Luigi Mengoni
Diritto e valori
DOI: 10.1401/9788815413499/c10
  • se è vero, come non si stanca di ripetere la Cassazione, che l’interpretazione del contratto collettivo è soggetta alle regole di interpretazione dei negozi, queste regole peraltro, e in particolare il canone fondamentale di interpretazione soggettiva impartito dall’art. 1362 c.c., devono essere opportunamente adattate tenuto conto della funzione normativa del contratto e correlativamente della posizione dei datori e dei prestatori di lavoro i quali, considerati uti singuli e non uti socii, sono terzi rispetto al contratto, cioè sono soggetti alla sua efficacia normativa come a un regolamento eteronomo. Perciò il criterio della ricerca dell’intenzione comune delle parti oltre il senso letterale delle parole deve avere uno spazio meno ampio che nell’interpretazione degli atti di autonomia individuale. Per esempio, la dottrina, a mio avviso fondata, che estende all’interpretazione dei contratti la
    {p. 292}regola falsa demonstratio non nocet, espressamente sancita dal codice civile soltanto in tema di testamento (art. 625), non è applicabile al contratto collettivo. Insomma, anche in relazione ai contratti collettivi c.d. di diritto comune, la tesi di Carnelutti, secondo cui l’interpretazione deve seguire una linea mediana tra i canoni di interpretazione dei negozi e i canoni di interpretazione della legge, non è priva di un nocciolo di verità;
  • l’altra conseguenza dovrebbe essere l’assoggettamento, al pari della legge, anche dell’autonomia collettiva al vincolo dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione, e specialmente al principio di uguaglianza. Sotto questo profilo si possono formulare delle riserve nei confronti della giurisprudenza della Cassazione, la quale nega l’applicabilità del principio sancito dall’art. 3 non solo ai rapporti privati interindividuali, ma anche agli atti di autonomia collettiva [2]
    .

3. Limiti di competenza della legge nei rapporti con la contrattazione collettiva.

La tesi secondo cui nell’art. 39 sarebbe contenuta una riserva di competenza, in favore dei sindacati, per il regolamento dei rapporti di lavoro è stata respinta dalla Corte costituzionale (sent. 19 dicembre 1962, n. 106), e oggi non è più sostenuta. Tuttavia la garanzia costituzionale della contrattazione collettiva non deve essere intesa semplicemente nel senso di una esplicazione analitica del concetto di organizzazione sindacale, che include anche il connotato dell’idoneità a influire sulla formazione delle condizioni di lavoro mediante la contrattazione collettiva, ma deve essere intesa nel senso ulteriore e più pregnante che è garantito uno spazio dentro il quale la legge, per quanto fonte superiore, non ha nei rapporti con la contrattazione collettiva una assoluta «competenza della competenza», non può cioè intervenire con disposizioni che vincolino in modo tassativo l’autonomia delle associazioni sindacali. Ciò risulta sia dall’art. {p. 293}39, ult. comma, sia dagli artt. 35, 36 e 37, dai quali si argomentano rispettivamente due criteri di determinazione della competenza garantita all’autonomia collettiva e quindi non modificabile dalla superiore fonte legislativa.
Secondo il primo criterio, la legge, pur non avendo limiti di competenza per materia, non può sostituirsi all’autonomia collettiva nella determinazione specifica di discipline organiche e globali per i rapporti di lavoro delle varie categorie professionali. Fu perciò inutile lo sforzo, abbondantemente impregnato di bizantinismo, con cui la Commissione affari costituzionali della Camera si ingegnò di riformulare l’originario progetto governativo della legge 14 luglio 1959, n. 741, allo scopo di presentarla in veste di legge di attuazione dell’art. 36 Cost., mascherandone la reale funzione di provvedimento destinato a promuovere un metodo di estensione erga omnes dei contratti collettivi diverso da quello previsto dall’art. 39. Per scampare a questo profilo di incostituzionalità se ne faceva emergere un altro, costituito dalla violazione dell’ordine costituzionale distributivo delle competenze tra legge e autonomia collettiva. L’art. 36 autorizza l’introduzione di minimi legali di trattamento economico uguali per tutti i lavoratori, non già differenziati per categorie professionali, la cui definizione è una prerogativa indeclinabile delle associazioni sindacali. E per quanto concerne il trattamento normativo, la legge può sì intervenire su qualsiasi materia o istituto, ma con disposizioni di portata generale, destinate ad attuare linee di politica del diritto fondate su determinati valori o bilanciamenti di interessi, che riguardino tutti i lavoratori o almeno i lavoratori di un settore produttivo o appartenenti a una delle grandi categorie di mansioni distinte dall’art. 2095 c.c.
