Alessandro Sicora, Silvia Fargion (a cura di)
Costruzioni di genitorialità su terreni incerti
DOI: 10.1401/9788815411365/c3
C’è la vergogna, invece bisognerebbe trasformarla in orgoglio e dire «non è colpa mia, quindi mi unisco con quelli come me». È un lavoro difficile, io lo sto facendo proprio con gli istruttori [la sua categoria di lavoro, N.d.R.], proprio per modificare questa legge vergognosa che ci priva di un contratto, ho contattato un’infinità di istruttori, ho creato un comitato, ho creato gruppo, vengono vanno via, non manifestano, però ci sta, (…) so che è difficile farlo, non ce l’ho con loro perché capisco che non è facile, arrivati a un certo punto, svegliarti e avere l’orgoglio di dire «io faccio parte di coloro che il potere lo subiscono e non lo gestiscono». Però è quello il punto di arrivo, bisogna arrivare lì, ad avere l’orgoglio di far parte di chi il potere lo subisce.
{p. 79}

5. Il riconoscimento nell’esperienza di genitori in differenti condizioni di incertezza

Seguendo la chiave interpretativa offerta da Honneth, le parole dei genitori ascoltati mostrano con evidenza quanto anch’essi si costruiscano nella percezione di sé, apprendendo a rapportarsi con sé stessi dalla prospettiva di altri, che li approvano e li incoraggiano come soggetti apprezzabili per le loro capacità e le loro competenze o invece li avviliscono, negando loro legami affettivi, diritti, stima sociale. Essa offre lenti utili a cogliere quanto, dalle diverse forme di riconoscimento ricevuto, donne e uomini «si fanno» madri e padri, compongano e accrescano questa loro identità intersoggettiva, acquisiscano o no la fiducia in sé, il rispetto di sé stessi, l’autostima, la percezione di sé come persone che meritano riconoscimento di valore e diritti.
In questo paragrafo abbiamo provato a esplorare i processi della costruzione di sé come genitori, lungo il divenire non predefinito, sfidato da altre condizioni di incertezza esplorate dalle diverse unità di ricerca coinvolte nell’indagine nazionale: dalla frantumazione complessa e conflittuale dei legami coniugali, oppure dallo spiazzamento esistenziale e identitario provocato dalla migrazione forzata o, in fine, nella ricerca d’un modo d’essere genitore, fuori dallo standard preformato di coppia eterosessuale. Analizzando le interviste, si intravvedono genitori in costruzione nei loro retroscena – come direbbe Goffman [1959] – non facilmente visti da chi li incontra perlopiù nelle ribalte dei servizi, delle istituzioni, delle rappresentazioni sociali a cui si espongono o che tendono a rifuggire.
«I rapporti di riconoscimento – evidenzia Piromalli [2012a, 143] commentando Honneth – costituiscono i presupposti intersoggettivi necessari alla formazione dell’identità “ben riuscita”; essa a sua volta è condizione necessaria per l’autorealizzazione individuale di ciascuno (…) cioè per il perseguimento del proprio unico differenziato piano di vita». Se il riconoscimento avviene in modo autentico, produce «una sorta di fiducia interiore che dà all’individuo sicurezza sia nell’articolazione dei suoi bisogni che nell’esercizio delle sue capacità» [Honneth 1992; trad. it. 2002, 203]; se il riconoscimento non avviene o è carico di pregiudizi, se delude le aspettative di chi lo attende, produce «offesa morale», ulteriore esclusione, ingiustizia.
Si è ampiamente riferito, sin qui, in merito al riconoscimento nelle tre sfere delle relazioni di carattere affettivo, delle relazioni politico-giuridiche e delle relazioni comunitarie. La pregnanza di queste sfere di riconoscimento non solo si rileva nei contesti esistenziali dei genitori in condizioni di povertà economica, come evidenziato nei precedenti paragrafi, ma pare mostrarsi con sufficiente chiarezza anche negli altri terreni di incertezza genitoriale su cui si è indagato. I sottoparagrafi che seguono mirano a rendere conto di modi e sentimenti con i quali i genitori sembrano impostare la reciproca relazione {p. 80}con gli altri, a partire dalle possibilità di riconoscimento nelle tre sfere che Honneth propone.

