalenti nella misura in cui da un lato rifiutavano molte varianti dell’aspirazione all’autonomia, dalla consapevole entrata in scena dei lavoratori alla emancipazione femminile, ma dall’altro si presentavano come i portavoce delle aspirazioni autonomistiche del ceto medio. Non meno ambivalente era il loro atteggiamento rispetto alla questione se nella Germania del tempo fosse o meno veramente possibile vivere una esistenza libera. Quel che è certo, in ogni caso, è che anche la stampa tedesco-nazionale rivolgeva ai suoi lettori offerte concrete, ad esempio tramite annunci relativi a villette in vendita fuori dalla grande città. Accanto alle tradizionali posizioni conservatrici, la stampa tedesco-nazionale diede comunque spazio all’opinione che la donna «aveva conquistato, lentamente ma gradualmente, il diritto a diverse libertà» [11]
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Nello stesso tempo, tuttavia, veniva suggerito che la vera autonomia non poteva realizzarsi nel privato, ma era eroicamente collegata alla battaglia per la sopravvivenza che la nazione tedesca era chiamata a combattere. Così ad esempio la «Berliner illustrierte Nachtausgabe» raccontò ai suoi lettori il modo in cui un pescatore si era opposto sulla Vistola, il {p. 185}fiume che segnava il confine tra i due Paesi, alle angherie dei soldati di frontiera polacchi: «Erich sta in piedi sulla barca e guarda dritto in faccia i suoi persecutori» [12]
. Più o meno dello stesso tenore erano i nostalgici ricordi del colonialismo tedesco in Africa, molto diffusi negli ambienti tedesco-nazionali. Aver dissodato la terra ed aver anche provveduto a se stessi in condizioni climatiche così difficili, era stato espressione e motivo insieme di un orgoglio ad un tempo individuale e patriottico. Senza contare che nell’Africa sud-occidentale tedesca, a differenza di quanto avveniva nel Reich «il negozio più vicino non era certo dietro l’angolo». L’inevitabile conclusione era che per tornare alla precedente autonomia bisognava recuperare dalla Gran Bretagna i territori perduti in forza del Trattato di Versailles. Attualmente, così i tedesco-nazionali, «ci si sente come degli estranei» che «devono chiedere il permesso per poter passeggiare sul suolo che appartiene alla Germania – il permesso dai nemici» [13]
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In parte coincidente con quello dei tedesco-nazionali, l’approccio nazista alla tematica dell’autonomia era tuttavia più ampio e più persuasivo. Ne discende, credo, una importante considerazione. Se infatti noi indichiamo Adolf Hitler e i suoi seguaci come nemici fin dall’inizio di ogni aspirazione all’autonomia, potremmo certo prendere normativamente le distanze da essi, ma in tal caso risulterebbe assai difficile capire perché questo movimento di estrema destra ha potuto esercitare una simile forza di attrazione su milioni di contemporanei. I nazionalsocialisti si presentavano come i difensori del principio dell’indipendenza economica, che promettevano di difendere sia contro il marxismo che contro il capitalismo. Di più: si rivolgevano ai tedeschi collegando la loro personale aspirazione alla libertà alla liberazione della Germania non solo dalla «schiavitù» delle riparazioni di guerra ma anche {p. 186}da un «sistema» repubblicano presentato come corrotto ed oppressivo: «Vogliamo essere liberi, vogliamo avere il nostro pane e il necessario per vivere, il nostro pergolato, il nostro modesto svago. Per questo dobbiamo lottare». Agli antipodi rispetto a questa legittima aspirazione all’autonomia c’era l’«apatia dell’uomo-massa». Per i nazisti, questo tipo irrazionale leggeva di preferenza i giornali dominati dagli ebrei invece di farsi una propria opinione e quindi di comprendere appieno l’intrinseca validità della visione del mondo nazionalsocialista [14]
