Dalla tutela alla parità
DOI: 10.1401/9788815374257/c3
Lo stesso disegno, ovvero il progetto di fare
uscire le donne dalla tradizionale condizione subalterna e di assegnare loro un nuovo
ruolo di massa progressiva, era condiviso dal sindacato. La C.G.I.L. unitaria, nel
congresso di Napoli (1945), non solo aveva reso omaggio al contributo dato dalle donne
alla lotta dei lavoratori contro il fascismo, ma le aveva chiamate a condividere la
responsabilità delle classi lavoratrici nella ricostruzione del paese. Le enunciazioni
di principio non erano però accompagnate dalla adozione di concrete misure: l’accordo
del 1945 sulla perequazione delle retribuzioni (all’art. 4) concedeva alle donne la paga
contrattuale prevista per gli uomini solo quando venissero destinate a compiere lavori
«tradizionalmente compiuti da maestranze maschili a parità di condizioni di lavoro e di
rendimento qualitativo e quantitativo»
[18]
. Nei fatti (e nei contratti collettivi), la sperequazione salariale restava
pesante, anche se più contenuta che nel passato
[19]
. Ma gli atti ufficiali del sindacato unitario ribadivano l’impegno di tutti
i lavoratori per il ri
¶{p. 114}conoscimento, alle donne, del diritto al
lavoro e alla giusta retribuzione, per la tutela della maternità e della salute delle
lavoratrici.
Tutte le forze politiche erano consapevoli del
peso che avrebbero avuto le masse femminili, e quindi dell’opportunità di dare qualche
formale riconoscimento dello spirito di sacrificio e della capacità di lavoro dimostrati
dalle donne. Ma se i partiti di sinistra e il sindacato ponevano il mutamento della
condizione giuridica delle donne (e particolarmente delle lavoratrici) come momento
essenziale per il loro inserimento nella vita politica e sociale, il consenso della D.C.
sui mutamenti da introdurre non andava oltre la sanzione del diritto di eguaglianza, in
vista di un’emancipazione femminile armonica con quella concezione del ruolo (domestico)
delle donne, propria della tradizione cattolica.
Contro ogni tentativo di rinnovare, da parte
democristiana, le vecchie concezioni sulla funzione familiare e materna della donna, era
intervenuto Pio XII. In un discorso di principio, pronunciato nei giorni (ottobre 1945)
in cui si svolgeva il 1° congresso dell’U.D.I., il papa aveva ribadito che il destino
della donna è di essere madre; quella che va a lavorare «stordita dal mondo agitato in
cui vive, abbagliata dall’orpello di un falso lusso, diventa avida di loschi piaceri»
[20]
. Il conservatorismo del papa non evitava il grottesco; ma di conservatorismo
erano venate anche le posizioni della sinistra
[21]
. Pesava negativamente lo scarso approfondimento che le questioni della
famiglia e dei rapporti interpersonali ricevevano da parte dell’organizzazione delle
donne, troppo poco autonoma, nell’elaborazione teorica e nelle concrete scelte
politiche, dai partiti della sinistra (socialista e comunista).
Le sinistre, mentre restringevano tutto il
problema dell’emancipazione femminile a quello dell’occupazione extra domestica
[22]
, si erano chiaramente pronunciate in difesa della famiglia. Della famiglia
si criticavano le «degenerazioni» (imputate al fascismo e alla guerra), senza investire,
colla critica, struttura e funzioni di questa formazione sociale, all’interno della
quale il capitale ha assegnato alle donne il compito di «produrre e riprodurre forza
lavoro»
[23]
. Valgano come¶{p. 115} esempio le parole di Togliatti:
«della famiglia italiana ‒ aveva detto il leader del P.C.I.
[24]
‒ vogliamo fare non solo un centro di solidarietà, ma anche un centro di
lotta contro il dilagare della corruzione [...], contro la piaga vergognosa della
prostituzione [...]. Abbiamo bisogno di difendere le famiglie, infine, per risolvere il
problema dell’infanzia».