5.1. Prima sfera

A proposito della prima sfera, relativa al riconoscimento affettivo garantito da congiunti e amici, su tutti e quattro i campi d’indagine si colgono dalle interviste indicazioni in merito alla necessità dei genitori travolti dalle difficoltà (determinate dalle diverse condizioni di incertezza) di poter contare su relazioni riconoscitive positive. In assenza di queste, è esposta a rischio la fiducia in sé. Appare evidente, ad esempio, nelle parole di Sofia, in conflitto con un marito che le restituisce l’immagine di «madre isterica», sottolineata anche dalla figlia e che lei stessa fa propria, acuendo lo smarrimento e la sfiducia sulle proprie possibilità di fare il genitore.
Sì, sì, certe volte veramente mi verrebbe voglia di mollare tutto e di dire proprio «guardate, io non sono più in grado di riuscire a seguire la crescita dei miei figli con serenità», perché adesso loro hanno una madre isterica, comunque, stressata, che non gli sta comunicando serenità, per tutti gli sforzi che io possa fare. E questo mia figlia me lo continua a rinfacciare. (…) Continua a dirmi: «mamma, perché sei sempre triste? Perché non puoi essere come le altre mamme, che sorridono, vanno al bar e chiacchierano?» «Hai ragione, perché?».
Oppure si coglie nelle parole con cui Alessia, altra madre separata, descrive la carenza di segnali rassicuranti che confermino affetto e fiducia da parte di chi ci si aspetterebbe più prossimo:
(…) sì perché ho perso proprio tutto, io non capivo più niente. Non capivo chi ero, perché poi in mezzo tra i miei figli, il mio ex marito, tra i miei genitori che da una parte dicevano «hai fatto bene», dall’altra «no, ma hai fatto male». Cioè ho fatto bene o ho fatto male? (…) Per cui era un momento… io avevo bisogno veramente di qualcuno che mi potesse aiutare a livello personale a prendere in mano le redini della mia vita ed ero veramente molto sballottata.
In positivo, si evidenzia invece l’importanza di relazioni che restituiscono rassicurazione e conferma positiva di sé. Racconta una mamma madre separata nel corso dell’intervista:
Poi, va beh, le amiche! Sicuramente le amiche anche, le amiche educatrici che mi riportano sulla retta via (…), che comunque capiscono la mia posizione nel senso che la vedono come me, da mamme.
Oppure, un padre separato racconta:{p. 81}
Poi mi consola che anche quando parlo con delle famiglie unite… Mi ha fatto specie una cosa: io ho un carissimo amico che ha una famiglia molto bella, unita, tre figli… e suo padre un giorno mi dice «sai che mio figlio parla più con te che con me?». E io, semplicemente, come mi comporto con suo figlio mi comporto con il mio.
Il riconoscimento intersoggettivo, entro legami percepiti come amichevoli, rassicura nella fiducia di un benessere perseguibile, della possibilità di essere e diventare una famiglia aperta a nuove relazioni. Genitori immigrati, accolti come profughi testimoniano questo aspetto:
Il rapporto con le persone è stato sempre ottimale (…), tutto il team del primo centro [d’accoglienza, N.d.R.] e quello attuale sono stati miei amici e anche alcune parti della comunità stessa, ci invitavamo a vicenda, venivano spesso a casa mia, i figli venivano spesso invitati per compleanni o per celebrare qualche evento.
All’opposto, l’assenza di tutto ciò, la percezione di non poter godere di relazioni di reciproco riconoscimento affettivo/amicale, sembra provocare un processo di chiusura, relazioni bonding [Donati 2007, 13], chiusura nello stretto giro della famiglia mononucleare o addirittura l’isolamento individuale. È quanto si ascolta dalle parole di un padre intervistato, profugo dal Nord Africa:
Ho imparato una cosa che è per me una lezione di vita, limitare i miei rapporti con la gente, ho capito che nella vita non ci sono amici, o persone strette, perché rispetto alla mia esperienza maturata qui con le famiglie immigrate in questo contesto ho visto che non ci sono rapporti di amicizia… è bene rimanere ognuno per sé, per fatti suoi, rimanere nel proprio ambito familiare e basta. Questo l’ho capito bene soprattutto qua nel paese estero, perché all’inizio io ero una persona molta aperta, estroversa e generosa, poi ho capito che non va bene così e sto per fatti miei.
Lungo l’asse tra riconoscimento e misconoscimento, in questa prima sfera honnethiana, sentirsi spinti verso il polo del misconoscimento pare associarsi alla rarefazione dei rapporti e all’evitamento di ulteriori chance di riconoscimento, in una sorta di rischiosa spirale. Una spinta a chiudersi che può portare al progressivo isolamento. Lo si coglie nelle parole di un padre con reddito precario, che giunge a non contare più neppure sulla condivisione con la moglie e i parenti più stretti:
Perché ci sono momenti in cui dici: non ce la faccio, non ce la faccio; non sai che strada prendere, entri in una specie di depressione, perché il cervello l’hai tutto inserito su quell’argomento e non riesco più ad agire per altre situazioni familiari, (…) c’è stato un periodo in cui non ne ho parlato più, mi sono chiuso in me stesso, tutto quello che c’era era tutto dentro di me e questo non ha fatto altro che peggiorare la situazione…{p. 82}

