Dalla tutela alla parità
DOI: 10.1401/9788815374257/c3
Complessivamente (e bene lo dimostrano le vicende
interpretative e applicative: infra, cap. VI), la norma
costitu
¶{p. 119}zionale risulta di difficile lettura, carica come è di
ambiguità volute: come ho detto più sopra, la formulazione dell’art. 37 è il risultato
del compromesso raggiunto, in seno alla costituente, fra due modi di intendere il ruolo
delle donne; quello cattolico e di destra ispirato, grosso modo, alla conservazione
della tradizionale vocazione ‒ ma meglio coazione ‒ domestica; quello di sinistra
ispirato, grosso modo, all’emancipazione delle donne. Anche se le sinistre, accettando
di definire «essenziale» la funzione familiare e materna, mostrarono, in
quell’occasione, di voler abbandonare i capisaldi della concezione emancipazionista
[35]
, senza offrire, in compenso, una riflessione nuova sulla famiglia e
sull’oppressione che alle donne deriva dai vincoli familiari.
È bene chiarire subito che le ambiguità dell’art.
37 non nascono dalla coesistenza, all’interno della stessa norma, di due prescrizioni
diverse, quali la parità e la disparità di trattamento delle lavoratrici. In primo
luogo, infatti, non vi è contraddizione, neppure teorica, tra la parità di diritti e la
particolarità della tutela. Anche a voler ammettere ‒ ma non era questa l’intenzione dei
costituenti ‒ che la norma sul lavoro femminile dovesse rigidamente sancire il diritto
di eguaglianza, la parità di trattamento non potrebbe essere intesa tanto formalmente da
negare che, in presenza di specifiche condizioni che ostacolano le lavoratrici
nell’esercizio dei diritti eguali, specifiche garanzie (o protezioni) debbano
assisterle, per consentire loro di godere dei diritti di cui la costituzione le ha fatte
finalmente titolari. In secondo luogo, la prescrizione di condizioni di speciale tutela
delle lavoratrici in generale, e delle madri in particolare, non era solo per i
costituenti una necessità politica, ma anche una scelta opportuna di politica
legislativa. Una necessità, perché era impensabile che, in nome di una parità di fatto
inesistente, le donne ‒ ormai sicuramente emerse sulla scena politica e titolari del
diritto di voto ‒ fossero d’un sol colpo private delle protezioni accordate loro dalle
leggi fasciste. Ma la scelta di riservare alle lavoratrici trattamenti particolari aveva
un obbiettivo più ampio della mera conservazione delle leggi sul lavoro femminile già
vigenti: se è vero che i problemi bene o male affrontati in quelle leggi esistevano
ancora tutti, doveva¶{p. 120} essere affidato alla norma costituzionale
il compito di prescrivere ‒ al legislatore repubblicano, anzitutto ‒ di affrontare i
problemi delle lavoratrici e di risolverli nell’ottica nuova della pari dignità
riconosciuta al lavoro delle donne.
Non è dunque la volontà espressa di riservare
alle donne trattamenti insieme eguali e diseguali a rendere ambigua la complessa
formulazione dell’art. 37, 1° comma; peraltro, ove le previste eccezioni alla regola
della parità si fossero risolte nella solenne affermazione della specificità della
condizione femminile, l’art. 37 avrebbe solo esplicitato il proprio diretto collegamento
con l’art. 3, 2° comma, cost.: creando al legislatore ordinario l’obbligo di rimuovere
gli ostacoli alla piena eguaglianza; offrendo agli interpreti l’occasione per un
salutare confronto tra teorie dell’uguaglianza e della diversità delle donne. È invece
l’esplicitazione degli obbiettivi (essenziale funzione familiare e materna) in vista dei
quali la costituzione ha prescritto che le lavoratrici siano fatte oggetto di speciale
considerazione, ad aprire nella norma delle contraddizioni, sanabili solo a patto di
riletture e cancellazioni; ad aprire, con ciò, lo spazio a quelle interpretazioni
riduttive o vanificanti che, per molti anni, hanno fatto da copertura formale alla
sostanziale disapplicazione dell’art. 37.
