Alessandro Sicora, Silvia Fargion (a cura di)
Costruzioni di genitorialità su terreni incerti
DOI: 10.1401/9788815411365/c7
Va sottolineato come gli elementi emersi dalla ricerca, soprattutto riguardo all’esperienza dei genitori, non sono proposti come sostitutivi rispetto
{p. 204}alla conoscenza che si produce negli specifici incontri tra professionisti e persone. Come sottolineato nel capitolo 5, uno dei punti che si ribadisce è che ciò che caratterizza l’approccio del servizio sociale a livello micro è un’attenzione alle diversità e alle specificità di ogni storia nelle complesse intersezioni di elementi che le caratterizzano. Nel servizio sociale è rilevante essere consapevoli delle molteplici dimensioni identitarie che compongono un individuo – come genere, etnia, orientamento sessuale, identità di genere, religione, classe sociale – e comprendere come questi aspetti interagiscano e si influenzino a vicenda, accrescendo in alcuni casi l’esposizione a forme di marginalizzazione, esclusione sociale o disagio. D’altra parte, il tenere in considerazione il principio dell’unicità della persona rappresenta uno dei cardini del servizio sociale. Tale principio si fonda sull’assunto che ogni individuo sia unico e diverso dagli altri, per cui ogni situazione richiede un intervento personalizzato, specifico e mirato. L’assistente sociale non può non considerare che ciascun individuo affronta in maniera unica le situazioni che vive, reagisce differentemente anche ai medesimi fattori di stress ed è in grado di ricorrere a risorse diverse, anche in relazione alla fase del ciclo di vita e al contesto in cui si trova. Le conoscenze cui si fa cenno sono necessarie per consentire degli spostamenti di prospettiva che permettano di ascoltare in profondità le persone [Almeida et al. 2019; Bernard 2021; Mattsson 2014; Nayak e Robbins 2018]. Proprio su questo aspetto, infatti, alcuni genitori che hanno preso parte allo studio hanno dichiarato di aver molto apprezzato tale approccio quando è stato messo in pratica, perché è stato interpretato come una manifestazione tangibile della determinazione da parte degli operatori nel voler fornire un supporto reale, mirato, condiviso, al di là delle prescrizioni e dei vincoli, pur entro la cornice di procedure e prassi di riferimento. È bene ribadire, pertanto, che le suggestioni della ricerca non intendono offrire interpretazioni preconfezionate dell’esperienza dei genitori, ma rendere possibili nuovi vertici di osservazione per lasciare spazio a una comprensione dell’unicità delle esperienze che l’assistente sociale incontra. Si tratta di una prospettiva che permette di riconoscere le ragioni delle persone e di cogliere la portata dell’impresa di costruire pratiche genitoriali quotidiane a fronte delle difficoltà avvertite come maggiormente critiche. La considerazione delle sfide è ciò che può altresì consentire il riconoscimento e la valorizzazione delle risorse già esistenti all’interno delle famiglie che diventano visibili proprio a partire da un’attenzione alle pratiche quotidiane situate, e non valutate in base a modelli normativi e a-contestuali che prescrivono cosa andrebbe fatto.
Nel corso di alcune interviste, è emersa la possibilità/opportunità che i professionisti, utilizzando spazi di discrezionalità differenti, possano assumere un atteggiamento critico nei confronti delle istituzioni, soprattutto nelle situazioni in cui il proprio ruolo e le funzioni esercitate vengono considerate un elemento capace di appesantire nei genitori il senso di oppressione [Leonardi {p. 205}2019; Ramsundarsingh e Shier 2017; Rossi e Bertotti 2019]. È risaputo, infatti, che il lavoro sociale è investito anche di una responsabilità politica, che si inserisce proprio entro la stretta interdipendenza tra le risorse a disposizione dei singoli professionisti e le misure di politica sociale o di welfare definite a livello più ampio. In linea con quanto avvenuto in altri contesti di ricerca, anche nell’ambito dello studio condotto con i genitori italiani in situazioni di vulnerabilità, il ricorso ad alcune pratiche discorsive e procedurali da parte dei professionisti, al di là del loro mandato specifico, si è rivelato proficuo per mostrare un atteggiamento di alleanza e di comprensione delle difficoltà vissute dai genitori, capace di sviluppare nella relazione interpersonale un ambiente collaborativo [Thompson 2005]. Se, da un lato, questo tipo di vicinanza è riuscito in diversi casi a promuovere un cambiamento nelle circostanze che generano condizioni di oppressione in alcuni nuclei familiari, dall’altro, ha reso evidente anche l’importanza della consapevolezza da parte dei professionisti del fatto che il loro operato si inserisce all’interno di un sistema più complesso che definisce procedure organizzative, operative e politiche [Nothdurfter 2011; Saruis e Catena 2012].

