Diritto e valori
DOI: 10.1401/9788815413499/c10
Una parte della dottrina ha scorto in questa legge un segnale preoccupante di inversione di tendenza del potere legislativo, nel senso di un passaggio dalla legislazione di sostegno del sindacato, qual è in sostanza anche la legislazione sui minimi di trattamento dei lavoratori, a una legislazione di controllo e di contenimento dell’autonomia collettiva. Tale valutazione, mentre non è stata confermata da successivi interventi legislativi del medesimo tipo in altre materie, con riferimento all’oggetto specifico della legge n. 91 pecca di unilateralità. Se è vero che è stato posto un limite alla possibilità dell’autonomia collettiva di aumentare la misura di salvaguardia dei salari reali dall’in
¶{p. 297}flazione mediante i meccanismi automatici di indicizzazione, è pur vero che questo limite si traduce in un allargamento degli spazi fruibili dalla contrattazione futura sui salari, e promuove il principio, pienamente coerente con la dialettica dell’autonomia collettiva, secondo il quale le conseguenze dell’inflazione in termini di aumento dei salari nominali non possono, oltre una certa misura, essere automatiche, ma devono essere periodicamente negoziate dalle parti sociali.
4. L’inderogabilità del regolamento legale.
La norma di legge inderogabile limita non solo l’autonomia privata individuale, ma anche l’autonomia collettiva, a meno che in favore di quest’ultima sia contenuta nella norma medesima una dichiarazione di disponibilità, nel qual caso, del resto abbastanza raro, la norma viene a configurarsi come «relativamente inderogabile» ovvero, giusta un’altra terminologia, «limitatamente disponibile». Non sono mancati tentativi di restringere la portata dell’inderogabilità mediante la definizione di materie nelle quali sarebbe attribuita alla contrattazione collettiva la prevalenza sulla legge: così per esempio, secondo un criterio proposto per l’ordinamento tedesco, ma rimasto senza seguito, la supremazia gerarchica della legge sull’autonomia collettiva sarebbe limitata alle norme che stabiliscono «minimi di esistenza» conformi all’immagine di vita umana libera e dignitosa emergente dalla Costituzione, mentre sarebbero disponibili le norme che ripartiscono rischi e vantaggi in funzione di un bilanciamento di interessi tra datori e prestatori di lavoro, quali le norme sul periodo di conservazione del posto e della retribuzione in caso di malattia, le norme sulla durata delle ferie, le norme di protezione contro i licenziamenti, ecc.
[5]
. Un simile criterio, a parte gli aspetti di ambiguità che lo rendono impraticabile, è privo di fondamento nel diritto positivo, tanto più nel nostro dove pure si è pensato da qualcuno di trapiantarlo.¶{p. 298}
Tuttavia, sia nella giurisprudenza, in relazione a una categoria di norme, sia nella legislazione si sono manifestate recentemente tendenze attenuatrici del vincolo dell’inderogabilità.
In relazione ai «minimi inderogabili di trattamento» dei lavoratori fissati dai decreti legislativi emanati dal Governo in base alla legge 14 luglio 1959, n. 741, la giurisprudenza ha abbandonato l’orientamento originario che applicava rigidamente il divieto di deroga in peius alla stregua del confronto tra le singole disposizioni dei decreti e dei contratti collettivi stipulati successivamente
[6]
. Il nuovo orientamento è rappresentato in parte da sentenze di segno addirittura rovesciato, le quali negano alle disposizioni dei decreti natura di norme di legge, e pertanto ne ammettono senza limiti la modificabilità in peius da parte dei successivi contratti collettivi
[7]
. Questa tesi implica in premessa che l’estensione erga omnes dei contratti collettivi stipulati anteriormente al 2 ottobre 1959 sia stata attuata dai decreti previsti dalla legge n. 741 con la tecnica del rinvio formale (non recettizio), così che le clausole oggetto del rinvio avrebbero conservato la natura originaria di clausole contrattuali.