5.2. Seconda sfera

Con riguardo alla seconda sfera, riferita alla necessità di riconoscimento di uguaglianza di diritti, se il riconoscimento agevola lo sviluppo delle potenzialità di ruolo, sia esso civico, politico, lavorativo o genitoriale, la sua assenza pregiudica tutto ciò. Efficaci risultano le parole tratte dall’intervista a una mamma migrante forzata dall’Africa:
[Sarebbe d’aiuto] sicuramente facilitare l’accesso alla cittadinanza, che non ci siano degli ostacoli su questo come adesso, perché noi anche come genitori con questa cittadinanza saremo nelle condizioni di lavorare o aprire un’attività, di contribuire, di pagare delle tasse… quindi sarà una cosa reciproca per noi e per lo Stato.
Mi piacerebbe un giorno guidare, avere la patente, mio marito guida però non gli è concesso qui di poter avere la patente; quindi renderla un po’ più facile anche per noi in lingua [la patente], ci vorrebbe maggiore attenzione sul discorso di facilitare alcune situazioni che ci permetterebbero di avere pari diritti come gli italiani, che sono diritti che possono consentirci anche di svolgere il nostro ruolo di genitori al meglio.
Alcuni genitori riescono a rendersi consapevoli dell’importanza di ottenere riconoscimento sul piano giuridico, condividendo l’esperienza di misconoscimento dei diritti per farne occasione di elaborazione di una semantica diversa [Piromalli 2012a, 199], cioè sviluppare un’opportunità di riflessione e rinforzo reciproco sulla comune condizione di non tutela, uno spazio condiviso di difesa dell’autostima, una premessa di lotta collettiva per il riconoscimento. Dice a tal proposito una madre aderente a una associazione che tutela i diritti di donne lesbiche, intervistata in una regione del Sud Italia:
Per me l’associazione è come se fosse un piccolo Stato. Lì dove lo Stato manca, abbiamo un nostro statuto, una costituzione, abbiamo delle nostre regole. Ma questo non vuol dire ghettizzarsi, assolutamente, è semplicemente avere un riferimento proprio. Anche dal punto di vista normativo, legale, abbiamo un gruppo di avvocati che ci segue.
Così riferisce Tommaso, padre separato in pieno conflitto coniugale:
Allora le associazioni di padri separati. Quando ho conosciuto loro ho cominciato a risolvere tutti i miei problemi, perché mi hanno detto come interagire e mi hanno detto come fare.
Il riconoscimento reciproco tra non riconosciuti sul piano giuridico restituisce autoconsapevolezza e capacità rivendicativa. Così si esprime un padre gay intervistato in una regione del Centro Italia:{p. 83}
L’attivismo è stato una protezione: io so che c’è l’omofobia, ma io faccio attivismo in maniera pubblica, visibile e questa cosa mi tutela perché io non mi nascondo affatto. Io esprimo quello che sono, non devo nascondermi, non è un problema e non deve essere considerato tale. Anzi, io da questo ho ricevuto spesso sostegno. «Bravo, hai questa esperienza e fai attivismo. La porti anche per gli altri, non la vivi solo nella tua dimensione privata e specifica», le persone che mi hanno conosciuto mi hanno detto questo.
Come evidenziato nei paragrafi precedenti, sono processi di riflessività condivisa incontrati, seppur con maggiore difficoltà, anche in genitori in condizioni di povertà, quando intravvedono la possibilità di essere riconosciuti da altri e in tal modo possono far luce su di sé [Sanfelici 2023a].

5.3. Terza sfera

Nella terza sfera, che investe le relazioni di apprezzamento sociale, la lotta per il riconoscimento per taluni genitori è costante; l’apprezzamento sociale va conquistato ogni giorno e appare un cammino sempre in salita. Riferisce, ad esempio, un padre gay:
Tu in più devi essere un genitore modello, perché mentre se in una coppia etero lei [la figlia, N.d.R.] grida e sclera al parco giochi e gli altri penseranno «Poverina, non ha dormito» o quello che è… noi non possiamo permetterci in nessun modo di sbagliare e questa è la parte, secondo me, che a lungo andare sarà psicologicamente pesante per noi genitori gay, perché in più tu devi avere il burden, il fardello di provare che sei un genitore come gli altri, che però vuol dire meglio degli altri. E quindi c’è sempre il peso, se mia figlia dice una parolaccia o si mette le dita nel naso io devo evitare che qualcuno dica «Ah guarda, è figlia di due gay. Guarda come è maleducata» che poi magari è soltanto nella mia testa… però lo dicono spesso anche le persone nere, di colore, che la stessa cosa accade a loro, cioè che c’è il doppio peso: il dover fare le cose, il dover confrontarti con le discriminazioni e in più dover dare la rassicurazione agli etero, ai bianchi di essere come loro, anzi no, meglio di loro, perché mai una volta possiamo permetterci di sbagliare.
Nei frangenti di vita critici, proprio quando maggiore parrebbe la necessità di sentirsi rinforzare nell’autostima, il misconoscimento di sé come persona di valore, capace di scelte positive, si manifesta come doppio ostacolo alla realizzazione di sé. Lo esprime con chiarezza Francesca, mamma in condizione di alta conflittualità con il partner, avendo deciso di separarsi e di portare con sé i figli, nelle sue intenzioni «per il loro bene», allontanandoli dal padre:
Nel mio caso è stato così, come se mi dovessi ogni volta giustificare di una decisione presa, come se fosse stata una cosa sbagliata.
{p. 84}