In nome della ricostruzione dell’unità delle
famiglie, il P.C.l. spingeva le donne comuniste a ricercare l’accordo ed a collaborare
con le donne cattoliche
[25]
; e puntualmente l’U.D.I., che pure aveva posto nel suo programma
rivendicazioni paritarie e richieste specifiche non conciliabili con la concezione
conservatrice del ruolo delle donne propria dei cattolici, ribadiva che l’elevazione
culturale ed il pieno riconoscimento della personalità delle donne avrebbero rinnovato
l’istituto familiare, «base fondamentale ed insostituibile della società»
[26]
.
Da parte comunista, questo ribadire la funzione
domestica della donna, recuperando la famiglia come sede privilegiata dello sviluppo
della personalità femminile, significava diluire di molto il valore emancipatorio
(appunto dalla schiavitù del lavoro domestico e dalla servitù familiare) che la
tradizione marxista aveva sempre assegnato al lavoro extra domestico (specialmente di
fabbrica)
[27]
. Veniva meno la centralità della rivendicazione, non nuova, ma di
significato dirompente in quel contesto economico e politico, del diritto al lavoro e
all’eguaglianza nel lavoro per tutte le donne; si rassicuravano invece gli avversari
politici che per la collaborazione della classe operaia alla ricostruzione del paese non
si sarebbe posto il prezzo dello sconvolgimento delle vecchie strutture ancora
funzionali allo sviluppo del capitalismo italiano. Molte ragioni spiegano la scelta
della sinistra di pagare tutti gli alti costi della politica di unità nazionale: non è
questa la sede per indagare su queste ragioni, né per esprimere giudizi; qui conta solo
rilevare che per le donne della resistenza, per tutte le donne, quella scelta
rappresentava un passo indietro: l’inizio di quello che è stato chiamato ‒ e non a torto
‒ il compromesso contro le donne
[28]
.
Su questo terreno è nato l’art. 37 della
costituzione; un terreno segnato dalla contraddizione fra la unanime
volontà¶{p. 116} di riforma, e la contrapposizione politica sui
contenuti delle riforme; dalle gravi incertezze presenti nello schieramento di sinistra
sul punto di equilibrio tra diritto al lavoro e ruolo domestico delle donne; dalla
persistenza, infine, di condizioni di inferiorità del lavoro femminile, non toccate
dalla iniziativa contrattuale del sindacato unitario.
Il dibattito che, in seno all’assemblea
costituente, accompagnò l’approvazione del testo predisposto dalla commissione di
coordinamento doveva registrare profonde difformità di giudizio su punti qualificanti
della norma, ma anche una finale ricomposizione sul ruolo da assegnare alle donne nel
nuovo ordinamento della repubblica. I diritti fondamentali delle donne furono sostenuti
dalle sinistre e da un settore della D.C. (in cui facevano spicco i «professorini»,
primo fra tutti Aldo Moro): si creò in tal modo una maggioranza qualificata, sufficiente
a sconfiggere le chiusure più conservatrici, presenti in larga misura nella D.C. e nello
schieramento monarchico e qualunquista, ed a far passare la linea cautamente
riformatrice su cui convergevano le sinistre e la parte più moderna della D.C.
Due punti furono oggetto di dibattito in
assemblea: la parità salariale e la funzione familiare
[29]
. Presentando una serie di emendamenti all’art. 33 del progetto, la
democristiana Maria Federici notava: «da qui a pochi anni dovremo perfino meravigliarci
di [...] aver dovuto sancire nella carta costituzionale che a lavoratori di sesso
diverso, ma che compiono lo stesso lavoro, spetta un’uguale retribuzione». Per allora
non c’era invece di che meravigliarsi: il consenso sulla parità salariale era così
lontano che l’on. Gabrieli propose di aggiungere, accanto alla «parità di lavoro», la
menzione espressa della «parità di rendimento», per favorire una migliore
interpretazione del pensiero dei costituenti
[30]
. L’emendamento venne ritirato dopo che la D.C. si fu pronunciata contro
l’inserzione nel testo della parità di rendimento; l’argomento decisivo in contrario
venne fornito da Taviani: «il nostro gruppo voterà contro per le ragioni dichiarate
dall’on. Cingolani e ammesse esplicitamente dal relatore della commissione: e cioè che
la ‘parità di rendimento’ si intende implicita nel concetto di ‘parità di lavoro’»
[31]
.¶{p. 117}
Sulla questione del rendimento avrò
modo di tornare più oltre (infra, cap. VI, par. 2); per ora è
sufficiente osservare che la dichiarazione di parte democristiana, e le esplicite
ammissioni della commissione, sminuivano il senso della sanzione costituzionale della
parità. Era impossibile non capire, infatti, che riferirsi al rendimento per le donne, e
solo per loro, voleva dire esprimere un giudizio aprioristico sul valore di regola
inferiore del lavoro femminile: chiedere la parità di rendimento, insomma, era come
sancire la legittimità delle disparità salariali dentro la norma che, per la prima
volta, doveva dare alle donne diritti pari a quelli dei lavoratori.
