Dalla tutela alla parità
DOI: 10.1401/9788815374257/c5
Per quanto riguarda la legge n. 653 del 1934,
mentre in passato era stata talvolta denunciata l’inadeguatezza o insufficienza dei
limiti e dei divieti previsti (lavori nocivi, insalubri e pericolosi; lavoro notturno e
a turni)
[77]
, è relativamente nuova la lettura in chiave
discriminatoria (o di super-protezione) delle restrizioni che tale legge pone
all’utilizzazione del lavoro femminile
[78]
. Gli argomenti, che sostengono tale lettura, possono essere così riassunti:
a) i limiti e i divieti, di cui alla legge del 1934, sono
fondati sul consolidato pregiudizio della inferiorità delle donne;
b) le norme restrittive di
¶{p. 205}sincentivano
l’occupazione femminile, perché introducono un’eccessiva rigidità nell’utilizzazione del
lavoro, che è una concausa della flessione dei tassi di attività femminile: la rigidità
‒ si afferma ‒ viola, nei fatti, il diritto al lavoro delle donne, e le ostacola nel
raggiungimento della parità sostanziale
[79]
.
Sono argomenti suggestivi, ma non possono essere
accettati senza verifica. Per verificare, può essere utile richiamare qualche
osservazione sulle origini della legislazione di tutela. Vorrei ricordare che le prime
leggi sul lavoro delle donne furono emanate allo scopo (dichiarato) di riequilibrare il
rapporto tra occupazione femminile e maschile (quest’ultima più onerosa e quindi
svantaggiata dalla concorrenza). Protezione della maternità e divieto del lavoro
notturno per le lavoratrici vennero infatti introdotti quando, di fronte a una crisi
economica (di sovrapproduzione), i grossi industriali (specie tessili) intravidero nella
limitazione generalizzata dello sfruttamento della manodopera disponibile a costi più
bassi (le donne) un efficace strumento per stroncare la resistenza sul mercato dei
piccoli produttori. La protezione legale delle lavoratrici (cioè i maggiori oneri che
l’impiego di manodopera femminile imponeva agli imprenditori) doveva agevolare le prime
rilevanti espulsioni delle donne dalle fabbriche. La giustificazione «umanitaria» (delle
leggi, come delle espulsioni) era condivisa dai sindacati operai, convinti che la
mancanza di limiti allo sfruttamento (abominevole) delle donne (manodopera prevalente in
settori chiave dell’economia) indebolisse il potere contrattuale ‒ già scarso ‒ dei
lavoratori.
Solo con la legislazione fascista, dalla
primitiva giustificazione (limite allo sfruttamento per scoraggiare l’uso prevalente
della forza lavoro femminile) la tutela legale delle lavoratrici passò ad assumere la
(preminente) funzione di disincentivare l’occupazione delle donne nei settori centrali
della produzione, e di sviluppare il lavoro femminile precario e nero. Come ho cercato
di spiegare (retro, cap. II), le leggi del 1934 erano parte della
politica fascista di intervento statuale nell’economia. Il rafforzamento dei limiti e
dei divieti, sorretto dall’ideologia dell’inferiorità fisica e intellettuale
della¶{p. 206} donna, era funzionale all’obiettivo (politico) di
promuovere la fuoriuscita delle donne da) mercato ufficiale del lavoro e di incentivare
il decentramento della produzione industriale, allora motivato dalle preoccupazioni del
regime per le migrazioni interne e per la concentrazione del proletariato industriale
nei centri urbani.
I limiti e i divieti fissati nella legge del 1934
sul lavoro delle donne e dei fanciulli sono rimasti vigenti fino alla fine del 1977.
Dopo la liberazione è infatti mancato ‒ sostanzialmente
[80]
‒ l’intervento legislativo sui problemi dell’occupazione femminile. La
politica femminile della D.C. (agevolata anche dalle incertezze e difficoltà tra cui si
sono mossi i movimenti femminili e dai ritardi registrati nell’azione sindacale) è
consistita nel non attuare l’art. 37 cost.; mentre il regime fascista aveva usato la
legislazione sul lavoro come strumento della sua politica verso le donne, il regime
democristiano ha preferito lasciare che fosse l’andamento dello sviluppo capitalistico
stesso (anziché la legislazione) a perpetuare la condizione di inferiorità delle donne e
a generare spontaneamente un’ideologia di sostegno (quella del minor rendimento
[81]
). Ciò che è avvenuto è noto
[82]
, e mi limito a fornire solo qualche indicazione riassuntiva per ragioni di
chiarezza.
