Dalla tutela alla parità
DOI: 10.1401/9788815374257/c5
Con la legge n. 1204/1971 risulta rafforzato il
diritto alla stabilità nel posto di lavoro della lavoratrice madre
[15]
. Le eccezioni al divieto di licenziamento sono rimaste pressoché identiche
[16]
, ma l’esperienza maturata nei venti anni in cui è stata vigente la legge n.
860/1950 ha suggerito una nuova formulazione delle norme sul divieto, che opera ora in
connessione con lo stato oggettivo di gravidanza e puerperio, e non con la sua
certificazione
[17]
. Di conseguenza, ove la lavoratrice madre sia licenziata durante il periodo
coperto dal divieto, ha diritto di ottenere il ripristino del rapporto di lavoro
presentando, entro novanta giorni dalla data del licenziamento, idonea certificazione,
dalla quale risulti l’esistenza, all’epoca del licenziamento, delle condizioni che lo
vietavano. Le nuove norme riproducono, nella sostanza, il discusso art. 13 del
regolamento di attuazione della legge n. 860/1950 (D.P.R. n. 568/1953 ormai abrogato).
Del vecchio regolamento, il regolamento di esecuzione della nuova legge (D.P.R. n.
1026/1976) ha ripreso anche la disciplina del ripristino, disponendo che il periodo
intercorrente tra la data della cessazione effettiva del rapporto e la data della
presen
¶{p. 180}tazione del certificato è computato nell’anzianità di
servizio, ma la mancata prestazione lavorativa nel periodo medesimo non dà diritto alla
retribuzione. La norma regolamentare continua a riversare sulla lavoratrice le
conseguenze economiche della mancata tempestiva certificazione, benché tale
certificazione, come si è appena visto, non abbia più alcuna connessione con
l’operatività del divieto di licenziamento. La legittimità dell’art. 4 ult. comma è
dubbia, poiché quanto disposto dal regolamento pare più una innovazione che
un’attuazione dell’art. 2, II comma, della legge n. 1204/1971. Infatti, nel prescrivere
il «ripristino» del rapporto di lavoro per la lavoratrice licenziata durante il divieto,
il legislatore dal 1971 non poteva dimenticare che il significato e le conseguenze,
anche economiche, della reintegrazione nel posto del lavoratore illegittimamente
licenziato, già deducibili dai principi generali, erano ormai quelli definiti dall’art.
18 dello statuto dei lavoratori per la stragrande maggioranza dei casi di nullità,
annullabilità, e inefficacia del licenziamento. Se questo è vero, è anche ragionevole
pensare che, ove il legislatore avesse voluto, per il caso di specie, fare eccezione
alle regole generali, lo avrebbe espressamente detto: nel silenzio della legge, si può
allora ritenere che l’art. 4 ult. comma D.P.R. n. 1026 abbia esorbitato dai limiti
propri della norma regolamentare
[18]
.
La descrizione delle innovazioni più
significative introdotte dalla legge n. 1204/1971 sulla tutela delle lavoratrici madri
può concludersi con un cenno ai due nuovi istituti, che meglio esprimono gli intenti e
la qualità della riforma attuata con quella legge. L’art. 7 prevede, al I comma, che la
lavoratrice madre possa prolungare di sei mesi il periodo di astensione obbligatoria
post-partum; in questo periodo di astensione facoltativa dal lavoro, indennizzato al 30%
della retribuzione, la lavoratrice mantiene il diritto alla conservazione del posto
[19]
. Al II comma, l’art. 7 prevede il diritto della lavoratrice madre ad
assentarsi dal lavoro durante le malattie del bambino di età inferiore ai tre anni. La
nuova disciplina delle assenze è evidentemente ispirata dalla preoccupazione di
garantire alla madre, che ne abbia il desiderio o la necessità, la possibilità di
occuparsi del bambino; ma anche¶{p. 181} dalla consapevolezza che la
carenza di servizi sociali adeguati rende spesso indispensabile l’opera personale della
madre. Tuttavia, proprio questo ruolo della madre, responsabile spesso unica e sempre
essenziale della assistenza ai figli, sancito e tutelato dalla legge n. 1204/1971, è
stato messo di recente in discussione. La legge n. 903/1977, sulla parità uomo-donna nei
rapporti di lavoro, ha modificato l’art. 7 della legge n. 1204/1971, estendendo al
padre, sia naturale sia adottivo, il diritto di assentarsi dal lavoro per provvedere
alla cura dei figli. Sul modello della legge svedese, l’art. 7 della L. n. 903/1977
consente oggi ai genitori di dividersi in modo meno impari i compiti. Ma, se è il padre
ad esercitare il diritto sancito dal I comma dell’art. 7 L. n. 1204/1971 a favore della
lavoratrice, la rinuncia della madre (a tutto il periodo previsto, o al singolo periodo
in cui l’astensione facoltativa sia stata frazionata)
[20]
deve risultare anche da una dichiarazione del datore di lavoro di essa
[21]
.