Definito con queste riserve il diritto di
eguaglianza, la discussione si spostò su quella parte della norma (l’attuale art. 37, 1
comma) che faceva salva la speciale protezione delle lavoratrici, in considerazione
della loro condizione di donne e di madri.
Intorno alla definizione della «funzione
familiare» della donna, si sviluppò in assemblea un acceso dibattito. Da sinistra si
chiedeva la modificazione della formula «essenziale funzione familiare» proposta dalla
commissione; si attribuiva infatti all’aggettivo «essenziale» un significato limitativo,
che avrebbe consacrato la tradizionale circoscrizione dell’attività femminile
nell’ambito della famiglia e, correlativamente, la visione del lavoro extra domestico
della donna quale attività residuale, a sostegno di una famiglia fondata sulla disparità
economica (e così, anche giuridica) dei coniugi
[32]
. Ma sulla richiesta di modificazione, già non troppo convinta, pesava
negativamente il consenso della sinistra circa il valore prioritario della famiglia, e
la volontà di far riconoscere, nella stessa norma che sanciva la parità di diritti per
le lavoratrici, la funzione sociale della maternità. Valga come esempio la dichiarazione
dell’on. Merlin: «noi sentiamo ‒ disse ‒ che la maternità [...] non è una condanna ma
una benedizione, e deve essere protetta dalle leggi dello stato»
[33]
. Non sfugge al lettore (e ancor più alla lettrice) di oggi quanto
dell’ideologia cattolica entrasse nell’uso del vocabolo «benedizione» a proposito della
maternità, spesso non desiderata e sempre causa, non secondaria, dell’allontanamento
delle¶{p. 118} donne dal lavoro.
Nel testo definitivo dell’art. 37 è rimasto
l’aggettivo «essenziale» a qualificare la funzione familiare della donna. Nella
costituzione, dunque, la formale sanzione della parità di diritti risulta attenuata
dalla considerazione della particolarità della condizione femminile. Il compromesso
raggiunto tra parità e particolarità non riuscì a sanare le divergenze esistenti,
all’interno dell’assemblea, in ordine alla concezione del rapporto lavoro-famiglia,
rivelando invece l’accettazione, da parte della sinistra, di una predefinizione delle
funzioni «naturali» della donna.
2. Parità giuridica e speciale tutela delle lavoratrici: le contraddizioni dell'art. 37.
«La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a
parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore»: con queste poche
parole, l’art. 37, 1° comma, afferma il diritto della lavoratrice alla parità normativa
e salariale
[34]
. Tuttavia, rispecchiando una preoccupazione condivisa, lo abbiamo appena
visto, da tutte le forze politiche presenti nella costituente, ma esprimendola in
termini congeniali al punto di vista dei conservatori, dei moderati, dei cattolici,
l’art. 37, 1° comma, aggiunge che le condizioni di lavoro devono consentire alla donna
di adempiere alla sua «essenziale funzione familiare», e devono assicurare alla madre e
al bambino una speciale, adeguata protezione.
Il precetto costituzionale è, dunque, diviso in
due parti: la prima sancisce la parità di trattamento delle lavoratrici; la seconda
sancisce invece la disparità di trattamento, ovvero il principio che la legislazione
ordinaria (ma anche i contratti collettivi e i singoli datori di lavoro) debbano
riservare alle donne trattamenti particolari che consentano loro di realizzare quelle
funzioni (familiare e materna) che il diritto al lavoro (art. 4 cost.) e alla parità nel
lavoro (artt. 3 e 37 cost.) non debbono turbare.
