Paolo Conte
Da esuli a francesi
DOI: 10.1401/9788815413031/p1
Una simile evoluzione trova poi riflesso nelle fonti con cui si è cercato di indagare tali periodi. Nella prima parte i principali strumenti di lavoro sono stati i rapporti della polizia francese, ossia i risultati dell’attenta sorveglianza con cui quest’ultima – spesso supportata dal contributo di spie individuate all’interno degli stessi ambienti italiani – guardò con preoccupazione a tale presenza, la quale del resto non tardò a confermare la fondatezza di quei sospetti. In un secondo momento, l’intensificarsi di attività editoriali da parte di un personale che andava dedicandosi sempre più al lavoro di valorizzazione oltreconfine della propria letteratura nazionale ha fatto sì che testi a stampa di vario genere (dai giornali alle traduzioni, dalle antologie fino ai manuali di grammatica) abbiano costituito il principale strumento di lavoro. E va detto che in tale ricerca un contributo non certo marginale è stato fornito dalle recensioni che di tali testi vennero pubblicate sui fogli coevi per la penna degli stessi protagonisti di quell’emigrazione, a testimonianza di una tendenza – oggi drammaticamente quasi del tutto scomparsa – a condurre la lotta politica anche attraverso
{p. 26}un profondo dibattito culturale, a considerare storia e letteratura come temi e strumenti attraverso i quali elaborare e proporre una propria idea di società, a far sì che le classi dirigenti dialogassero e si scontrassero soprattutto su visioni di politica culturale, in tal modo mostrando una formazione intellettuale e una dedizione allo studio che qui non saranno mai rimpiante abbastanza. Infine, nella parte conclusiva, alle fonti più classiche già citate si sono aggiunti documenti se non del tutto nuovi, di solito poco utilizzati negli studi inerenti la mobilità politica: fra questi, in particolare i dossier di naturalizzazione si sono rivelati strumenti molto utili non solo per effettuare un’analisi socio-quantitativa sulla presenza italiana in Francia in quel dato momento, ma anche per rinvenire notizie altrimenti difficilmente reperibili sul percorso biografico di tali uomini negli anni precedenti.
Così, i primi capitoli da un lato mostrano come il soggiorno nelle città francesi (e in particolare a Parigi) permettesse a questi esuli di confrontarsi anche con istituzioni scientifico-culturali la cui frequentazione molto incise sulla loro maturazione, dall’altro attestano come i tentativi di tessere trame politicamente più esplicite fossero tutt’altro che preclusi e molto si fondassero sulle relazioni maturate in patria negli anni del Triennio. In seguito, in un contesto nel quale l’egemonia napoleonica andava soffocando sempre più le possibilità di aperti dibattiti politici, l’attivismo della fase precedente assumeva i tratti – certo più rassicuranti, ma non per questo privi di contenuti ideologici – dell’impegno culturale, il quale si articolò tanto attraverso sofisticate operazioni storico-linguistiche volte a salvaguardare l’italiano delle origini, quanto tramite la promozione di scambi culturali in grado di condizionare anche la produzione editoriale del paese ospitante. Tali iniziative, tra l’altro, non si conclusero con l’avvio della Restaurazione, in quanto dal 1814 un simile impegno, ben lungi dal silenziarsi, riprese vigore sfruttando proprio le esperienze e i contatti dei lunghi anni napoleonici.