L’innovazione introdotta dalla nuova legge sulla
parità è certamente significativa della volontà di incidere sul costume sociale, per
rendere meno rigido il ruolo familiare della donna, aumentando la sua disponibilità al
lavoro extradomestico. Ma, perché concretamente si realizzi l’alternanza dei genitori
nell’assistenza alla prole, debbono verificarsi almeno due condizioni: che i padri siano
effettivamente in grado di svolgere i compiti che fino ad ora hanno svolto le madri; che
le donne svolgano un lavoro di pari dignità professionale e guadagnino almeno quanto i
propri mariti (o comunque padri dei propri figli), perché solo in questo caso saranno
seriamente in grado di convincere gli uomini a sacrificare per il bene dei figli la loro
attività e il loro salario.
Come ho detto all’inizio di questo paragrafo, la
legge n. 1204/1971, di cui le recenti modifiche non hanno mutato l’originario
significato di intervento protettivo, trova il proprio completamento nella legge 6
dicembre 1971, n. 1044 sugli asili nido. Già nella legge n. 1204 appare profondamente
modificata la disciplina delle camere di allattamento e degli asili nido, che la legge
del 1950 faceva obbligo al datore di lavoro di istituire quando le dipendenti coniugate
fossero più di 30. Nell’intento di eliminare progressivamente le
vecchie¶{p. 182} strutture aziendali di assistenza alle lavoratrici
madri, per sostituirle con nuove strutture pubbliche, l’art. 34 della legge n. 1204
stabilisce, infatti, l’applicazione transitoria delle disposizioni di cui alla legge
precedente solo a quei datori di lavoro che avessero (ai sensi di quella legge), entro
la data del 15 settembre 1971, istituito camere di allattamento o asili nido. Lo stesso
art. 34 prevede tuttavia che l’ispettorato del lavoro possa, sentite le organizzazioni
sindacali, procedere alla chiusura delle camere di allattamento e degli asili nido
aziendali «in relazione alle effettive esigenze delle lavoratrici [...] e all’attuazione
del piano quinquennale per l’istituzione degli asili nido comunali con il concorso dello
Stato».
Il piano quinquennale, ancora in fase di faticosa
attuazione, è disciplinato dalla legge 6 dicembre 1971, n. 1044; una legge importante,
non solo per il collegamento immediato con la legge sulle lavoratrici madri, di cui
rappresenta il necessario completamento, ma per il nuovo ruolo che attribuisce, nella
materia, alle Regioni e alle organizzazioni sindacali.
In base alla legge n. 1044, la costruzione, la
gestione e il controllo degli asili nido sono stabiliti con legge regionale. Princìpi
ispiratori della legislazione regionale devono essere: una localizzazione rispondente
alle effettive esigenze delle famiglie; la partecipazione delle famiglie alla gestione
degli asili; la sufficiente dotazione di personale qualificato e di attrezzature
tecniche. La legislazione regionale di attuazione ha, in genere, sensibilmente
migliorato le disposizioni della legge n. 1044, prevedendo la gratuità degli asili,
ampliando la partecipazione di base, inquadrando l’istituzione degli asili nido
nell’ambito dei provvedimenti generali sul diritto allo studio (risolvendo così i
problemi delle precedenze nell’accesso, della immissione degli handicappati, ecc.)
[22]
.
Se ci si potesse fermare alla descrizione della
legge n. 1044/1971, la situazione apparirebbe assai più rosea di quanto in realtà è. A
segnalare difficoltà e contraddizioni ha provveduto la corte costituzionale che, con
sentenza 30 maggio 1977, n. 92, ha dichiarato illegittimo, per violazione dell’art. 3
cost., l’art. 34 della legge n. 1204/1971
[23]
. Ad avviso della corte, facendo rivivere l’art. 11 della legge n.
