Matelda Reho, Filippo Magni (a cura di)
Tutela e valorizzazione del paesaggio nella transizione
DOI: 10.1401/9788815413352/c18
Si tratta insomma di un sistema che si autoalimenta, si moltiplica e si ramifica, sviluppandosi soprattutto nel se
{p. 326}condo 900. Si assiste così ad una crescita incontrollata che va persino ad occupare spazi definiti dai corsi d’acqua che vengono intubati o semplicemente coperti. Nastri e svincoli si moltiplicano con indifferenza, coprendo vaste superfici che restano marginate e nascoste, in cui si producono condizioni di degrado ambientale.
L’impatto assunto dalle infrastrutture della mobilità in rapporto alla città e al paesaggio le fa spesso assimilare a strutture di ordine superiore, conformate in autonomia, che rappresentano elementi di rottura delle trame insediative a cui è necessario adeguarsi.
La consapevolezza di una loro crescita fuori controllo emerge anche dai diversi tentativi di trasfigurarne il corpo costruito in architetture abitate. Si tratta di sperimentazioni progettuali estreme per il loro tempo, utopie che riconducono la grande scala delle infrastrutture a contenitori di spazi abitati e di città.
Tra queste sperimentazioni, possiamo citare già il progetto redatto nel 1793 da William Bridges per un ponte sul fiume Avon, nei pressi di Bristol. Le pile del ponte qui diventano edifici abitati di 6 piani, accessibili dall’alto verso il basso.
La prefigurazione di Roadtown nel 1910 da parte di Edgar Chambless per certi aspetti anticipa la configurazione che nel 1929 Le Corbusier darà alle strade nei suoi piani per San Paolo del Brasile e per Algeri.
Nei primi decenni del XX secolo si rilevano ancora trasfigurazioni in edifici degli elementi strutturali delle grandi costruzioni stradali. Basti pensare alla proposta di Charles L. Morgan del 1928 per un ponte a Chicago, con i piloni configurati come torri accessibili dall’alto, proprio da quella strada di sommità che ad essi si appoggia; oppure il piano del 1929 di Raymond Hood per «Manhattan 1950» (fig. 3), che trasforma le torri e anche gli stralli dei ponti in enormi edifici serviti dal piano stradale. Possiamo inoltre ricordare la proposta del 1961 di Geoffrey A. Jellicoe per «Motopia» (fig. 4), dove l’impianto della città è definito dalle strade che costituiscono la copertura di una rete continua di edifici abitati, resi accessibili dall’alto, mentre le aree degli isolati si {p. 327}trasformano in parchi, giardini e spazi aperti che accolgono edifici pubblici.
Fig. 3. Raymond Hood (1929), Manhattan 1950.
I tentativi di trasfigurare il moltiplicarsi di strade e i sempre crescenti flussi di mobilità continuano negli anni ’60 e Lawrence Halprin nel suo libro Freeways (1966) prefigura ancora strade multipiano con le fattezze di edifici, di alberi o persino di «skyway» sostenute da altissimi piloni a traliccio.
Da queste varie proposte emerge una prospettiva di inversione: tra spazio costruito e spazio aperto, tra strada ed edificato, attraverso cui si sperimenta la capacità della {p. 328}costruzione infrastrutturale di assimilare la città e il suolo urbano.
Fig. 4. Geoffrey Jellicoe (1961), «Motopia: A Study in the Evolution of Urban Landscape», London.

2. Il riuso adattivo dei viadotti

Nel processo contemporaneo di trasformazione delle infrastrutture in sistemi o dispositivi green, capaci di innestare una transizione ecologica, assumono particolare interesse i riusi di viadotti dismessi. Alcune opere progettate a partire dagli anni ’80 del XX secolo hanno dato il via a diverse sperimentazioni con sempre maggiore determinazione nel corso dei primi decenni del XXI secolo.{p. 329}
Fig. 5. Promenade plantée, Parigi. Progetto di Patrick Berger, Jacques Vergely & Philippe Mathieux.
Ricordiamo innanzitutto il Viaduc des Arts con la Promenade plantée a Parigi (fig. 5), dove la sede di una linea ferroviaria sopraelevata, dismessa dal 1969, è stata trasformata dal progetto di Patrick Berger, Jacques Vergely & Philippe Mathieux in un parco lineare sopraelevato che dal 1997 entra a far parte del sistema verde tra l’Opéra Bastille e il famoso parco Bois de Vincennes. Allo stesso tempo il viadotto riqualificato, con le sue 67 arcate che si susseguono per oltre un chilometro e mezzo tra la Bastiglia e la Rue de Rambouillet, accoglie una serie di laboratori artigianali, negozi e spazi espositivi.
Dopo qualche anno dall’apertura della Promenade plantée di Parigi, a New York si sviluppa un processo che porta al recupero di un viadotto ferroviario costruito tra il 1929 e il 1934 e dismesso dal 1980, grazie alla mobilitazione di alcune associazioni di cittadini e ad un concorso di progettazione che nel 2004 prefigura il parco urbano dell’High Line (fig. 6).
Il progetto vincitore, redatto da James Corner Field Operations, Diller Scofidio + Renfro e Piet Oudolf, si realizza in diverse fasi, aprendo tra il 2009 e il 2019 le varie parti del parco alla città. Il percorso sopraelevato si inoltra per circa 2 chilometri ad un’altezza di 8,80 metri dal livello della strada e attraversa la parte occidentale di Manhattan, dal Meatpacking District agli Hudson Rail Yards, con una larghezza variabile tra i 9 e 27 metri. Il parco interpreta {p. 330}l’eredità e la condizione di abbandono di quella rovina postindustriale, dove la natura si era riappropriata di un pezzo di infrastruttura urbana. Traduce la biodiversità che ha trovato spazio lungo il tratto ferroviario dopo la sua caduta in rovina, in una serie di microclimi urbani specifici, che comprendono spazi soleggiati, ombreggiati, umidi, secchi, ventosi e riparati.
Fig. 6. L’High Line di New York vista dall’alto. Progetto di James Corner Field Operations, Diller Scofidio + Renfro e Piet Oudolf.
Fonte: foto di C.David/Adobe Stock 297679782.