La competenza della legge incontra un altro limite, espresso, secondo il linguaggio della dottrina tedesca, nel cosiddetto «principio di favore» (Günstigkeitsprinzip), inteso non semplicemente nel senso usuale di criterio di prevalenza del trattamento più favorevole al lavoratore, tendenzialmente applicabile alla soluzione dei conflitti tra {p. 294}fonti (salva diversa disposizione di legge, quale si riscontra per esempio in ordine al conflitto tra contratto e consuetudine: art. 2078 c.c.), bensì come criterio costituzionale di ripartizione delle competenze regolative, e quindi non disponibile dalla legge o disponibile solo a certe condizioni. Secondo questo criterio, corrispondente a un modello tradizionale del diritto del lavoro, la legge è competente a fissare minimi inderogabili di tutela dei lavoratori, mentre alla contrattazione collettiva è lasciata una competenza illimitata di miglioramento dei minimi legali, cioè una competenza aperta verso l’alto. E si tenga presente che il concetto di minimi legali di tutela comprende non solo le norme che fissano condizioni di lavoro in senso proprio, minime o massime a seconda che si tratti di diritti o di obblighi del lavoratore, cioè norme limitative della libertà di determinazione del contenuto del contratto di lavoro, ma anche le norme garantistiche che limitano la libertà di costituzione o di scioglimento del contratto, quali la legge sul contratto a termine o la legge sui licenziamenti.
Dal modello dei rapporti tra legge e contratto collettivo improntato al «principio di favore» si è scostato il recente provvedimento legislativo di contenimento del costo del lavoro, che ha fissato una misura massima alla disciplina contrattuale dell’indennità di contingenza, cioè degli incrementi automatici di retribuzione collegati al variare degli indici del costo della vita, e ha escluso inoltre tali incrementi, a partire dal 1° febbraio 1977, dalla base di computo dell’indennità di anzianità, con espressa sanzione di nullità delle clausole contrattuali, individuali o collettive, eccedenti i detti limiti.
La questione di legittimità del provvedimento pone la domanda se il criterio del favor abbia un valore assoluto o relativo, e nel secondo caso a quali condizioni la legge possa limitare la competenza dell’autonomia collettiva anche nella direzione del maggior favore per i lavoratori, imponendo trattamenti-standards, non modificabili neppure in melius. Della questione ho già avuto occasione di {p. 295}occuparmi [3]
, e non vorrei qui ripetere le ragioni contrarie all’opinione che giustifica interventi legislativi di questo tipo a condizione che siano il punto di arrivo di processi extralegislativi di consenso delle parti sociali. Oltre a tutto tale opinione confonde tra il contenuto della legge e la sanzione di inderogabilità bilaterale, cioè di nullità anche delle pattuizioni collettive in senso migliorativo: per legittimare il primo il consenso delle parti sociali non è necessario; per legittimare la seconda non è sufficiente.