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Il motivo della scelta autonoma per il nazionalsocialismo emerge, insieme a diverse altre motivazioni, tra gli stessi membri della NSDAP. Lo si può ricavare dalle (auto)riflessioni sul loro passato recente che nel 1934 il sociologo americano Theodore Abel incoraggiò tramite un concorso a premi per farne poi oggetto di uno studio scientifico. Da questi testi fortemente stilizzati emergono soprattutto il cameratismo tra compagni di partito e membri delle SA, le convinzioni improntate ad un nazionalismo radicale e il fascino esercitato dal «Führer» Adolf Hitler. Ma vi vengono descritte anche situazioni nelle quali il futuro nazionalsocialista si era ritrovato da solo e da solo era pervenuto ad una nuova visione del mondo. Racconti di rappresaglie, pressioni di gruppo e violenti attacchi lasciano comunque emergere l’autonomia di ciascuno. «Nonostante tutte le umiliazioni subite, ho stretto i denti e mi sono opposto a chi ha cercato di derubarmi della speranza in un futuro migliore». A volte i nazionalsocialisti sottolineano l’importanza del loro personale conflitto interiore, come nel caso dell’antisemitismo, da loro giudicato valido e fondato solo dopo un attento esame della realtà e «uno studio approfondito della letteratura di riferimento». La rivendicata autonomia decisionale torna a collocarsi a un livello emotivo: «Nessuna pressione esterna fu esercitata su di me, né fu la ragione a dettare questa necessità. È stato il mio cuore che me l’ha imposta» [15]
. Come Felix Römer {p. 187}ha dimostrato nel caso di Theodor Habicht, Ortsgruppenleiter (leader del gruppo locale) di Wiesbaden, proprio l’aspirazione all’autonomia dei leader nazisti condusse a non pochi conflitti all’interno del partito già prima del 1933: conflitti di cui tuttavia la pubblica opinione non venne quasi mai a conoscenza. Di fronte ad essa i protagonisti del «movimento» si comportavano con grande sicurezza di sé, come uomini che si ritenevano e si muovevano liberi da costrizioni sociali, convenzioni culturali e vincoli oggettivi. Con questa immagine essi prendevano radicalmente le distanze dai politici di lungo corso degli ultimi anni della Repubblica di Weimar, politici che a loro giudizio avevano un modo di pensare ormai appartenente al passato, davano l’impressione, in quei tempi di crisi, di essere solo capaci di tirare a campare e richiamavano sempre alla memoria fatti spiacevoli (ciò che valeva innanzi tutto per lo sfortunato cancelliere Heinrich Brüning). Non a caso, in un discorso pronunciato davanti ai membri del partito il 2 novembre del 1932 lo stesso Hitler affermò:
«Non c’è minaccia che mi possa intimorire, che mi possa far vacillare anche per un solo secondo. Nella mia vita non sono certamente mai stato uno bisognoso di protezione e non ho certo bisogno di diventarlo in futuro. Ciò che sono, lo sono diventato da solo!» [16]
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Nello stesso tempo i nazionalsocialisti dicevano di voler contrastare gli effetti potenzialmente distruttivi dell’aspirazione all’autonomia individuale. Da un lato identificavano questi effetti con gli ebrei, da loro bollati come superficiali e materialisti, e dall’altro si sforzarono di integrare le aspirazioni all’autonomia individuale in un progetto collettivo, la cui realizzazione avrebbe creato i presupposti per la «libera possibilità di ascesa» di ciascuno [17]
. Nella futura «comunità di popolo» l’autonomia individuale non avrebbe potuto deviare verso
{p. 188}l’isolamento personale e proprio per questo avrebbe avuto modo di dispiegarsi come mai in precedenza. Come Hitler aveva avuto modo di affermare già nel Mein Kampf, infatti, la comunità che egli aveva in mente sarebbe dipesa dalle «azioni di singoli soggetti particolarmente capaci» [18]
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Note
[10] «Berlin am Morgen», 3 marzo 1931; «Welt am Abend», 11 luglio 1931.
[11] «Berliner illustrierte Nachtausgabe», 15 marzo 1930.
[12] Ibidem, 1° marzo 1932.
[13] Si veda Hans Aschenborn, citato in T. Jonker, ‘Das verlorene Paradies’. Herinneringen van Duitse mannen en vrouwen aan hun autonomie in de voormalige Duitse koloniën in Afrika, Masterarbeit, Universität Amsterdam, 2020, pp. 15 e 17.
[14] «Der Angriff», 13 marzo 1930 e 23 gennaio 1930.
[15] T. Abel, Why Hitler Came Into Power. An Answer Based on the Original Life Stories of Six Hundred of His Followers, New York, Prentice-Hall, 1938, pp. 98, 161 e 244.
[16] A. Hitler, Reden Schriften Anordnungen. Februar 1925 bis Januar 1933, V: Von der Reichspräsidentenwahl bis zur Machtergreifung April 1932 - Januar 1933; parte seconda: Oktober 1932 - Januar 1933, a cura di C. Hartmann - K.A. Lankheit, München, Saur, 1998, pp. 149-166, qui p. 157.
[17] «Der Angriff», 10 luglio 1930.
[18] A. Hitler, Mein Kampf, München, Franz Eher, 193431, p. 495.