Per capire in che cosa consistano le
contraddizioni, è sufficiente (ma solo ora gli interpreti se ne sono resi conto)
[36]
sottoporre a critica l’intero 1° comma dell’art. 37. Due sono le
interpretazioni possibili, ma nessuna delle due riesce a combinare in modo credibile ed
armonico le due parti del comma. Infatti, mentre l’interpretazione che tende a
valorizzare la funzione familiare della donna, perché essenziale, riduce il significato
della sanzione della parità nel lavoro, l’interpretazione che privilegia la parità
svaluta la prevista essenzialità della funzione familiare e materna delle donne. Basta
pensare che, ove l’art. 37 imponesse ai suoi destinatari di conciliare necessariamente
le condizioni di lavoro delle donne con le loro «essenziali» funzioni familiari, la
norma costituzionale avrebbe sancito l’esistenza per le donne, e solo per loro, di
«doveri» familiari da adempiere in via prioritaria; l’essenziale funzione familiare
sarebbe così ridotta alla¶{p. 121} disponibilità di una buona parte di
tempo (la maggiore) da dedicare alle cure domestiche. L’art. 37 disincentiverebbe,
allora, ogni emancipazione delle donne dalla condizione subalterna in cui le costringe
anche il lavoro extra domestico, quando è visto come complementare al lavoro domestico,
ovvero come necessità economica della famiglia, piuttosto che come momento (questo sì
essenziale) di realizzazione della personalità, che è anche indipendenza dalla
famiglia.
Per superare l’impasse
creata dalla valorizzazione dell’aggettivo «essenziale» che l’art. 37 riferisce alla
funzione familiare, non resta che sovraordinare ad ogni altra la prescrizione della
parità di trattamento. La sovraordinazione è necessaria se si pensa che, implicando la
parità di trattamento almeno il riconoscimento al lavoro femminile di una dignità pari a
quella del lavoro maschile, la norma costituzionale deve aver accordato, al di là delle
parole usate, peso determinante alla prescrizione del diritto di eguaglianza, anziché al
riconoscimento della diseguaglianza indotta dal ruolo domestico che, di fatto, le donne
svolgono. Ove si ritenga che l’art. 37 abbia prescritto il diritto delle donne
all’eguaglianza nel lavoro, ma non la funzione familiare e materna (come pure lascerebbe
intendere l’aggettivo «essenziale»), il significato complessivo della norma può essere
così ricostruito: affermare, oltre alla piena compatibilità tra situazione familiare e
lavoro extra domestico, l’impegno dello stato a rendere effettiva per le donne tale
compatibilità, ponendo in essere tutte le condizioni, giuridiche e materiali, necessarie
perché siano le donne, libere dai condizionamenti, a decidere se subordinare la propria
attività lavorativa agli impegni familiari, eventualmente rinunciando al lavoro in
favore della famiglia
[37]
.
Insomma, trascurandone l’equivoca formulazione,
l’art. 37 può essere interpretato nel senso che esso favorisce, attraverso il mutamento
delle condizioni di lavoro, l’inserimento e la permanenza delle donne nel lavoro; e,
così facendo, favorisce anche la trasformazione dell’assetto della famiglia e la
modificazione della posizione, in essa, della donna. In questa promozione di un lavoro
femminile non marginale e non complementare sta il disegno di emancipazione
delle¶{p. 122} donne, che può essere ricavato da un’interpretazione
della norma costituzionale capace di superare le pastoie della sua formulazione
compromissoria. Ma si tratta di un’interpretazione forse ottimistica e certo infedele
alla lettera dell’art. 37, di cui cancella quell’aggettivo «essenziale», che una parte
di rilievo dell’assemblea costituente aveva voluto fosse posto a qualificare la funzione
familiare e, con essa, l’eterno ruolo domestico delle donne. Tuttavia questa
interpretazione, che non risolve le contraddizioni dell’art. 37, perché le elimina, e
legge nella norma una ‒ male espressa ‒ volontà di promuovere l’emancipazione delle
donne, non fornisce una lettura arbitraria delle due prescrizioni (parità e disparità di
trattamento) che convivono nel 1° comma dell’art. 37. Suffraga tale lettura non solo il
non disconoscibile raccordo tra la parità di trattamento (art. 37) e il più generale
principio di uguaglianza (art. 3, 1° comma, cost.)
