Il chierico, il medico, il santo
DOI: 10.1401/9788815412072/c2
Capitolo secondo Un medico
Abstract
In questo capitolo viene presa in esame la perizia del medico ordinario Vincenzo de Iorio sullo stato di infermità del caracciolino. Alla luce dei sintomi del de Vivis, egli confermò la fase terminale della sua malattia e il suo ovvio e conseguente decesso. In seguito, nel corso del processo, il medico espose inoltre il racconto della visione onirica di Francesco Caracciolo avuta dal malato. Egli diede particolare rilievo anche al ruolo della preghiera e dellʼimmaginetta del venerabile posseduta dal giovane nel contesto della sua miracolosa guarigione.
1. Sentenza di morte
Il medico ribadì la sentenza la
mattina dell’11 agosto 1752.
Era una «sentenza di morte»
[1]
.
Quando un anno dopo i fatti, martedì
13 marzo 1753, si presentò dinanzi ai giudici per testimoniare, Vincenzo de Iorio aveva
«anni sessantadue in sessantatré»
[2]
. Era «medico di professione» e, tradendo una certa vanità, si diceva
«rinomato tra professori in questa città»
[3]
. Era nato a Maddaloni, in provincia di Caserta, ma operava a Napoli, «in
molti luoghi pii, case de’ nobili e di altri particolari [...] oltre le altre persone
avventizie da quali sono con affluenza chiamato», elencava
[4]
. Era riverito da religiosi e civili, nobili e popolani. Non era sposato, ma
si consolava con l’agio di «servitù e carrozza»
[5]
.
Varcata la cella, dove il condannato
era relegato – rapporterà quest’ultimo – «conferm[ò] il giudizio di non esservi più
speranza di vita per me, per i segni de’ polsi ed altro che io non so; ma io ben mi
sentiva indebolito, ed affatto destituito di forza oltre i sintomi già detti», ossia
«suffogazione e voglia di rovesciare»
[6]
. Sangue. Sangue che, facendosi strada per altra via, aveva continuato a
ruscellare fino a qualche ora prima. Un fluido nerognolo e mucoso. Marcio. Lutulento.
«Ebbi nondimeno due o tre volte l’emissione di ¶{p. 76}sangue con feccia
per secesso in quella notte tra il diece e li undeci di agosto», testimonierà il quasi morto
[7]
.
Poi, nel primo pomeriggio, l’evento:
mi raccomandai a detto venerabile mio fondatore padre Francesco Caracciolo, ponendomi la sua figura sul petto; mi feci portare la polvere che si grattò sopra il suo sepolcro e me la presi per bocca in presenza del padre Giovanni Pignelver e del fratello laico Carlo Porcelli e d’altri religiosi che non mi ricordo e, di poi, essendo io preso da una sonnolenza della quale se ne accorse l’istesso fratello laico, sotto infermiero Porcelli, chiuse le finestre di quella stanza dove fui trasportato; ed indi, prendendo io sonno profondo, fra quel tempo in sonno mi comparve il venerabile padre Francesco Caracciolo con il sembiante simile a quello che io ne aveva l’idea di ritratto della nostra casa di Lorenzo in Lucina di Roma, dicendomi: «tu mi hai chiamato, eccomi, che ti occorre?». Ed io nell’istesso sonno gli risposi: «la salute del corpo, se a voi piace»; ed egli mi replicò: «sappi, il tuo male era mortale, ma al presente sei sano; su alzati, obedisci»; e nello stesso punto svegliandomi [...] mi alzai senza più sentire dolor di testa molto grave, che prima avevo, senza verun affanno, senza battimento di petto, e senza veruno de’ precedenti sintomi, anche della febre, ma così vegeto come se non avessi patito il minimo male [8] .