3. Il livello meso: l’organizzazione

La dimensione organizzativa emerge in forma rilevante dall’analisi dei dati raccolti con la ricerca CoPInG in ciascuno dei quattro specifici ambiti di genitorialità studiati, nonché nei percorsi trasversali tracciati attorno alle espressioni idealmente al centro dei cinque capitoli precedenti (stereotipi, riconoscimento, posizionamento, unicità della persona e pratica anti-oppressiva). Fra le tre considerate (micro, meso e macro), la dimensione meso è quella che forse più spesso viene smarrita nell’attenzione degli assistenti sociali in ragione della sua complessità, del suo essere data per scontata e, paradossalmente, dalla sua onnipresenza nel servizio sociale italiano (è un po’ come l’aria che il più delle volte ci risulta invisibile). Infatti, l’organizzazione non viene considerata nella sua piena importanza sino a quando, ad esempio, il professionista si sente imporre dal contesto organizzativo scelte che sono difficili da eludere, pur essendo in contrasto con i principi fondanti della sua professione. Si tratta di una situazione che frequentemente produce ciò che, concettualizzato prima nelle scienze infermieristiche e poi nel social work, è stato chiamato moral distress, ovvero quella forma di disagio prodotto nei professionisti dell’aiuto dal sentirsi impediti da vincoli istituzionali nel fare ciò che ritengono sia necessario in una data situazione [Mänttäri-van der Kuip 2020]. Più in generale, il moral distress può sorgere in situazioni in cui delle azioni eticamente appropriate sono difficili da compiere o sono addirittura irrealizzabili e può avere conseguenze psicofisiche sia immediate sia nel medio-lungo termine [Corley et al. 2008].{p. 206}
Rispetto al primo dei cinque concetti sopra richiamati e sviluppati nei capitoli precedenti, appare di particolare rilevanza l’internalizzazione degli stereotipi che riguardano i genitori intervistati e che vengono rispecchiati frequentemente nelle culture organizzative dei servizi sociali, sanitari e sociosanitari. Ciò viene rinforzato dal fenomeno della «profezia che si autoadempie» [Watzlawick, Helmick Beavin e Jackson 1967]: le aspettative, in questo caso degli appartenenti a una organizzazione, sulla persona utente inducono questa a comportarsi inconsapevolmente proprio nella maniera attesa. Ciò ricorda da vicino il «teorema di Thomas» (una situazione percepita come reale, diviene reale nelle sue conseguenze) [Thomas e Thomas 1928].
Per contrastare tali indesiderabili dinamiche tra servizi e persone utenti, appare importante acquisire consapevolezza degli elementi costitutivi delle culture organizzative che spesso incorporano lo «stereotipo del buon genitore» che è stato ampiamente descritto da Fargion, Mauri e Bertotti nel capitolo 4. Quando è propria dei genitori, attesi irrealisticamente come iper-performanti, tale internalizzazione si manifesta emotivamente come vergogna. La vergogna è un’emozione sociale poiché quando ci si vergogna, ci si vergogna per qualcosa di fronte a qualcuno e, attraverso tale emozione, le persone prendono coscienza di trovarsi in uno stato che percepiscono come poco dignitoso. La vergogna è parte di dinamiche sociali pervasive e i gruppi oppressi (attraverso il razzismo, la misoginia, l’omotransfobia, ecc.) sono spesso «svergognati» come forma di controllo sociale. L’enfasi sulla responsabilità personale e sulla «colpa» generata dal nuovo individualismo («se non sei come tutti e hai un problema è una tua scelta, una tua colpa») è un altro aspetto della dimensione sociale della vergogna [Frost et al. 2020]. Quale conseguenza logica, una discussione critica sulle visioni stereotipizzate della famiglia e del «buon genitore» deve trovare un adeguato spazio nella pratica e nella ricerca del social work, nonché nel dibattito sulla formazione al servizio sociale.