Complessivamente (e bene lo dimostrano le vicende
interpretative e applicative: infra, cap. VI), la norma
costitu
¶{p. 119}zionale risulta di difficile lettura, carica come è di
ambiguità volute: come ho detto più sopra, la formulazione dell’art. 37 è il risultato
del compromesso raggiunto, in seno alla costituente, fra due modi di intendere il ruolo
delle donne; quello cattolico e di destra ispirato, grosso modo, alla conservazione
della tradizionale vocazione ‒ ma meglio coazione ‒ domestica; quello di sinistra
ispirato, grosso modo, all’emancipazione delle donne. Anche se le sinistre, accettando
di definire «essenziale» la funzione familiare e materna, mostrarono, in
quell’occasione, di voler abbandonare i capisaldi della concezione emancipazionista
[35]
, senza offrire, in compenso, una riflessione nuova sulla famiglia e
sull’oppressione che alle donne deriva dai vincoli familiari.
Note
[18] Cfr. W. Tobagi, La fondazione della politica salariale della C.G.I.L.., in Annali della fondazione Feltrinelli. Problemi del movimento sindacale in Italia, 1943-73, Milano, 1976, p. 418. Il richiamo alla parità di lavoro e di rendimento doveva conservarsi, nella contrattazione collettiva, a lungo (fin oltre l’accordo sulla parità salariale); il consenso dei sindacati ad una classificazione del lavoro femminile, basata sul presupposto del minor rendimento qualitativo e quantitativo, doveva inoltre aprire le strada ad interpretazioni restrittive del principio di parità sancito dall’art. 37 cost.; infra, cap. IV, parr. 1, 2.
[19] All’incirca, la differenza era del 30% per la paga base, e del 13% per l’indennità di contingenza: cfr. Treni’anni di lotte, cit.
[20] Cit. da N. Spano e F. Camarlinghi, La questione femminile nella politica del P.C.I., Roma, 1972, p. 142.
[21] V. ad es. il patriarcale discorso rivolto da Parri alle donne riunite per il 1° congresso dell’U.D.I.: su cui v. anche le considerazioni di G. Ascoli, op. cit., p. 119.
[22] Credo vi fossero molte ragioni per questa scelta, per quanto restrittiva; piuttosto che stupirsi o scandalizzarsi (come mostra di fare B. M. Frabotta, Femminismo edotta di classe in Italia, in Dentro lo specchio, cit., pp. 218 seg.), mi pare opportuno riflettere e formulare giudizi non sommari.
[23] Intorno ai temi sottintesi da questa espressione, usata da M. Dalla Costa. Potere femminile e sovversione sociale, Padova-Venezia, 1972; a proposito del lavoro domestico, v. ora, per alcune interessanti considerazioni, A. Del Re, Struttura capitalistica del lavoro legato alla riproduzione, in L. Chistè, A. Del Re, E. Forti, Oltre il lavoro domestico. Il lavoro delle donne tra produzione e riproduzione, Milano, 1979, pp. 9 seg.
[24] P. Togliatti, Discorso alla 1a Conferenza femminile del P.C.I., cit., in P. Togliatti, L’emancipazione femminile, cit., p. 39.
[25] «Non vedo perché nel trattare e risolvere le questioni della donna, della famiglia, dell’infanzia e così via, nell’affrontare con spirito di solidarietà nazionale e sociale le nostre gravi difficoltà, non possa esservi una collaborazione proprio con le donne che hanno sentimenti religiosi. I sentimenti religiosi delle donne [...] possono essere di aiuto per comprendere meglio e meglio diffondere quello spirito di giustizia che le donne comuniste vogliono far trionfare nella vita politica del nostro paese»; P. Togliatti, L’emancipazione femminile, cit., p. 40
[26] Cit. da G. Ascoli, L’U.D.I. tra emancipazione e liberazione, cit., p. 118.
[27] Su cui v. l’ampia ricostruzione di A. Camparini, Questione femminile e terza internazionale, cit., pp. 125 seg.
[28] A. De Perini, Alcune ipotesi sul rapporto tra le donne e le organizzazioni storiche del movimento operaio, cit., p. 267
[29] V. il dibattito in assemblea riportato in Atti dell’assemblea costituente, seduta 10 maggio 1947, pp. 3813 seg.