Fino al 1962, l’occupazione femminile è cresciuta
in tutti i settori con lo stesso ritmo. L’aumento in agricoltura è spiegato in genere
come sostituzione delle donne ai maschi (sovrappopolazione latente), i quali, grazie
all’espansione industriale europea, hanno abbandonato l’agricoltura per trasformarsi in
proletariato urbano. Accanto alla «femminizzazione dell’agricoltura», l’espansione nei
posti di lavoro, registratasi nell’industria e nel terziario, ha offerto occasioni di
lavoro anche alle donne.
Il «miracolo economico» è stato caratterizzato
dal progressivo attuarsi dell’equilibrio fra domanda e offerta di lavoro (per la parte
crescente di sovrappopolazione latente che si presenta sul mercato del lavoro
extra-agricolo) e dallo stabilizzarsi di livelli più alti di combattività operaia. Nelle
vicende del miracolo economico si sono prodotte le scelte, che hanno determinato la
condizione di «debolezza» della forza¶{p. 207} lavoro femminile. A
partire dagli anni ‘60 si assiste ad un processo di «mascolinizzazione» dell’agricoltura
(di cui sono responsabili la crisi dell’azienda coltivatrice diretta e la trasformazione
dei coltivatori e coadiuvanti in salariati agricoli
[83]
). La flessione dell’occupazione femminile agricola (almeno dell’occupazione
palese) non è compensata dall’assorbimento in altri settori di attività; il modesto
aumento del numero delle occupate nel terziario copre la persistenza del lavoro
indipendente e coadiuvante, e conferma la debolezza dell’occupazione femminile, che cela
ampi margini di sotto-occupazione
[84]
. Dal 1963 si registra la messa in moto di un processo di costante riduzione
dell’occupazione, il cui risultato è la ricostruzione in forme nuove della quota di
sovrappopolazione relativa. La caduta di occupazione diviene caduta del saggio di
attività, ma le conseguenze sono molto più pesanti per la forza lavoro femminile che per
quella maschile. Secondo l’interpretazione di Mottura e Pugliese
[85]
, il disegno che sta all’origine della divaricazione fra occupazione
femminile e maschile è il tentativo del capitale di manovrare la crisi (cioè di
recuperare l’uso flessibile della forza lavoro), elevando la produttività e minimizzando
i rischi sindacali e i livelli di assenteismo. I procedimenti usati sono le
modificazioni tecnologiche all’interno delle imprese e il decentramento di interi
settori della produzione.
La tendenza a non assorbire in fabbrica forza
lavoro femminile si spiega entro questo disegno, poiché è motivata dalla considerazione
che le donne, sottoposte a maggiori carichi di lavoro, hanno in genere maggiori
probabilità di assenze e minore disponibilità di energie; sono immediatamente sensibili
alle contraddizioni tra livelli retributivi e costo della vita; la loro espulsione ha
risonanza politica e sindacale minore; l’impiego di donne comporta per il datore di
lavoro maggiori oneri sociali. Nasce e viene enfatizzato nel periodo l’argomento della
minore produttività della forza lavoro femminile
[86]
. Esso sostituisce la vecchia ideologia della inferiorità naturale della
donna e della sua subordinazione nella famiglia, il cui ruolo e la cui unità sono messi
in crisi dallo sviluppo capitalistico del dopoguerra. Ma la pretesa minore produttività
è solo la giustificazione ideologica della massic¶{p. 208}cia
fuoriuscita delle donne dal mercato ufficiale del lavoro e del loro confinamento in
un’area di attività precarie di vario tipo. E infatti la poco produttiva forza lavoro
femminile rientra negli anni successivi come protagonista della ristrutturazione di
interi settori, «pur mantenendo [...] nelle statistiche ufficiali [...] la
classificazione come non forza lavoro. Nella sua condizione si realizza e si completa
così la saldatura esplicita tra le esigenze di flessibilità (cioè della possibilità di
espandere e contrarre agevolmente l’occupazione) e di riduzione dei costi di produzione,
che negli anni precedenti avevano determinato la sua espulsione e il passaggio a una
fase di più intenso sfruttamento della forza lavoro rimasta in fabbrica»
[87]
.
