Bruno Manghi
Declinare crescendo
DOI: 10.1401/9788815413505/p1
È questo lo spirito che porterà Manghi a mantenere sempre tra l’altro posizioni critiche nei confronti dell’intervento statale sul sindacato e a respingere con forza tutte le seduzioni positivistiche, talvolta anche assumendo posizioni in apparenza difficili [23]
. E al proposito, sul fronte giuslavorista, penso valga salutare molto positivamente, dopo anni di silenzio, la rinnovata attenzione sulle modalità e sulle tecniche di bilanciamento e contemperamento concreto tra principi gerarchici, connaturati all’esigenza di stabilità coesione e unità interna del nostro sindacato (che trovano protezione nella dimensione collettiva della libertà
{p. 16}sindacale), e il diritto di partecipazione, scelta e controllo degli associati [24]
.
Il quinto capitolo rimane sui temi della democrazia interna. Anche questo capitolo è animato da una tesi critica rispetto alle forme in cui si è andato sviluppando il sindacalismo italiano [25]
. Per Manghi il punto è semplice: «accettare il problema della democrazia interna come discriminante rispetto al destino sociale del sindacato» (p. 92) e del resto il coinvolgimento dei singoli nelle lotte e nella vita interna del sindacato assume un profondo connotato libertario. L’ipotesi sulla quale l’autore insiste, riprendendo quanto già osservato nel capitolo precedente, è che si sia di fronte a un impoverimento progressivo del sindacato «sia in termini di idee sia in termini di idealità» (p. 94). I due aspetti della democrazia sindacale che stanno a cuore a Manghi sono infatti la partecipazione alle decisioni di azione e l’intervento effettivo nella designazione dei responsabili. Per entrambi sono formulate nel testo diverse osservazioni critiche e svariate soluzioni concrete. Nella sua evoluzione il problema della democrazia sindacale dovrebbe significare «valorizzazione del dissenso e impegno a portare maggiore uguaglianza dentro l’organizzazione di classe» (p. 99). In queste pagine, forse tra le migliori del libro, Manghi ci offre l’elogio della lentezza della democrazia sindacale e la teorizzazione della “democrazia ingenua”: quella uscita sconfitta dal movimento successivo al ’67, ma costitutiva di un’esperienza straordinaria e proiettata verso l’unità sindacale autentica, quella che aveva cercato di contemperare «il necessario atto di delega (il voto) con un flusso di partecipazione che a tutti {p. 17}appartiene (assemblee, revoca, manifestazioni non irregimentate)» (pp.100-101) [26]
.
Con il sesto e ultimo capitolo il libretto giunge all’epilogo. Qui l’autore riprende la tesi principale sostenuta sin dalle prime pagine e cioè che il sindacalismo italiano sia avviato a perdere la propria originalità e si stia facendo progressivamente più incerto nella tutela delle persone che lavorano per ragioni interne più che esterne ad esso. In risposta ai segni del declino intravisti la proposta che Manghi mette sul tappeto è lo spirito della autogestione. La cultura sindacale deve superare la subalternità allo Stato perché lo spirito della autogestione possa sospingere il movimento sindacale a «organizzare le rivendicazioni qualitative e quantitative che si formano nei confronti delle istituzioni. Il sindacato può organizzare i pendolari, gli anziani, gli inquilini, i malati, sapendo tuttavia che in certa misura le spinte rivendicative e negoziali legittimano e rafforzano i gruppi di potere prodotti dalle istituzioni. Occorre quindi proporsi di sviluppare l’autogestione dei servizi, estendendo la capacità diffusa di gestione, diffondendo le conoscenze adeguate, sperimentano situazioni di gestione diretta» (p. 122).
Come era prevedibile, considerato quanto l’autore ha scritto nelle pagine precedenti, anche nel finale, pure venato di una certa dose di utopismo, almeno a guardare la proposta con gli occhi di oggi, Manghi non tradisce il suo credo pragmatico. Poiché anche la sua autogestione rischia di trovare la sua collocazione nel tempio dell’ideologia, egli ribadisce al proposito l’imperativo di fondo che lo ha guidato nel breve spazio di queste 126 pagine e cioè che valgono per l’autogestione le condizioni per ogni ipotesi politica: «la sperimentazione autentica, la verifica, la correzione» (p. 126).
Note
[23] Vedi per esempio l’incontro/scontro con F. Mancini in Progetto n1 gennaio/febbraio 1981 sul tema del referendum.
[24] Mi riferisco all’opera monografica di Cristofolini, Profili organizzativi e trasparenza finanziaria dei sindacati rappresentativi. Uno studio comparato, Milano: Franco Angeli, 2021 e alla proposta ivi contenuta, spec. 261 e ss.
[25] Queste tesi troveranno numerose conferme, anni dopo, nella più ampia ricostruzione e sistemazione di Accornero, La parabola del sindacato. Ascesa e declino di una cultura, Bologna: il Mulino, 1992. La sistematizzazione più articolata coeva al nostro libretto è invece quella di Romagnoli, Treu, I sindacati in Italia: storia di una strategia (1945-1976), Bologna: il Mulino, 1977.
[26] Su quella stagione, tra i tanti contributi, meriterebbe una rinnovata riflessione il lavoro di G. Romagnoli, Consigli di fabbrica e democrazia sindacale, Milano: Gabriele Mazzotta, 1976.