Costruzioni di genitorialità su terreni incerti
DOI: 10.1401/9788815411365/c3
Si rinuncia alle cose, a non avere i soldi, sei anche isolato dagli amici e questo vale anche per i bambini (…). «Che scarpe ha quello?»; loro guardano anche questo, per cui vuol dire isolare anche i bambini… anche non potergli offrire un gelato a volte, no? (…) per cui le conseguenze ci sono, il malessere di tutto, sentirsi inferiori… non dovrebbero… cioè sarebbe bello se tutti, se tutti possiamo essere uguali (…) per i giochi, perché si fa magari la festa di fine anno e non hai i soldi per andare a mangiare la pizza, mi ricordo che ci sono state delle tavolate quando era all’asilo, e si facevano un poco fuori città e io non avendo l’auto e non avendo i soldi per arrivarci… È passato, tutto passa per fortuna, no? Però al momento e per un po’ di tempo ci resti male.¶{p. 74}
Tiziana, una madre che sta crescendo da sola un figlio con bisogni speciali, racconta dei suoi vissuti fino al momento in cui il reddito di cittadinanza non le ha consentito di acquistare «qualcosa in più»; nella narrazione emerge il tentativo di affermare un’immagine positiva di sé, indipendente dal prestigio che si riconosce in relazione alle risorse economiche:
Prima lo portavo mio figlio [a scuola] che avevo le scarpe rotte, perché prima [di ricevere il reddito di cittadinanza] non è che andavo veramente nel migliore dei modi a scuola… adesso preferisco essere pure io insieme a mio figlio curata, però le persone dovrebbero guardare anche internamente, su quello che ho passato io, perché (…) fare da padre e fare da madre è difficoltoso, e posso dire che ne sono orgogliosa.
È fonte di umiliazione anche essere disoccupati, o avere un lavoro «povero» che non consente di soddisfare i propri bisogni e quelli dei propri figli. Giulia sta crescendo da sola due bambini, l’ex marito non è presente e non contribuisce alle spese per il mantenimento; questa madre vive grazie al sostegno economico garantito dal reddito di cittadinanza, ma è per lei costante la sensazione di non sentirsi utile e apprezzata:
Vorrei trovare un lavoro, che mi renderebbe utile per la società e utile per mia figlia (…) sto prendendo il reddito [di cittadinanza], ma questa cosa a me non è che piace tanto, perché a me piace avere un lavoro e essere utile, e sentirmi realizzata come donna, come persona, come cittadina.
Il lavoro di cura non è oggetto della stessa stima riconosciuta al lavoro «produttivo» nella sfera pubblica, e determina svantaggio nell’accesso alle risorse per chi se ne occupa; emergono in modo chiaro dalle interviste non solo le molteplici barriere di accesso al mondo del lavoro per le madri, ma anche il loro vissuto di inferiorità, il sentirsi «meno apprezzate», in quanto non in grado di contribuire economicamente alla soddisfazione dei bisogni della propria famiglia. Laura è una madre di due bambini, sposata, casalinga, e avendo rinunciato al lavoro per prendersi cura dei figli molto piccoli spiega così il suo vissuto:
Lavora solo il marito, quindi ti senti inutile, anche se dentro di te sai che non è così (piange), no? Non inutile, però che non dai una mano, no? Quindi ti rende… abbassa un po’ la stima (piange). L’autostima (pausa), sì… sì… (piange).
In molti discorsi l’emozione della vergogna e la sensazione di sentirsi scarsamente «utili» si alternano a narrazioni in cui i genitori evidenziano l’impegno costante nel cercare di superare le difficoltà «nonostante tutto», e «la forza» che sono riusciti a trovare, a volte a scoprire o riscoprire, spesso grazie a esperienze che li hanno fatti sentire capaci. Si tratta di situazioni in cui altri li hanno riconosciuti per il loro contributo, ad esempio famiglie ¶{p. 75}coinvolte nel prestare loro aiuto, oppure persone o professionisti che li hanno coinvolti in attività o situazioni in cui loro stessi sono riusciti a offrire aiuto. Ad esempio Gala, emigrata da un paese dell’Est Europa, è madre single di un bambino, non ha rete familiare in Italia, lavora come assistente al domicilio di persone anziane, e ha raccontato della sua esperienza in un contesto di housing sociale:
Quando siamo andati a vivere lì, la nostra vita è cambiata, (…) non mi sentivo sola, mi sentivo proprio come in una famiglia e in qualsiasi momento volevi parlare con qualcuno, anche a mezzanotte, bussi a qualcuno, ti aprono e ti aiutano (…) o anche io, per esempio c’è un ragazzo che è disabile (…) oppure una persona che ha bisogno di fare la spesa, io avevo l’auto e andavo a fare la spesa anche per altre persone, se volevano.