Dalla descrizione del fenomeno di espulsione
delle donne dal mercato ufficiale del lavoro, e dalla spiegazione delle cause del
fenomeno, emerge con chiarezza che la conservazione della legge del 1934 non ha avuto
un’incidenza di rilievo sugli andamenti dell’occupazione femminile. Anche la
considerazione dei maggiori oneri sociali (prevalentemente derivati, però, dalla riforma
della legge sulle lavoratrici madri) ha svolto un ruolo secondario nella scelta delle
donne quali protagoniste della caduta del tasso di attività. A mio avviso, le donne sono
state espulse dal mercato del lavoro non già a causa della maggiore rigidità determinata
dalla sopravvivenza dei limiti e divieti di utilizzazione fissati dalla legge fascista;
sono state espulse, perché il perdurare delle cause economiche sociali e culturali di
inferiorità del lavoro femminile ha reso possibile usare l’espulsione delle donne come
strumento di recupero dell’uso flessibile della forza lavoro. Del resto, come ha scritto
Renata Livraghi
[88]
, il lavoro femminile è più rigido di quello maschile per
esigenze connesse alla maternità, alla cura dei figli e degli anziani; ma sono i
problemi legati all’assenteismo e al ricambio della forza lavoro femminile (ovvero la
rigidità dell’offerta di lavoro femminile, accentuata dalla mancanza dei servizi sociali
e della divisione dei compiti all’interno della famiglia), piuttosto che i problemi
connessi al costo del lavoro, a collocare in posizione secondaria, e quindi
discriminata, la forza lavoro femminile nella struttura della domanda di lavoro. La
rigi¶{p. 209}dità dell’offerta di lavoro femminile orienta sempre meno
le imprese all’impiego del lavoro femminile in fabbrica: almeno dove sia possibile, con
il decentramento dell’attività produttiva, «superare in parte notevole le cause di
rigidità, scaricandone l’onere su altri»
[89]
.
La riduzione dell’occupazione femminile
(esplicita), mai recuperata, si è attuata dunque per ragioni indipendenti dalla supposta
discriminazione introdotta dalla legge del 1934, ma è stata favorita dal mancato
intervento riformatore sulle strutture sociali. Se questo è vero, l’abrogazione della
legge di tutela delle lavoratrici, perché, considerandole inferiori, inibisce loro lo
svolgimento di alcune attività (dai lavori pesanti al lavoro notturno) e le discrimina
perciò nell’occupazione è una misura politicamente equivoca. Anzitutto per la ragione
che le ristrutturazioni e le riconversioni in atto non fanno intravedere possibilità di
una rilevante espansione dell’occupazione femminile
[90]
, e costringono invece alla difesa dei livelli attuali: in questa situazione
la cancellazione per legge dell’inferiorità delle lavoratrici non serve a cancellare la
debolezza (sul mercato) della forza lavoro femminile, la cui disoccupazione o
inoccupazione non è né il prodotto di una legislazione «discriminatoria», né il
risultato di scelte economiche «discriminatorie». Ma soprattutto perché eliminare la
legge di tutela non significa intervenire in difesa e a sostegno dell’occupazione delle
donne. Infatti, senza che siano stati risolti i problemi di fondo dell’occupazione
femminile (che risiedono nelle strutture economiche e sociali del paese), l’abolizione
dei limiti e dei divieti esistenti può aumentare la flessibilità dell’uso della forza
lavoro femminile occupata, ma non favorisce l’occupazione delle disoccupate e
inoccupate, perché non elimina i fattori di rigidità dell’offerta di lavoro delle
donne.
Neppure dal punto di vista strettamente giuridico
convince la tesi della necessità di abrogare la legge di tutela per realizzare la parità
(o non-discriminazione) delle donne nel lavoro. Come ho già avuto occasione di dire,
l’eguaglianza e la parità di trattamento, cui le donne hanno diritto secondo la
costituzione, impone, per essere realizzata, che sia ancora riservalo alle lavoratrici
qualche specifico trattamento di fa
¶{p. 210}vore; non per diversità
della «categoria donne», ma per le condizioni storiche di inferiorità (anche fisica) cui
le donne sono costrette dal doppio ruolo che normalmente svolgono, dal peso dei carichi
familiari che gravano quasi esclusivamente sulle loro spalle. Che la vecchia legge di
tutela dovesse essere profondamente riformata era cosa ovvia ancor prima che si
accendesse il dibattito sulla parità
[91]
; ma dalla riforma della legge esistente all’abrogazione di ogni trattamento
diseguale in nome della parità ce ne corre. E il richiamo al principio di parità non
fuga il sospetto che, alla fine, si voglia far passare dallo smantellamento delle
vecchie tutele, che circondavano il lavoro femminile, un ulteriore recupero dell’uso
flessibile della forza lavoro.
Note
[77] C. Assanti, I principi costituzionali per la tutela del lavoro femminile e minorile, cit., pp. 365 seg.; l’a. critica la tendenza della legislazione a considerare unitariamente il lavoro femminile e quello minorile, e ad imporre limitazioni di attività alle donne.