[38]
, ma il collegamento tra l’art. 37 e l’art. 3, 2° comma, cost., cui
sicuramente allude la necessità ‒ espressa dalla prima norma ‒ di riservare alle donne
speciali condizioni di lavoro e un’adeguata protezione. Quest’ultima previsione non può
essere infatti ragionevolmente intesa né come sanzione della diversità ‒ dal punto di
vista giuridico ‒ delle donne (ciò che contrasterebbe con l’art. 3, 1° comma, e con lo
stesso art. 37, 1° comma, cost.), né come prescrizione della preminenza, per le donne,
delle cure domestiche (famiglia e figli) rispetto al lavoro: ciò che, come si è detto,
svuoterebbe di significato la parità di trattamento sancita nell’art. 37. Alla base
della scelta del costituente di riservare alle lavoratrici trattamenti particolari non
può stare allora che: a) il riconoscimento della inferiorità
sociale delle donne, ovvero di una condizione femminile sostanzialmente diseguale;
b) l’affermazione (e questo sembra il significato meno
contestabile del riferimento alla funzione familiare) che l’eguaglianza è un diritto, la
tutela del quale non elimina, e anzi impone, il rispetto delle esigenze proprie delle
donne e la risposta positiva dello stato ai loro problemi e ai loro bisogni.
Ho detto, in apertura del discorso, che questa
interpretazione dell’art. 37 è una delle due possibili; eccepibile, certo, ma anche
dotata del pregio di sapere recuperare la volontà¶{p. 123} di
rinnovamento che tutte le forze politiche pretendevano di voler esprimere con la
formulazione di una norma costituzionale sul lavoro femminile.
Non mi interessa ‒ almeno in questo momento
[39]
‒ dire se l’interpretazione dell’art. 37 in chiave «emancipatoria» sia utile
o inutile, giusta o sbagliata. Mi interessa piuttosto prenderla come ipotesi di partenza
per una ricognizione, alla quale affidare il compito di dare risposta agli interrogativi
che l’interpretazione suddetta apre. Ora, dal significato che l’art. 37 cost. assume,
nel collegamento col 2° comma dell’art. 3 (e sempre che si ritengano di fatto esistenti,
meritevoli di tutela, ma non «essenziali» le funzioni familiare e materna della donna),
emergono i punti fondamentali del progetto di emancipazione che la costituzione avrebbe
fatto proprio. Tali punti si riassumono nelle seguenti proposizioni: le donne sono una
categoria sociale sottoprotetta; esistono ostacoli alla piena realizzazione
dell’eguaglianza nel lavoro e al pieno sviluppo della personalità professionale delle
donne; la repubblica deve rimuovere questi ostacoli. Dalle proposizioni nascono due
interrogativi: in che cosa consista la sottoprotezione delle donne; quali siano gli
ostacoli che impediscono alle donne di essere pienamente uguali nel lavoro.
Nei trent’anni che sono trascorsi dall’entrata in
vigore della costituzione, a questi interrogativi sono state fornite risposte di vario
genere e da varie parti. Mi occuperò essenzialmente di analizzare le risposte
progressivamente date, in questo periodo, dalla legislazione sul lavoro femminile. In
primo luogo per verificare se il parlamento italiano abbia fatto proprio quel progetto
di emancipazione delle donne che con qualche ottimismo, ma senza arbitrio, può essere
ricondotto alla volontà dei costituenti; poi, quali ostacoli all’emancipazione delle
donne il parlamento abbia individuato, quali rimosso, quali lasciato in piedi. Per
verificare, alla fine, se l’art. 37 cost. abbia trovato applicazione e, in caso
positivo, se l’interpretazione «emancipatoria» della norma costituzionale trovi qualche
riscontro nella storia recente della legislazione sul lavoro delle donne.
Note
[35] Facente capo al pensiero di Marx e Engels, ripreso da Lenin nei discorsi e negli scritti fra il 1919 e il 1921 (Lenin, L’emancipazione della donna, a cura di E. Santarelli, Roma, 1971), e ancora rielaborato da Clara Zetkin, nei documenti della III internazionale: su cui v. A. Camparini, op. cit.