Di qui, ancor più concretamente, lo studio del progetto cospirativo tramato durante il Consolato da un ristretto gruppo di esuli napoletani guidati da quel Girolamo Moliterno che a Napoli aveva assunto incarichi di rilievo nella {p. 27}fase dell’anarchia popolare precedente alla Repubblica del 1799. Di qui, l’analisi dell’operato condotto nelle istituzioni dell’Impero da alcuni fra i più prestigiosi patrioti del Triennio quali Ennio Quirino Visconti, a Roma ministro degli interni nella Repubblica del 1798 e a Parigi responsabile della sezione delle antichità del Museo del Louvre. Di qui, la ricostruzione delle posizioni che ancora negli anni della Restaurazione contraddistinsero il percorso di quell’Alfio Grassi giunto in Francia dalla natia Sicilia nel 1799 per poi schierarsi a sostegno di Napoleone finanche nella concitata fase dei «Cento giorni», oppure del calabrese Francesco Saverio Salfi, il quale, proprio in quanto trasferitosi oltralpe solo dopo la svolta del 1814, ci è sembrato a suo modo confermare la longevità di questo contatto italo-francese. A ciò si aggiungono personaggi apparentemente di secondo piano, ma in realtà rivelatisi, seppur per motivi diversi, del tutto meritevoli di attenzione: è il caso del piemontese Augusto Hus che, dopo esser stato in Francia fra gli esuli del 1799, a Parigi giunse nuovamente cinque anni più tardi per intraprendervi una poco lodevole carriera di spia dei suoi connazionali; oppure del ligure Niccolò Giosafatte Biagioli, insegnante di italiano che per oltre trent’anni avviò i propri allievi allo studio dei grandi classici della letteratura nazionale.
Inoltre, la scelta di trattare non tanto delle cause dell’avvio di quell’esilio, bensì delle sue conseguenze in un arco cronologico più ampio ha implicato l’estensione dello studio anche ad altre forme di mobilità. Per questo, rispetto ai propositi con cui il lavoro ha preso avvio si è finito con l’estendere l’indagine ben oltre un concetto, quello dell’esilio appunto, che pur resta centrale. Insomma, proprio come avvenuto ai rifugiati del 1799, anche questa ricerca ha assunto, nel corso stesso della sua realizzazione, caratteri a larghi tratti non preventivati in partenza, perché si è trovata a confrontarsi con altre forme di emigrazione. Fra queste, alcune furono stimolate dalla volontà di cogliere le opportunità di formazione offerte dal nuovo contatto con la Francia, altre furono innescate dalla necessità di cercare nell’Esagono una stabilità professionale non raggiungibile in {p. 28}patria. Le une come le altre, ad ogni modo, restavano legate allo scenario politico-istituzionale del tempo, in quanto se nel primo caso i soggiorni di studio parigini furono incentivati dalle istituzioni napoleoniche allo scopo di diffondere in Italia le nuove teorie scientifiche affermatesi in Francia, nel secondo l’annessione dei dipartimenti peninsulari, trasformando i relativi abitanti in cittadini francesi, si rivelò per molti di essi – piemontesi in primis – una spinta decisiva a cambiare luogo di residenza e cercare oltralpe nuove possibilità di realizzazione.
In tal modo, si è finito con il realizzare uno studio che, pur concentrandosi sui rifugiati costretti alla fuga per la loro militanza repubblicana nel Triennio, ha trattato anche altri e successivi tipi di emigrazione. E lo si è fatto nella convinzione dell’opportunità di ridurre le differenze, spesso troppo nette, fra esilio politico e mobilità economica: il primo di solito considerato come esclusivamente imposto dal contesto contingente e sempre destinato a concludersi con il rientro in patria, e la seconda presentata come il risultato di valutazioni solo professionali e per nulla interessate alle trasformazioni istituzionali del paese di provenienza. Il caso degli italiani in Francia negli anni napoleonici, invece, dimostra come le due mobilità possano intrecciarsi e condizionarsi molto più di quanto non si sia a lungo sostenuto.
Ma soprattutto, l’analisi dell’estensione di un soggiorno pur cominciato come esilio ha permesso di approfondire i riflessi e la portata di un contatto, quello fra Italia e Francia, che in quegli anni fu ben lungi dal delinearsi nei meri termini dell’«imperialismo culturale» [25]
. Non a caso, tale contatto ha poi finito con il contribuire in maniera decisiva a porre le basi per lo sviluppo nella penisola di una cultura politica che, in seguito, avrebbe non poco condizionato l’intero processo risorgimentale.{p. 29}
Note
[25] M. Broers, The Napoleonic Empire in Italy, 1796-1814. Cultural Imperialism in a European Context?, Basingstoke, Palgrave, 2005.