Così il resuscitato raccontò a
Filippo, il primo dei confratelli da cui si precipitò al risveglio. «Subito alzatosi,
andò a bussarli la stanza, chiamandolo che fosse andato a vederlo nella sua, avendo
dovuto calare e salire più capi di scale», è la confidenza che Ruoti fece al compagno di
studi Domenico Messina
[9]
. Poi, insieme, risalirono e si chiusero nell’ombra della cella dove, poco
prima, il miracolo era avvenuto. Carlo e Filippo. Lì «per maggior prova avanti di lui,
scopai la detta stanza», riportò il primo
[10]
. A Ruoti seguirono il fratello laico e sotto infermiere Porcelli e il già
citato Messina. Dinanzi a quest’ultimo, addirittura, «alzai un matarazzo e lo battei, ed
egli veramente mi disse che ¶{p. 77}stavo bene», continuava il
miracolato, e che «aveva ripreso il colore naturale»
[11]
.
Strisciava al suolo la granata.
Grattava. Issava, abbatteva e percuoteva il materasso sotto gli occhi increduli della
ganga caracciolina. Fu uno spettacolo di forza ed equilibrismo, da circo di piazza, a
leggere sempre le parole di Domenico Messina:
si pose nelle sue mani il matarazzo, alzandolo in aria e poi battendolo, e dopo prendendo la scopa, e passeggiando, e prendendo le sedie in mano, asserendo che come prima non poteva fare un picciolo moto, anzi neppur parlare, che anche l’era stato proibito, egli faceva tutte queste azioni così faticose con tutta sua libertà, senza il minimo patimento; e così intesi che soleva fare con ogni altro padre che andava a ritrovarlo per contestarli il miracolo ricevuto [12] .
Si discosta dalle testimonianze
quella del padre Michelangelo Pigna, sebbene egli fosse un testimone oculare piuttosto
fededegno. Come lo stesso rivendicherà, a distanza di quasi un giorno
dall’interrogatorio del più giovane confratello, il 6 agosto del 1753: «[de Vivis]
avendolo io, più di ogni altro religioso di questa casa, veduto continuamente più volte
il giorno, per essere stato suo prefetto, come degli altri suoi compagni, sino al
passato mese di marzo che si trattenne in questa casa»
[13]
. Si fa per dire: dormiva con un occhio solo. Rapportò che, vinto il «demone
meridiano» del sonno (Sal 91[90], 5-6) – tardoantico nemico della
schiatta monastica –, quindi accostatosi alla cella del ragazzo: «lo ritrovai genuflesso
accanto del suo letto colla testa chinata ed appoggiata sopra la figura di detto
venerabile padre, che credo lo ringraziava del beneficio ottenuto»
[14]
. Nonostante rappre¶{p. 78}senti un
unicum, tale testimonianza potrebbe non essere del tutto
fuorviante: la dinamica che Pigna descriveva, avrebbe potuto avere luogo immediatamente
prima o, con minore probabilità, a seguito dell’esibizione dell’atletico religioso.
Come che fosse, da subito il giovane
espresse agli intervenuti il desiderio di calarsi sotto il coro della chiesa, dove erano
incassate le ossa di Francesco Caracciolo, per rendergli contento e ringraziare Dio
della guarigione impetratagli
[15]
. Tuttavia, Ruoti, il primo dei testimoni accorsi sul luogo del presunto
miracolo, gli chiese di pazientare. Al processo, Carlo richiamò le sue parole: «mi disse
che questo non poteva permetterlo perché poteva essere anche una fantasia mia»
[16]
.