[36] Tutta la dottrina che, di recente, è tornata ad occuparsi della disciplina giuridica del lavoro femminile premette ad ogni discorso ricostruttivo una lettura critica dell’art. 37 cost. Un panorama di opinioni in: La disciplina giuridica del lavoro femminile, Atti delle giornate di studio di Abano Terme, 16-17 aprile 1977, Milano, 1978.
[37] Questa è l’opinione di T. Treu, Lavoro femminile e uguaglianza, cit., p. 36. I problemi della compatibilità lavoro-famiglia hanno interessato tutta la dottrina che si è occupata del lavoro femminile; oggi nessuno, ovviamente, esclude tale compatibilità; ma sono in molti a pensare che il lavoro, per le donne, abbia valore secondario rispetto alle cure della famiglia e che alle esigenze della famiglia debba essere adeguato. Di qui il favore con cui è vista la soluzione del part-time (su cui v. le recenti riflessioni di L. Frey, in L. Frey, R. Livraghi, F. Olivares, Nuovi sviluppi delle ricerche sul lavoro femminile, Milano, 1978, pp. 49 seg.), che consentirebbe appunto alle donne di svolgere un lavoro, e di integrare il bilancio della famiglia, a disposizione della quale resterebbe ancora la maggior parte del tempo e delle energie delle donne (così ad es. M. Persiani, La disciplina del lavoro femminile, in «Giurisprudenza italiana», 1968, IV, c. 103). Le posizioni sul problema della compatibilità fra lavoro extra domestico e funzioni familiari della donna erano assai meno illuminate nel passato; basta pensare alla discussione di cui fu oggetto l’ipotesi che, per stipulare validamente un contratto di lavoro, la donna coniugata dovesse avere il consenso del marito. Per restituire il clima del dibattito si può ricordare che, a sostegno della tesi della piena compatibilità tra lavoro e doveri familiari, ad es., L. Riva Sanseverino, Casi «clinici» in materia di lavoro femminile, in «Rivista giuridica del lavoro», 1958, I, pp. 313 seg., citava la sentenza dell’App. Milano, 20 luglio 1954, in realtà assai ambigua. La corte milanese aveva infatti sostenuto che vi sono circostanze in cui la moglie può lavorare contro la volontà del marito: se, ad es., la retribuzione della moglie sia necessaria al mantenimento della famiglia, il divieto posto dal marito può essere causa di separazione (per colpa del marito). Risulta chiaro che, per i giudici di Milano, era il marito a decidere sul diritto al lavoro della moglie, e che la regola subiva un’eccezione solo quando superiori interessi (dei figli) imponessero, o rendessero opportuno, il lavoro fuori casa della moglie. La discussione sul consenso del marito non si è ancora spenta; sente la necessità di tornarci G. Ghezzi, Ordinamento della famiglia. impresa familiare e prestazione di lavoro, in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», 1976, pp. 1372-73.
[38] Il raccordo tra l’art. 37, 1° comma e l’art. 3, 1° comma, cost., è sottolinealo da molti autori; fra gli altri, v. G. Pasetti, Parità di trattamento e autonomia privata, Padova, 1970, pp. 183 seg.; D. Morgante, La parità di lavoro e gli strumenti attuativi della parità salariale, in «Rivista giuridica del lavoro», 1971,1, pp. 49 seg.; G. Cottrau, op. cit., pp. 37 seg., e ivi altri riferimenti bibliografici. Riferimenti bibliografici completi ed un’ampia rassegna della giurisprudenza nel vol. La tutela del lavoro delle donne e dei fanciulli, a cura di M. Maffei e A. Vessia, vol. 9° de Il diritto del lavoro nell’elaborazione giurisprudenziale, ricerca diretta da D. Napoletano, Novara, 1972, pp. 7 seg., 161, 347 seg.
[39] Tornerò sul problema quando esaminerò le nuove leggi sul lavoro femminile, e particolarmente la L. n. 903/1977, che al principio di parità contenuto nell’art. 37 cost. più direttamente si ispira