Insoddisfacente è pure un altro criterio di legittimità, il quale propone di discriminare i vincoli legali alla dinamica dell’autonomia collettiva a seconda che siano destinati a finalità di perequazione salariale (e normativa) tra le varie categorie di lavoratori, oppure a finalità ulteriori di politica economica (riduzione del costo del lavoro a scopo di contenimento dell’inflazione, rimozione di ostacoli alla mobilità del lavoro, ecc.): legittimi i primi in quanto attuano il valore della uguaglianza (art. 3 Cost.), al quale pure l’autonomia collettiva deve ritenersi soggetta; illegittimi, irrimediabilmente, i secondi, pur se fossero giustificati dall’esigenza di coordinare la contrattazione collettiva con gli obiettivi di un programma economico sanzionato dal parlamento [4]
. A tacere delle difficoltà di applicazione pratica di un simile criterio, si deve obiettare fondamentalmente che la con trattazione collettiva, in quanto si svolge prevalentemente ai livelli categoriali, può essere condizionata dal principio di uguaglianza soltanto nell’ambito di ciascuna categoria professionale. La fissazione per legge di massimi generali di trattamento dei lavoratori, allo scopo di comprimere le sperequazioni tra le varie categorie, è un intervento ordinato a una determinata linea di politica economico-sociale, il cui criterio di legittimazione non è rintracciabile nel vincolo della contrattazione collettiva al principio dell’art. 3 Cost.{p. 296}
Per comprendere e fondare il valore soltanto relativo, e non assoluto, del «principio di favore» occorre riflettere che nell’art. 39 le associazioni sindacali sono considerate essenzialmente come forze organizzate di mercato, e da questo punto di vista, legato al modello dell’economia liberistica, la determinazione della misura dei trattamenti dei lavoratori, fermi i minimi legali, è rimessa ai meccanismi del mercato. Perciò il principio di favore, che regola la competenza dell’autonomia collettiva nei confronti della legge, dovrebbe essere ridimensionato qualora si passasse a un sistema di sviluppo economico programmato secondo la previsione dell’art. 41, comma 3°. Tutti i commentatori della legge n. 91 hanno avvertito che al fondo della questione da essa sollevata riappare il grande problema dei rapporti tra autonomia collettiva e programmazione economica, per la quale l’art. 41 stabilisce una riserva di legge.
Fuori dal quadro della programmazione economica, oggi mancante, limiti legislativi a migliori trattamenti conseguibili dai lavoratori mediante la contrattazione collettiva possono essere legittimati di fronte all’art. 39 solo in via eccezionale e con carattere di temporaneità, in quanto siano richiesti da interessi vitali della comunità generale, quale ad esempio l’interesse a mantenere sotto controllo i processi di inflazione. Tuttavia, in relazione alla legge n. 91, è possibile anche un’altra argomentazione giustificativa.
Una parte della dottrina ha scorto in questa legge un segnale preoccupante di inversione di tendenza del potere legislativo, nel senso di un passaggio dalla legislazione di sostegno del sindacato, qual è in sostanza anche la legislazione sui minimi di trattamento dei lavoratori, a una legislazione di controllo e di contenimento dell’autonomia collettiva. Tale valutazione, mentre non è stata confermata da successivi interventi legislativi del medesimo tipo in altre materie, con riferimento all’oggetto specifico della legge n. 91 pecca di unilateralità. Se è vero che è stato posto un limite alla possibilità dell’autonomia collettiva di aumentare la misura di salvaguardia dei salari reali dall’in
{p. 297}flazione mediante i meccanismi automatici di indicizzazione, è pur vero che questo limite si traduce in un allargamento degli spazi fruibili dalla contrattazione futura sui salari, e promuove il principio, pienamente coerente con la dialettica dell’autonomia collettiva, secondo il quale le conseguenze dell’inflazione in termini di aumento dei salari nominali non possono, oltre una certa misura, essere automatiche, ma devono essere periodicamente negoziate dalle parti sociali.
Note
[2] Cfr., da ultimo, Cass. 16 gennaio 1979, n. 325, in Foro it., 1979, I, c. 300.
[3] Cfr. «Mass. giur. lav.», 1979, pp. 328 ss.
[4] De Luca Tamajo, Leggi sul costo del lavoro e limiti all’autonomia collettiva, in Il diritto del lavoro nell’emergenza, Napoli, 1979, pp. 161 ss.