[30] Sulla parità di rendimento si svilupperà un intenso dibattito fra i giuristi, di cui riferirò più oltre: infra, cap. IV, par. 2.
[31] Cfr. Atti, cit., p. 3819.
[32] V. specialmente l’intervento di Lina Merlin, in Atti, cit., p. 3816, ove è motivala la richiesta della sinistra di sopprimere l’aggettivo «essenziale», e la risposta di Aldo Moro (p. 3819): «voteremo contro la soppressione della parola ‘essenziale’. A noi sembra importante che nell’atto, nel quale si garantiscono alla donna idonee condizioni di lavoro, si ricordi la funzione familiare e materna che essa assolve, e che è ad essa connaturata».
[33] Questi ed altri stralci del dibattito all’assemblea costituente si possono leggere in M. Natoli, Dall’incapacità giuridica al nuovo diritto di famiglia, in La donna e il diritto, cit., p. 50; un resoconto anche in T. Treu, Lavoro femminile e uguaglianza, Bari, 1977, pp. 34 seg.
[34] La direttiva dell’art. 37 cost. (parità di trattamento) è ribadita, con formule meno ampie, nella convenzione n. 100 dell’O.I.L., ratificata dall’Italia con legge 22 maggio 1956, n. 741, e dell’art. 119 del trattato istitutivo della C.E.E. Sulla formula «parità di retribuzione per uno stesso lavoro» e sulle interpretazioni che ne hanno dato gli stati membri della comunità, v. I. Pisoni Cerlesi, La valutazione del lavoro femminile nei paesi del mercato comune europeo, in Società Umanitaria, La parità di retribuzione nel mercato comune europeo, Firenze, 1964, pp. 101 seg.: L. Levi Sandri, L’azione della comunità per l’applicazione dell’art. 119 del trattato di Roma, ivi, pp. 31 seg. La C.E.E. è tornata più di recente sulla questione: con la risoluzione del 30 dicembre 1961 è stata fornita una nuova interpretazione della norma, che ha chiarito come l’art. 119 abbia per destinatari gli stati membri (e non direttamente i privati), i quali debbono impegnarsi ad eliminare le discriminazioni salariali (ad es. negando l’estensione erga omnes ai contratti collettivi che contrastino col principio di parità). Con la direttiva del consiglio 75/117 del 10 febbraio 1975, la comunità si è impegnata a realizzare la parità di trattamento (non solo salariale) fra lavoratori e lavoratrici; sui contenuti della direttiva v. M. Eliantonio, La direttiva C.E.E. sulla parità di retribuzioni tra lavoratori di sesso maschile e femminile, in «Rivista giuridica del lavoro». Quaderno n. 1, luglio 1977, Questione femminile e legislazione sociale, pp. 70 seg. Sulla convenzione n. 100 dell’O.I.L. (che prevede il diritto della lavoratrice alla parità salariale per «lavoro di valore uguale»), v. U. Natoli, Sulla rilevanza della convenzione concernente l’uguaglianza di retribuzione tra la manodopera maschile e la manodopera femminile, in «Rivista giuridica del lavoro», 1957, I, pp. 177 seg.; A. Becca, Sulla rilevanza delle convenzioni internazionali del lavoro nell’ordinamento interno, in «Democrazia e diritto », 1961, pp. 161 seg.; G. Cottrau, La tutela della lavoratrice, Torino, 1971, pp. 131 seg. Nel 1958 (convenzione n. 111, ratificata con legge 6 febbraio 1963, n. 93) l’O.I.L. ha impegnato gli stati membri ad una politica nazionale volta ad eliminare ogni forma di discriminazione anche sessuale negli impieghi e nelle professioni. Per riferimenti v. C. Assunti, La disciplina del lavoro femminile, in «Rivista giuridica del lavoro», 1977, I, p. 24.
[35] Facente capo al pensiero di Marx e Engels, ripreso da Lenin nei discorsi e negli scritti fra il 1919 e il 1921 (Lenin, L’emancipazione della donna, a cura di E. Santarelli, Roma, 1971), e ancora rielaborato da Clara Zetkin, nei documenti della III internazionale: su cui v. A. Camparini, op. cit.