Le interviste ai genitori, lette alla luce dei concetti di stereotipo e di riconoscimento, hanno evidenziato l’importanza delle associazioni tra genitori che condividono analoghe condizioni. Si tratta di organizzazioni che, diversamente da quelle caratterizzate da un alto livello di formalizzazione e istituzionalizzazione, sono basate sulla condivisione dei vissuti tra pari, sulla reciprocità e sulla spontaneità delle relazioni. Numerosi studi sulla genitorialità in condizioni di vulnerabilità hanno evidenziato che la relazione con soggetti con profili simili rende possibile l’acquisizione di una migliore consapevolezza di sé e l’individuazione di strategie di fronteggiamento dei problemi condivisi in modo da vivere la propria quotidianità in maniera meno condizionata dalle aspettative sociali [Canavan, Dolan e Pinkerton 2000; Fram 2003; Houston e Dolan 2007]. Tale conclusione è confermata dalle ricerche condotte da Branscombe, Schmitt e Harvey [1999], Major e O’Brien [2005], Schmitt e Branscombe [2002] che fanno emergere quanto importante sia, in generale, il gruppo dei pari in quanto può offrire un supporto concreto in termini di {p. 207}sostegno psicologico, inclusione sociale, lotta al pregiudizio e accrescimento del senso di appartenenza.
I genitori appartenenti alla comunità LGBT hanno enfatizzato l’importanza del mondo associazionistico che consente non solo l’incontro e il confronto, ma anche l’attivazione di azioni volte al cambiamento e alla legittimazione della loro identità attraverso azioni collettive (uno dei genitori intervistati in quest’ambito ha affermato che «l’associazione è come se fosse un piccolo Stato»). Anche le reti di supporto costituite con altri genitori con esperienza di migrazione sono state importanti per ridurre la sensazione di marginalità e vulnerabilità. Altrettanto è emerso da alcuni padri separati che hanno dichiarato di aver trovato, nella rete di relazioni costruita attraverso l’associazione, un utile supporto per trovare delle soluzioni a problemi che li assillavano da tempo. Diversa, invece, è la posizione di gran parte dei genitori che vivono in condizioni di povertà. La propensione a ricercare un confronto con altre persone che condividono lo stesso status economico non è apparsa molto diffusa nelle loro parole. La povertà è ancora considerata da molti come un tabù, una condizione da nascondere più che da manifestare tramite un’associazione creata ad hoc.
Nel chiudere questa parte relativa al tema dello stereotipo, come apparso nelle interviste della ricerca CoPInG e rilevato nel capitolo 2, è interessante sottolineare che, quale forma di difesa dalle stigmatizzazioni spesso operate dalle istituzioni, vi è il ricorso, soprattutto da parte dei genitori appartenenti a minoranze sessuali o di genere, a un proprio network di servizi «amici», ovvero a una rete alternativa costituita da soggetti di cui è già noto l’atteggiamento favorevole e privo di pregiudizi.