È perciò una tesi insostenibile sia di fronte alla lettera dell’art. 1 della legge, chiaramente improntato alla tecnica del rinvio recettizio, sia soprattutto di fronte alla lettera dell’art. 7, comma 2°, dal quale si argomenta che le norme delegate non possono essere abrogate o derogate (in peggio) se non da leggi successive o da contratti collettivi muniti di efficacia generale.
Un’altra impostazione del nuovo orientamento giurisprudenziale, pur muovendo correttamente dalla premessa che le clausole dei contratti collettivi recepiti nei decreti sono diventate norme di legge, perviene a una conclusione non lontana dalla precedente sulla base del terzo ¶{p. 299}comma dell’art. 7, interpretato nel senso che le disposizioni dei decreti possono essere modificate anche in peius dai contratti collettivi successivi, purché le nuove discipline contrattuali risultino complessivamente più favorevoli ai lavoratori
[8]
. In questo caso la normativa del decreto è interamente sostituita dal contratto collettivo successivo nell’ambito della propria sfera di efficacia. Poiché nell’attuale realtà economico-sociale i nuovi contratti collettivi sono sempre nel loro complesso più favorevoli ai lavoratori dei precedenti, anche la seconda corrente giurisprudenziale finisce in pratica con l’ammettere la piena disponibilità delle norme dei decreti da parte dell’autonomia collettiva.
Sono stati così rimossi gli ostacoli che da una concezione rigida dell’inderogabilità di queste norme di legge sarebbero potuti derivare alle recenti politiche contrattuali di razionalizzazione e di contenimento degli automatismi retributivi collegati alla progressione dell’anzianità di servizio, in particolare di riduzione degli «scatti di anzianità» e in pari tempo di «deindicizzazione» di essi mediante esclusione dalla base di calcolo, a partire da una certa data, degli incrementi dell’indennità di contingenza.
Fuori dall’area dei decreti legislativi ex legge n. 741 del 1959, dove l’estensione del metodo di confronto globale, ai fini della soluzione dei conflitti con la disciplina collettiva a stregua del criterio di maggior favore per i lavoratori, è giustificata dall’origine contrattuale delle norme contenute nei decreti, l’inderogabilità della norma di legge è dalla giurisprudenza rigorosamente imposta alla contrattazione collettiva in base al confronto delle singole disposizioni. Sul piano dei principi dell’ordinamento positivo questo atteggiamento non può essere oggetto di discussione, e sarebbe del tutto fuori luogo rivolgere alla giurisprudenza sollecitazioni di maggiore flessibilità. Ma, fermo il principio, è lecito, su un piano diverso, ¶{p. 300}formulare due rilievi critici nei confronti delle frequenti pronunce di nullità di clausole dei contratti collettivi per contrarietà a norme imperative di legge.
In primo luogo tali pronunce non di rado appaiono fondate su interpretazioni distorte della legge oppure su premesse dogmatiche arbitrarie, e sono condizionate dall’inclinazione a impostare la decisione nella visuale ristretta dell’interesse individuale del lavoratore in causa, trascurando l’interesse di categoria e le connesse politiche contrattuali delle parti sociali, cui la disciplina collettiva è organicamente ordinata. Siamo tutti consapevoli ormai che la lettera della legge di solito concede spazio a più ipotesi di soluzione del caso da decidere, e che pertanto i sillogismi applicativi della legge sottendono dei giudizi di valori guidati dalla «precomprensione» del giudice, con i quali egli sceglie fra le varie soluzioni possibili (cioè compatibili con la lettera della legge e integrabili nel sistema normativo). Sotto questo profilo è lecito auspicare un maggiore controllo critico della precomprensione dell’interprete, che favorisca una maggiore apertura alle valutazioni dell’autonomia collettiva e all’esigenza di preservare gli equilibri contrattuali su di esse fondati.