Carlo è un esperto imbianchino e non riesce a trovare lavoro da molto tempo. Percepisce il reddito di cittadinanza che gli consente di sopravvivere e si sente «utile» nell’attività in cui è impegnato in relazione al PUC (Progetto utile alla collettività); nonostante le mansioni assegnate non corrispondano alle competenze in cui si è tradizionalmente speso, il suo impegno viene riconosciuto e sente meno il peso dei giudizi sulle persone che chiedono aiuti esterni:
Mi hanno fatto il PUC (…) quando hanno visto la mia situazione mi hanno messo direttamente nell’istituto infanzia e mi sono trovato abbastanza bene, anche gli insegnanti si trovano bene perché sono molto utile e attivo per loro; dico quello che dicono loro [di me], attenzione, perché io faccio sempre giudicare gli altri (…) alla fine, si, prendo quel reddito però non sono io che debbo a qualcuno, perché io sto facendo quell’attività, io sto sfruttando quello che mi stanno dando, mi piace essere utile, non mi piace prendere soldi dall’aria senza fare niente.
4.3. Il riconoscimento e la sua negazione nella sfera delle relazioni giuridiche: fare i genitori, ma senza diritti
Se, da un lato, la quantità di risorse materiali percepita da ciascun individuo è influenzata dal modo in cui il suo contributo viene valutato, dall’altro lato, «entro una soglia politicamente negoziata» [Honneth 2003], nelle società contemporanee è prevista la garanzia di diritti sociali che dovrebbero assicurare a ogni persona una quantità minima di risorse economiche, a prescindere dall’attribuzione di merito e prestigio. Nella teoria honnethiana la redistribuzione è regolata dal principio di uguaglianza nella seconda sfera di riconoscimento, che si esplica nelle relazioni politico-giuridiche. Oltre ad assicurare diritti sociali, il riconoscimento giuridico consente la tutela dell’ambito produttivo e lavorativo, con l’obiettivo di limitare la logica della massimizzazione del profitto individuale e garantire la coesione sociale.¶{p. 76}
Le interviste ai genitori forniscono molteplici esempi di asimmetrie in questa sfera, evidenziando forme di ingiustizia strutturale e violazione dei diritti che dovrebbero essere riconosciuti alle persone, costruendo forme di oppressione multipla [Sanfelici 2023c].
Ahmed sa «fare un po’ di tutto» ma ha perso il lavoro, nella sua città i tassi di disoccupazione sono alti e, per gli immigrati, la diffidenza nei loro confronti si aggiunge come ulteriore barriera nell’accesso a un’occupazione. Luda svolge lavori come domestica o nei bar, «quando la chiamano», ma il suo status giuridico è definito in relazione a un permesso di soggiorno che scade ogni anno e, non potendo permettersi l’auto per spostarsi, è sempre più difficile accedere al lavoro e, dunque, alle risorse per la sopravvivenza, soprattutto da quando si è separata da un marito violento e cresce da sola i suoi tre bambini. Jessica lavora come operatrice nel settore dell’assistenza agli anziani, è madre single, e il part time è una soluzione per occuparsi dei figli, anche se non «arrivi mai alla fine del mese». Katiuscia ha cercato un futuro migliore rispetto alla condizione di povertà nel suo paese di origine, ma ha trovato condizioni di grave sfruttamento lavorativo nei campi del caporalato, che le impedivano anche di occuparsi adeguatamente della figlia con bisogni speciali. Giovanni, muratore, non riesce a uscire dalla condizione di povertà perché, nonostante gli sforzi e la disponibilità «in qualsiasi ora e giorno della settimana», trova solo impieghi precari, a giornata, e riesce al massimo a lavorare due settimane al mese; l’alternativa che non intende percorrere è quella del legame con associazioni della criminalità organizzata, ben radicata nei territori del Sud Italia. Ha provato a lavorare al Nord, dove era riuscito a trovare un impiego regolare, ma la maggior parte delle entrate era versata per il pagamento dell’affitto e delle utenze, e non riusciva più a inviare denaro ai figli rimasti nel Mezzogiorno, dove è tornato avendo ottenuto «almeno un tetto» grazie alle risorse di edilizia residenziale pubblica.