L’importanza del riconoscimento reciproco nel rapporto tra servizi e genitori è il secondo importante elemento emerso in questo volume. La connotazione burocratica assunta da molte organizzazioni è frequentemente di ostacolo allo svolgimento di processi di aiuto efficaci. Il contesto organizzativo è essenziale nel determinare il grado di riconoscimento o, al contrario, di disconoscimento dell’altro. In tale ambito, sulla base di quanto raccolto dalle interviste ai genitori e agli assistenti sociali, Gui e Sanfelici, nel loro contributo, hanno dato forma a quattro idealtipi per descrivere altrettante modalità con le quali il contesto organizzativo influenza con forza le relazioni di aiuto che in esso hanno luogo. Tale tipologia, particolarmente rilevante in questa sezione sulla dimensione meso, nasce dall’aver individuato due assi rilevanti: il primo è relativo alla «proattività» di servizi che vanno o non vanno verso le persone per intercettarne i bisogni, il secondo presenta lungo un continuum su di un lato «la modalità della comprensione» e sul lato opposto «la modalità della separazione» tra i soggetti in relazione. Le quattro combinazioni risultanti hanno definito quattro idealtipi etichettati come:
  1. controllo. I servizi «vanno verso» le persone, ma nella modalità «separazione» e in relazione a un approccio investigativo, mantenendo e applicando le proprie categorie di giudizio relative agli standard di buona genitorialità; {p. 208}
  2. filtro formale. Le regole dettate dall’organizzazione definiscono chi può accedere ai servizi sulla base dell’appartenenza a categorie predefinite. Il lavoro degli assistenti sociali si connota burocraticamente e tali professionisti sentono di doversi attenere a procedure formali con un basso coinvolgimento empatico;
  3. accoglienza. Non è l’assistente sociale che «va verso» la persona utente, ma è questa che si rivolge ai servizi. Diversamente dall’idealtipo precedente, la relazione è basata sull’accoglienza e sull’ascolto, pur all’interno di un quadro di regole predefinite dall’organizzazione. In ragione delle modalità comunicative empatiche, la persona utente riesce a distinguere le responsabilità del social worker da quelle del sistema istituzionale di cui quest’ultimo è parte;
  4. alleanza. L’assistente sociale è messo nelle condizioni di «andare verso» la persona utente costruendo fiducia e alleanza, attraverso la relazione interpersonale e la contemporanea azione sui contesti organizzativi e comunitari coinvolti nella relazione d’aiuto.
Il concetto di posizionamento, protagonista del capitolo 4, consente di collocare l’assistente sociale nell’intreccio di relazioni tra i livelli micro, meso e macro. Dal punto di vista del modello sistemico-relazionale l’incontro tra assistente sociale e persona viene visto come un incontro tra sistemi, fatto di posizioni, rappresentazioni e modalità comunicative diverse. In particolare, l’assistente sociale si colloca all’interno di una pluralità di micro e macrosistemi: équipe, servizio, sistema dei servizi, politiche sociali.
La cultura organizzativa nella quale i professionisti sono inseriti è propria del livello meso, nonché di istituzioni, tempi e spazi diversi. Vi è una netta differenza tra organizzazioni private e organizzazioni pubbliche, queste ultime gravate di responsabilità particolarmente forti nel garantire diritti di cittadinanza sociale e tutela a soggetti fragili, come nell’ambito della tutela minorile. Inoltre, da un punto di vista temporale, va riconosciuto il peso assunto anche in Italia a partire dagli anni Novanta dalla logica manageriale entrata massicciamente nelle culture organizzative del sistema italiano dei servizi con le sue conseguenze in termini di standardizzazione delle valutazioni e delle prestazioni e di riduzione degli spazi di discrezionalità riconosciuti agli assistenti sociali in ragione di una loro professionalità e autorevolezza, forse non più riconosciuta come un tempo [Fargion, Nagy e Berger 2019; Nothdurfter 2016; Rossi 2014; Tousijn e Dellavalle 2017].
Presente in alcune delle testimonianze di assistenti sociali raccolte nel corso della ricerca CoPInG, il disallineamento tra ciò che l’assistente sociale pensa sia necessario fare e i vincoli posti dal sistema organizzativo e delle politiche può produrre quel fenomeno di moral distress richiamato all’inizio di questo paragrafo o, più in generale, un certo grado di tensione tra assistenti sociali e organizzazioni di appartenenza con molteplici conseguenze nei professionisti: ritiro emotivo oppure sovrainvestimento nel lavoro; assunzione di un atteggiamento di appiattimento acritico alle regole dell’organizzazione
{p. 209}e di una burocrazia che da mezzo per gestire efficacemente enti e istituzioni si trasforma in finalità dell’azione delle istituzioni stesse, oppure, all’estremo opposto, un atteggiamento di contrapposizione priva di consapevolezza organizzativa [Garett e Bertotti 2017; Liljegren 2012].