860/1950¶{p. 183} per le sole aziende che avessero camere di
allattamento e asili nido aziendali in attività al 15 dicembre 1971, l’art. 34 ha
gravato queste aziende di una duplicità di oneri: spese per la conduzione degli asili e
delle camere di allattamento aziendali, e contributi destinati ad alimentare il fondo
speciale per gli asili nido, di cui all’art. 2 della legge n. 1044/1971. Questo duplice
onere non grava invece né sulle aziende che non ottemperarono, a suo tempo, all’obbligo
di istituire gli asili nido e le camere di allattamento, né sulle aziende che furono
autorizzate a chiuderli, né su quelle che, per altri motivi, non li avevano in esercizio
al 15 dicembre 1971. La decisione della corte è purtroppo ineccepibile: essendo mancata
la volontà politica di dare attuazione al piano per la costruzione e l’impianto degli
asili nido pubblici, la disposizione transitoria è divenuta definitiva. Il quadro
legislativo risulta così contraddittorio, ed è evidente la discriminazione a vantaggio
degli imprenditori meno rispettosi della legge.
Malgrado l’ancora scarsa attuazione della legge
n. 1044/1971, si può dire che le riforme del 1971 hanno finalmente creato un
collegamento tra condizioni di lavoro e strutture sociali: il raccordo tra le leggi 1204
e 1044 costituisce il primo (imperfetto) tentativo di dare al conclamato valore sociale
della maternità il sostegno di qualche concreto strumento di deprivatizzazione della
condizione di madre.
Il ruolo delle nuove leggi di tutela dovrebbe, di
conseguenza, risultare diverso dal passato, ovvero effettivamente «protettivo». Per
riprendere argomenti svolti nell’analisi della legge n. 860/1950, si dovrebbe poter
affermare l’avvenuto mutamento della politica governativa verso il lavoro femminile, o
meglio il passaggio dall’astensione all’intervento legislativo. Parrebbe, cioè, che le
sole obiezioni da muovere a queste riforme dovessero riguardare la carente attuazione
della legge sugli asili nido.
Ma così non è. A mettere in evidenza le ragioni
della risposta negativa valgono le critiche, che si muovono oggi alla legge sulle
lavoratrici madri: critiche non tutte accettabili, come dirò subito, ma certamente utili
ad individuare dove risiedano i limiti ideologici e i difetti di efficienza di una legge
di tutela (anche buona).¶{p. 184}
Hanno formato oggetto di censura quelle
disposizioni (brevemente riferite sopra) della legge n. 1204, che si riferiscono non al
dato biologico della maternità, ma alla cura dei figli e alle connesse attività
familiari. Si è sostenuto che, nel formulare tali disposizioni, il legislatore avrebbe
dato per presupposto che i compiti familiari siano esclusivamente (o prevalentemente)
della donna, e, su questo presupposto, avrebbe strutturato i rimedi assistenziali e gli
adattamenti delle condizioni di lavoro, mosso dalla preoccupazione di evitare che il
necessario assolvimento della funzione materna (e familiare) pregiudichi il livello di
reddito della donna occupata. In altri termini, il legislatore avrebbe sì facilitato il
lavoro extra-domestico della lavoratrice madre, ma subordinatamente alla intangibilità
della funzione familiare, di cui la legge sancirebbe, rigidamente, la
priorità.
Questo giudizio coglie solo parzialmente nel
segno. Non è dubbio, infatti, che il legislatore del 1971 abbia dato per presupposto che
i compiti familiari e la cura dei bambini gravino prevalentemente (se non
esclusivamente) sulle spalle delle donne. Così come non è dubbio che, malgrado siano
molte e importanti le innovazioni introdotte dalla legge n. 1204, tali innovazioni
consentano solo l’adeguamento (migliore rispetto al passato) delle condizioni di lavoro
alle funzioni familiari, e non promuovano invece alcuna modificazione del ruolo
familiare della donna. Il giudizio è stato accolto dallo stesso legislatore a pochi anni
di istanza: infatti le modifiche già segnalate all’art. 7 L. n. 1204/1971 danno il segno
di una volontà di intervenire sui rapporti familiari per modificare il tradizionale
ruolo della donna. Il disegno è completato dalla parziale fiscalizzazione degli oneri di
cui all’art. 10 L. n. 1204, su cui tornerò fra breve (infra, cap. VI, par. 2); a ciò la
legge n. 903 assegna il compito di agevolare l’occupazione delle lavoratrici
madri.
Invece, è dubbio se queste giuste osservazioni
valgano come critica interna alla legge n. 1204. Ad una analisi men che approfondita le
obiezioni rivelano di essere dirette non tanto alla legge, quanto all’insieme della
politica legislativa sul lavoro femminile. Se le critiche avessero come unico e reale
obbiettivo la legge n. 1204, non avrebbero infatti gran
¶{p. 185} peso.