Per molti è negato il diritto al lavoro, a causa dell’intersezione di molteplici variabili: lo status giuridico precario, gli alti tassi di disoccupazione in alcuni territori, l’assenza di intermediazione delle agenzie per l’impiego, e in generale lo scarso investimento delle istituzioni nelle politiche per il lavoro, il contemporaneo impegno nel lavoro di cura dedicato ai figli o altre persone in condizioni di dipendenza. Per molti l’alternativa è l’accesso a lavori poveri, saltuari, a chiamata, sfruttati.
Il mancato accesso a occupazioni adeguatamente retribuite e l’assenza di altre fonti di reddito si traducono in progettualità impossibili; senza risorse non si possono realizzare progetti per sé e i figli, nel presente e nel futuro. Teresa, madre italiana di tre bambini, che vive al Sud, utilizza un’immagine molto efficace per spiegare questa condizione:
È il lavoro quello che manca, gira tutto là, perché se c’hai un lavoro, c’hai uno stipendio non ti manca niente perché te lo gestisci, ’na volta fai ’na cosa, ’na volta ¶{p. 77}fai n’altra, ma te lo gestisci. Ma se non ce l’hai, che gestisci? A poi girare come vuoi ’a minestra, ma sempre quella è, s’a pentola è piena, giri, sennò non giri niente.
Se l’accesso a un lavoro che consente il sostentamento è una sfida per tutti gli intervistati, anche il diritto alla protezione sociale è una variabile spesso incerta, talvolta negata, che concorre alla costruzione del circolo vizioso che intrappola in condizione di costante incertezza. I vissuti di colpa per non essere riusciti a farcela, soprattutto rispetto alla soddisfazione dei bisogni dei figli, si alternano in alcuni casi al sentimento di ingiustizia. Rosa spiega:
Questo reddito [di cittadinanza] non è che te lo danno a vita, è questa la paura… che togliendo questo reddito, io dopo come faccio senza lavoro? E allora io sarei contenta che qualcuno mi chiamasse e dicesse «guardi, signora, ho un lavoro per te!». E invece ti viene l’ansia, perché il governo ti aiuta su una cosa e poi ti toglie un’altra cosa (…) io sono riuscita solo a prendere la maternità, che poi me l’hanno scalata dal reddito (…) anche se vedete che uno vi consegna un ISEE zero! Allora per me approfittate sulla gente, sulle persone che davvero non riescono a mettere un piatto sul tavolo!
Franca, una madre di tre figli che vive al Sud, spiega come lei e gli altri nella sua terra si sentano invisibili, «trasparenti» per i politici e «abbandonati» dalle istituzioni, che non vedono o non si preoccupano delle conseguenze dell’assenza di lavoro e di tutela sociale:
Qua in X siamo abbandonati da tutti, noi siamo sulla cartina geografica è vero, però siamo trasparenti! I politici dovrebbero fare qualcosa per la Calabria, se no qua va a finire che si scannano pure gli animali perché manca il lavoro (…) e lo Stato non ha aiutato a nessuno, se uno è in cassa integrazione e prende la cassa integrazione ogni 5-6 mesi e con 200 euro, cosa deve fare prima? (…) Qua, se non si prende in mano la situazione finirà brutta… droga, prostituzione, perché ce n’è tanta qua, abbiamo pure le straniere che fanno le prostitute, perché devono mangiare e io non li critico (…). Io metterei i loro figli dei politici qua, qualcosa farebbero per i loro figli, eccome se farebbero! Qui siamo abbandonati, abbandonati da tutti, forse pure Dio ci ha abbandonati.