In secondo luogo, la tecnica della nullità della clausola collettiva difforme, con la quale si attua la prevalenza della norma di legge inderogabile, non può combinarsi con la tecnica della «sostituzione automatica», che è utilizzabile solo nei rapporti tra legge (o contratto collettivo) e contratto individuale. Malgrado qualche non meditata affermazione dottrinale in contrario, le norme degli artt. 1339 e 1419, comma 2°, c.c. non sono applicabili al contratto collettivo. Poiché il conflitto tra legge e contratto collettivo può sorgere solo in funzione della disciplina di un concreto rapporto individuale di lavoro, non ha senso porsi la questione se la clausola difforme del contratto collettivo sia sostituita dal precetto legale, bensì ha senso soltanto la questione quale delle due norme in conflitto – la norma legale o la norma collettiva – prevalga come fonte di integrazione degli effetti del contratto individuale di cui è causa. Pertanto, quando dichiara la nul¶{p. 301}lità di una clausola del contratto collettivo, il giudice deve applicare il primo comma dell’art. 1419 c.c. ed estendere la valutazione di nullità a tutti gli elementi del contenuto del contratto con i quali, secondo l’intenzione delle parti, la clausola dichiarata nulla sia inscindibilmente connessa. L’impropria estensione al contratto collettivo dell’art. 1339, nel caso di contrasto di qualche clausola con norme imperative di legge, maschera nella giurisprudenza uno scambio, più o meno consapevole, della tecnica privatistica della nullità con la tecnica della disapplicazione, destinata a regolare i conflitti tra fonti autoritative di grado gerarchico diverso, per esempio tra leggi e regolamenti, e non estensibile ai rapporti tra legge e atti di autonomia collettiva.
5. Eccessiva rigidità di questo principio.
Sul terreno della critica all’ordinamento positivo, fin dai primi anni di questo secolo una parte della dottrina, nella quale si trovano accomunati giuristi di varia matrice ideologica, dubita che sia giustificato porre gli stessi limiti all’autonomia individuale e all’autonomia collettiva, ossia contesta l’estensione del principio del favor al conflitto tra regolamento legale imperativo e regolamento collettivo
[9]
.
Tale principio è sorto originariamente nei rapporti tra legge e autonomia individuale come criterio di tutela del contraente debole. Certo non è solo questa la funzione della norma di legge inderogabile nel diritto del lavoro. Vi è un settore della disciplina legale in cui l’inderogabilità ha la funzione di vincolare l’autonomia privata al rispetto di certi valori e di certi modelli strettamente legati a esigenze di dignità, di libertà, di sicurezza della persona umana. Quando sono in gioco interessi di questo tipo mai il legislatore potrà rinunciare all’inderogabilità delle proprie norme, neppure nei confronti dell’autonomia collettiva. Quando, invece, la norma inderogabile mira soltanto ad assicurare un certo equilibrio di potere contrattuale fra
¶{p. 302}datore e prestatore di lavoro, allora l’inderogabilità non appare più giustificata sul piano del rapporto collettivo, dove la debolezza dei singoli lavoratori è rimossa mediante la coalizione. Mantenere l’inflessibilità della norma anche nei confronti dell’autonomia sindacale – si aggiunge – implica una violazione del principio di neutralità dello Stato di fronte al conflitto collettivo
[10]
.
Note
[5] Biedenkopf, Grenzen der Tarijautonomie, Karlsruhe, 1964, pp. 154 ss.
[6] Cfr. Cass. 15 maggio 1972, n. 1469, in Foro it., 1972, I, c. 2439.
[7] Cass. 30 marzo 1978, n. 1477, in Foro it., 1978, I, c. 1385; Trib. Milano 10 gennaio 1978, in «Orient. giur. lav.», 1978, p. 108.
[8] Cass. 16 giugno 1977, n. 2516, in «Mass. giur. lav.», 1978, p. 12; v. pure Cass. 14 ottobre 1976, n. 3452, in Foro it., 1977, I, c. 1272 (nel testo, a c. 1279).
[9] Cfr. Carnelutti, Teoria del regolamento collettivo dei rapporti di lavoro, Padova, 1928, pp. 174.
[10] Biedenkopf, op. cit., pp. 149 s.