«Una fantasia mia». Un’espressione
che, a un primo sguardo, potrebbe apparire corsiva. Alludeva, però, a qualcosa di più
complesso e articolato. Per iniziare a fare chiarezza, Ruoti ipotizzava che la visione
avuta in sogno da Carlo potesse essere stata originata dalla fantasia del dormiente: un
essudato della sua mente. Di più, si chiedeva se la guarigione stessa potesse essere
dipesa dalla vis imaginationis del languente, piuttosto che da un
intervento santo e divino. A queste difficoltà che, al risveglio, fecero dubitare
innanzitutto il giovane – «volendo fare esperimento se fosse stata vera visione in
sonno, o effetto della mia fantasia» – si darà particolare peso nel corso del processo;
soprattutto nella fase dibattimentale super dubio
[17]
. Su questo punto si avrà modo di tornare in seguito. Al momento, come Carlo
con la sua scopa di saggina, occorre fare un passo indietro e seguire la traccia delle
deposizioni per poter arrivare, infine, alla questione cardine: l’immaginazione. Si
proverà ora a rispolverare, punteggiando alcuni elementi, il racconto della visione che
de Vivis espose al processo e a portare l’attenzione, tanto per cominciare,
sull’immaginetta di Fran¶{p. 79}cesco Caracciolo e sul ruolo che essa
assunse, assieme alla preghiera e alla visione onirica del venerabile, nel contesto
della guarigione del giovane caracciolino.
2. L’immagine, la visione, la prece
Nel resoconto della guarigione,
Carlo de Vivis dettagliò:
mi raccomandai a detto venerabile mio fondatore padre Francesco Caracciolo, ponendomi la sua figura sul petto [...] ed indi prendendo io sonno profondo. Fra quel tempo in sonno mi comparve il venerabile padre Francesco Caracciolo con il sembiante simile a quello che io ne aveva l’idea di ritratto della nostra casa di Lorenzo in Lucina di Roma [18] .
Come prevedibile, le autorità
ecclesiastiche focalizzarono l’attenzione sull’immaginetta del venerabile, sulle
preghiere rivoltegli e sull’apparizione che ne seguì. Allegarono al dossier processuale
una puntuale ricostruzione della dinamica del sospetto miracolo. Al punto 14, si legge:
appena sentito l’avviso et annunzio della prossima ed imminente morte, col più vivo et intimo del cuore, [Carlo de Vivis] fece ricorso al suo venerabile fondatore padre Francesco Caracciolo; e, chiedendo la di lui imagine, e la polvere del di lui sepolcro, l’invocò con vivissima fede e fervidamente se gli raccomandò; e, postasi la detta imagine sopra del petto, fu lasciato alquanto solo dagli assistenti, sembrando volesse riposare [19] .
La descrizione proseguiva al punto
seguente:
verso le ore incirca della stessa mattina, dormendo, gli comparve il predetto venerabile padre Francesco Caracciolo e gli disse le seguenti, o altre simili, parole: «tu mi hai chiamato, eccomi, che ti occorre?». Alle quali parole rispose: «la salute del corpo, se a voi piace»; al che il servo di Dio replicò: «sappi che il tuo male era mortale, ma al presente sei sano; su alzati, obbedisci...» [20] .¶{p. 80}
Note
[1] AAV, Cause dei Santi, Processus 1895, f. 48v.
[2] Ivi, f. 68r.
[3] Ibidem.
[4] Ivi, f. 68v.
[5] Ibidem.
[6] Ibidem.
[7] Ibidem.
[8] Ivi, ff. 48v-49r.
[9] Ivi, f. 137v.
[10] Ivi, f. 49r.
[11] Ibidem.
[12] Ivi, f. 137v.
[13] Ivi, f. 218r.
[14] Ivi, f. 216v. E. Pontico, Trattato pratico sulla vita monastica, a cura di L. Dattrino, 2 voll., vol. I, Roma, Città Nuova, 1992, nr. 12, pp. 70-71: «Il demonio dell’accidia, denominato anche “demonio del mezzogiorno”, è il più gravoso di tutti i demoni: esso s’incolla al monaco verso l’ora quarta [10 AM] e ne assedia l’animo fino all’ora ottava [2 PM]». Cfr. inoltre G. Agamben, Stanze, cit., pp. 5-14.
[15] Ivi, f. 49v: «ed io avendo spiegato il mio pensiero, che volevo calare a questa chiesa, al sepolcro di detto venerabile padre, per ringraziare Iddio e lui della grazia fattami».
[16] Ibidem.
[17] Ivi, f. 49r.
[18] Ivi, f. 48v.
[19] Ivi, f. 19v.
[20] Ibidem.