In primo luogo, perché sarebbe facile replicare che il legislatore non avrebbe potuto
non tenere conto ‒ nel tutelare le lavoratrici madri ‒ della realtà dei rapporti sociali
e familiari e delle esigenze che, in queste condizioni, la maternità pone alla donna
occupata nel lavoro extra-domestico; disconoscere tutto ciò avrebbe significato rendere
ancor più gravoso il doppio ruolo che le donne (e soprattutto le madri)
indiscutibilmente svolgono. In secondo luogo, perché ci sarebbe da chiedersi se la
promozione del rinnovamento (dell’emancipazione) sarebbe dovuta (o potuta) passare
attraverso la legge sulle lavoratrici madri.
Note
[15] Il divieto di licenziamento è ancora sorretto dalla sanzione (art. 31 L. n. 1204). Quanto alle dimissioni volontarie della lavoratrice presentate durante il periodo di divieto di licenziamento, l’art. 11 D.P.R. n. 1026/1976 ha stabilito che debbano essere comunicate all’ispettorato del lavoro, che le convalida: la risoluzione del rapporto di lavoro è condizionata alla convalida. La procedura è diversa, ma la ratio della norma regolamentare è la stessa dell’art. 1, III comma, L. n. 7/1963 (retro, cap. IV, par. 4).
[16] Ma v. l’art. 3 D.P.R. n. 1026/1976 e l’art. 2, IV comma, L. n. 1204/1971 per le addette ad industrie e lavorazioni stagionali.
[17] Retro, cap. IV, par. 3.
[18] Esprime dubbi sulla legittimità dell’art. 4, ult. comma, D.P.R. n. 1026/1976 C. Assanti, La disciplina del lavoro femminile, cit., p. 30. Per la ricostruzione della disciplina dei licenziamenti, contenuta nell’art. 18 statuto dei lavoratori, rinvio a quanto ho scritto in I licenziamenti, cit., pp. 76 seg., e ivi specialmente la critica all’opinione che spiega retribuzione e risarcimento dei danni dovuti al lavoratore illegittimamente licenziato come risarcimento dei danni derivanti dalla mora del creditore (pp. 104 seg.). Seguendo l’indirizzo criticato, e vigente la legge n. 860/1950, la mancata corresponsione della retribuzione alla lavoratrice ripristinata (ai sensi dell’art. 13 del regolamento) era giustificata da F. Carinci, In tema di «divieto di licenziamento» della lavoratrice gestante, cit., p. 1626, con la inesistenza del dovere del datore di lavoro creditore di cooperare, prima della presentazione del certificato medico, e cioè quando ignorasse lo stato di gravidanza della lavoratrice. Alla luce della nuova disciplina del divieto di licenziamento, la mancata corresponsione della retribuzione non trova più una spiegazione credibile. Infatti, se il divieto opera con lo stato oggettivo di gravidanza della lavoratrice, la conoscenza (soggettiva) che il datore di lavoro abbia della gravidanza medesima è irrilevante: del resto, la presentazione del certificato nei termini previsti dalla legge produce senz’altro l’annullamento del licenziamento e il ripristino del rapporto. Poiché allora la mancata prestazione lavorativa consegue ad un licenziamento, e l’annullamento di questo prescinde dalla considerazione delle intenzioni del datore di lavoro, dalla sua buona fede (e persino dai suoi giustificati motivi), la situazione della lavoratrice madre non è diversa da quella di ogni altro lavoratore licenziato senza giusta causa o giustificato motivo (art. 18 st. lav.). Pertanto, appare ingiustificato il peggior trattamento che l’art. 4 ult. comma D.P.R. n. 1026/1976 riserva alla lavoratrice.
[19] Il periodo di assenza facoltativa è frazionabile: lo ha stabilito l’art. 8 D.P.R. n. 1026/1976, che ha imposto alla lavoratrice che intende assentarsi il dovere di dare comunicazione al datore di lavoro e all’ente assicuratore tenuto al pagamento dell’indennità, precisando il periodo dell’assenza.
[21] La ragione di questo ulteriore requisito formale sta nel fatto che l’assenza è compensata con un’indennità, e che esiste quindi il rischio che ambedue i genitori beneficino dell’indennità medesima.
[22] Sulla legge n. 1044/1971, v. le osservazioni di T. Treu, Lavoro femminile e uguaglianza, cit., p. 58.
[23] In «Rivista giuridica del lavoro», 1977, II, p. 304 e ivi la nota di commento di G. D.