[78] G. Pera, op. ult. cit., aveva sostenuto cose analoghe a quelle dette più recentemente da T. Treu, Lavoro femminile e uguaglianza, cit., pp. 91 seg. Qualche accenno anche in G. Cottrau, op. cit., p. 124, che esclude il carattere discriminatorio delle norme limitative del lavoro femminile solo quando rispondano ad esigenze di carattere fisiologico della donna.
[79] T. Treu, loc. ult. cit. La tesi è condivisa da F. Padoa Schioppa, La forza lavoro femminile, cit.; la dimostrazione fornita da questa a. mi pare eccepibile almeno sotto il profilo dell’ipervalutazione della tutela legislativa del lavoro femminile.
[80] A mio avviso, l’intervento di maggior rilievo fino al 1971 è la legge del 1963 sui licenziamenti per causa di matrimonio. Si tratta di un provvedimento diretto a reprimere abusi che i mutamenti intervenuti nel quadro politico e nell’organizzazione sociale dei primi anni sessanta avevano reso intollerabili. Tuttavia la legge è stata emanata quando i problemi dell’occupazione femminile erano divenuti piuttosto che problemi di selezione, problemi di espulsione.
[81] Retro, IV, par. 2; v. anche F. Padoa Schioppa, La forza lavoro femminile, cit., pp. 27 seg. a proposito della tesi di M. De Cecco.
[82] Sono infatti noti gli studi sull’andamento dell’occupazione femminile e, in particolare, sull’emarginazione che ha colpito le donne a partire dal 1963. Oltre ai già cit. lavori di M. Paci, G. Mottura, E. Pugliese, L. Frey, v. C. D’Apice, Mercato del lavoro e occupazione fra congiuntura e crisi. La flessione dei tassi di attività, cit., pp. 55 seg. V. anche in «Inchiesta», i nn. 25 del 1977, e 32, 34 del 1978: ivi interessanti ricerche sul mercato del lavoro e sul doppio lavoro (o doppia presenza) femminili.
[83] G. Mottura e E. Pugliese, Agricoltura, mezzogiorno e mercato del lavoro, cit., pp. 256 seg.
[84] G. Mottura e E. Pugliese, loc. ult. cit. Gli aa. sottolineano come il lavoro a domicilio e il lavoro nero costituiscano uno dei modi in cui viene recuperata e reinserita nell’esercito operaio attivo parte della forza lavoro messa in soprannumero; un modo vantaggioso per i capitalisti, perché consente l’utilizzazione flessibile della forza lavoro (con conseguente basso costo). Secondo le stime di L. Frey, Analisi economica della sottoccupazione femminile in Italia, cit., pp. 12 seg., alla caduta ufficiale del saggio di attività femminile avrebbe corrisposto, nella realtà dei diversi settori, un costante aumento dell’offerta (cioè del saggio di attività), che si è però in larghissima misura tradotto in una crescita costante della sottoccupazione.
[85] Op. cit., pp. 256 seg.
[86] Mettono particolarmente in evidenza questo aspetto ideologico nell’espulsione della manodopera femminile G. Mottura e E. Pugliese, loc. ult. cit. Per il dibattito fra i giuristi, retro, IV, par. 2.
[87] G. Mottura e E. Pugliese, op. cit., p. 318.
[88] Differenziali salariali, flessibilità del lavoro e occupazione femminile, in AA. VV., Occupazione e sottoccupazione femminile in Italia, cit., pp. 129 seg.
[89] R. Livraghi, op. cit., p. 145.
[90] Come già risultava dall’analisi di G. Ricoveri, Mercato del lavoro e occupazione tra congiuntura e crisi. Le conseguenze della ristrutturazione, in «Quaderni di rassegna sindacale», 1975, n. 54/55, Donna, società, sindacato, pp. 62 seg.
[91] Obbiezioni, senz’altro giuste, si muovevano alla legge del 1934, giudicata inidonea a tutelare la salute delle lavoratrici. È tuttavia necessario ricordare che le inchieste svolte, anche recentemente, sulle condizioni di lavoro delle donne, hanno messo in rilievo resistenza di aspetti particolari della patologia professionale che riguardano specificamente le lavoratrici, e che sono legati all’ambiente di lavoro nel suo complesso, ma anche a singoli fattori nocivi e, in generale, alla condizione di lavoro delle donne, «fatta di miseria, di sfruttamento, di abbrutimento, di relegazione di fatto a un ruolo subalterno e condizionato»: F. D’Ambrosio e M. A. Buscaglia, Ambiente di lavoro e condizione femminile, in «Quaderni di rassegna sindacale», 1975, n. 54/55, Donna, società, sindacato, pp. 94 seg.; v. anche C.G.I.L.-C.I.S.L.-U.I.L., federazione provinciale di Milano, Per la salute delle lavoratrici, Milano, 1975.