La condizione di genitori «senza diritti» ha un impatto sui vissuti, sulla valutazione della propria adeguatezza come persona e come genitore, sulla percezione di essere «degni». Carlo, un papà che vive al Sud, spiega come la perdita del lavoro porti spesso con sé il rischio di perdere la dignità:
Un genitore che si trova in una situazione che neanche lavora, a volte guardo mia figlia e faccio «ma che dignità c’è?». Perché perdi di dignità, perdi di dignità ed è bruttissimo, perché giustamente la bambina va crescendo, serve quello che serve e quindi… è dignità per me?
Essere genitore senza diritti, senza lavoro, privati della possibilità di accesso alle risorse per fare famiglia «come gli altri» comporta in molti casi ¶{p. 78}la necessità di rinunciare a riconoscere e soddisfare i propri bisogni come «persona». Teresa descrive la nascita inaspettata di un secondo figlio come «un trauma», quando le risorse materiali necessarie per soddisfare i bisogni dei bambini non sono disponibili; da un lato, si va avanti grazie alla forza di una famiglia unita in cui i compiti di cura sono condivisi, anche con i figli più grandi, che assumono compiti di cura, dall’altro si rischia di non farcela, di abbandonarsi, di «impazzire».
Adesso non si lavora più, non c’è più nulla, c’è il vuoto, mio marito è idraulico, elettricista, muratore, carpentiere, c’ha tutti i mestieri tutti, ma non ne trovi (…) e noi purtroppo siamo messi in condizioni di annullarci come persone per poter fare il genitore, perché se noi non ci annulliamo come persone il genitore non lo possiamo fare, o dovevamo rimanere single e gestirci con un panino e ciao, ma purtroppo la realtà è questa. Che poi alla fine io ero rimasta… avevo solo un figlio perché era più gestibile, e prendevo anche la pillola, sono rimasta incinta lo stesso ed è arrivata lei dopo 13 anni e… e ricominciare da capo è stato un trauma, perché era come se fosse il primo figlio e non avendo nemmeno i genitori è stato molto molto difficile e mio figlio è il secondo papà della sorella perché le dava il biberon, la cambiava, perché era più grande e mi aiuta molto anzi (…) [E ti senti] impotente, ti senti impazzire, perché non sai cosa, (…) perché è veramente dura, molto, vengono pensieri molto strani anche, e non è facile riuscire ad andare avanti poi, cioè devi avere una forza di quelle sovraumane.
Paolo, un papà che vive in una città del Sud Italia, sposato, lavoratore precario con reddito troppo basso per mantenere i due figli, ha raccontato in maniera molto efficace i vissuti di umiliazione e l’esperienza di oppressione e ingiustizia riferendosi in particolare a un periodo recente, in cui ha sperimentato la totale assenza di reddito a causa della disoccupazione. Paolo riconosce i processi che nel più ampio contesto sociale bloccano possibilità, sottraggono spazio per crescere e opportunità di partecipare, vede la possibilità di lotte collettive per il riconoscimento dei diritti, ma anche le sfide legate ai processi sociali e culturali che influenzano i criteri per definire cosa sia giusto e socialmente apprezzato.
C’è la vergogna, invece bisognerebbe trasformarla in orgoglio e dire «non è colpa mia, quindi mi unisco con quelli come me». È un lavoro difficile, io lo sto facendo proprio con gli istruttori [la sua categoria di lavoro, N.d.R.], proprio per modificare questa legge vergognosa che ci priva di un contratto, ho contattato un’infinità di istruttori, ho creato un comitato, ho creato gruppo, vengono vanno via, non manifestano, però ci sta, (…) so che è difficile farlo, non ce l’ho con loro perché capisco che non è facile, arrivati a un certo punto, svegliarti e avere l’orgoglio di dire «io faccio parte di coloro che il potere lo subiscono e non lo gestiscono». Però è quello il punto di arrivo, bisogna arrivare lì, ad avere l’orgoglio di far parte di chi il potere lo subisce.¶{p. 79}