L'educazione socio-emotiva
DOI: 10.1401/9788815370327/c8
Le aule della Dad sono molto
speciali nel caso dei bambini delle primarie, non solo per la loro giovane età e per
le difficoltà a interagire tra loro e con le insegnanti a distanza, senza quel
contatto fisico che le insegnanti definiscono come parte integrante e insostituibile
della relazione educativa, ma anche per il fatto che la classe è composta da
insegnante, bambini e altri adulti (i genitori). Il paradosso della Dad è che la
distanza in realtà è ambivalente: da una parte amplifica la lontananza (la scuola si
fa lontano da scuola) ma dall’altra riduce la distanza e favorisce l’inserimento
nella
¶{p. 273}relazione didattica ed educativa di altri soggetti.
Questo aspetto è ovviamente amplificato dall’età degli alunni che non consente loro
l’utilizzo in completa autonomia, dal collegamento allo svolgimento della
lezione/interazione è sempre presente un adulto della famiglia a supporto, il che
trasforma completamente la relazione educativa e il contesto di apprendimento,
nonché spesso la qualità e veridicità della valutazione. La presenza dei genitori
(nello scenario più favorevole), o la loro intromissione (con interventi e
commenti), quando non addirittura la completa sostituzione ai bambini
nell’interazione della classe e con l’insegnante, condiziona anche la stessa
attività delle insegnanti che sono poste sotto osservazione (e spesso anche
valutazione, di efficacia e di efficienza) dalle famiglie. Questo accade in modo
particolare con le scuole di utenza borghese, nelle quali la relazione
scuola-famiglia presentava già elementi di complessità, proprio a causa
dell’ingerenza continua dei genitori in questioni di competenza delle insegnanti.
Anche il tema della durata e
frequenza delle lezioni è divenuta nella Dad elemento di criticità e scontro con
alcune famiglie. La didattica tradizionale in aula prevede un calendario serrato di
materie che si succedono nella giornata e nei giorni della settimana, pur nella
varietà delle classi organizzate a modulo o a tempo pieno. La soglia di attenzione
media dei bambini è, in presenza, tra una e due ore continuative con una migliore
prestazione nelle prime ore della giornata. Nel caso della didattica a distanza,
oltre a prevedere modalità differenti per veicolare i contenuti disciplinari, il
tempo medio di collegamento è pari a un’ora per circa 3-5 volte a settimana. Sono
segnalati dalle insegnanti anche alcuni sporadici casi di una frequenza maggiore, ma
essi costituiscono un’eccezione. Ciò significa che i contenuti didattici veicolati
sono molto inferiori come quantità, ma anche spesso difficoltosi rispetto alla
qualità, in quanto l’esperienza di didattica blended nella
scuola tradizionale è molto limitata, quando non del tutto assente; il modello
prevalente adottato dalle scuole consiste nella trasposizione della didattica
frontale in aula, in didattica frontale a pc. In questo caso la creatività delle
insegnanti stenta a prendere ¶{p. 274}forma perché troppo
condizionata da vincoli di natura tecnica e inesperienza rispetto a questa modalità
di insegnamento/apprendimento. Il tempo ridotto per la didattica produce reazioni
diverse da parte delle famiglie. Per alcune è motivo di critica alle insegnanti e al
sistema scuola nel suo complesso, ma per ragioni diverse in base alle classi
sociali: per le classi borghesi è l’ossessione performativa che induce alla critica,
per altre famiglie di ceto medio soprattutto è la mancanza di un impegno prolungato
che liberi dal ruolo di caregiver mentre si è in
smart working. Le famiglie maggiormente in sintonia con le
insegnanti sono quelle di estrazione operaia e straniere; anche in questo caso però
le motivazioni non sono tutte uguali. Accanto a famiglie che apprezzano l’impegno
delle insegnanti e l’attivazione delle scuole (per quelle site nei quartieri più
poveri le scuole hanno provveduto alla distribuzione di tablet o al loro acquisto
per mettere i bambini privi di dispositivi in condizione di seguire le lezioni), ve
ne sono altre che continuano con la modalità del disinteresse verso la scuola, come
accadeva in presenza.
L’elemento che le insegnanti
sottolineano con forza e che costituisce il principale motivo di frustrazione nello
svolgimento dell’attività professionale a distanza è il mancato riconoscimento
dell’amplificazione dei tempi di lavoro (nella parte off-line) e della
complessificazione dell’attività di preparazione di materiali e lezioni. L’utilizzo
delle tecnologie ha richiesto loro una rimodulazione totale dei programmi, una
creatività nella trasmissione degli insegnamenti, e non da ultimo una competenza
digitale che era stata fino a quel momento solo parzialmente utilizzata. Quindi per
le insegnanti, o per la maggior parte di esse, il tempo scuola è rimasto
sostanzialmente invariato. Per i bambini il tempo scuola si è ridotto dell’80%, il
che sta richiedendo loro una capacità individuale di organizzazione, un’autonomia
nella gestione dei compiti e dello studio che fino a questo momento non era mai
stata richiesta loro.
È in corso, secondo le
insegnanti, una transizione educativa e sociale cruciale: i modi della didattica a
distanza costituiscono al contempo un’occasione di crescita e responsabilizzazione
dei bambini (variamente assistiti dalle famiglie, ¶{p. 275}come si
dirà nei paragrafi successivi) ma al contempo un rischio di smarrimento senza i
punti di riferimento dati dalle routine scolastiche e le regole stringenti che la
vita a scuola richiede.
Questa fase è rappresentata
anche dalle insegnanti come un «presente assoluto», ossia sta venendo meno ogni
capacità progettuale e previsionale di rientro nella normalità scolastica:
contribuiscono a ciò le informazioni, confuse e non rassicuranti, dei mezzi di
comunicazione di massa, ma anche la mancanza di regia da parte delle istituzioni
centrali e regionali (dal MIUR agli USR agli USP) fino alla debolezza della capacità
di indirizzo, progettazione e riorganizzazione da parte delle singole scuole e
istituti comprensivi. Da una parte è certamente responsabile di ciò il ritualismo
burocratico che affligge gran parte della scuola italiana e dei suoi dirigenti,
attenti esecutori di indicazioni sovraordinate, anche per concreti timori di
conseguenze ed effetti derivanti dall’inadempienza formale o dal non adeguato
accento sull’ottemperanza ad alcune disposizioni. Tale componente esercita un
effetto paralizzante soprattutto sul versante organizzativo che più che mai ora
avrebbe bisogno di linfa e nuove idee. La paralisi burocratica genera anche inerzie
motivazionali nei singoli docenti, condannando quindi la scuola a un’esecutività
puramente tecnica.
D’altra parte è anche
importante sottolineare come questo «presente assoluto» debba comunque in qualche
modo essere gestito dal punto di vista organizzativo e riorganizzativo: c’è ormai
una stabilizzazione rispetto alla routine scolastica della scuola lontano e fuori
dalla scuola; c’è anche una crescente consapevolezza da parte delle famiglie dei
nuovi ruoli e responsabilità condivise in ambito educativo; manca invece la
prospettiva, non tanto relativamente al «quando» si tornerà a scuola dentro la
scuola, ma rispetto al «come»: la politica dei singoli istituti è al momento rivolta
alla conclusione dell’anno scolastico in corso, le prospettive sono opache, il grado
di incertezza sull’evoluzione della pandemia e sulle misure che connoteranno la
cosiddetta Fase 2 è ancora troppo elevato perché le scuole riescano a ridefinire il
proprio ruolo. È in atto al momento un’operazione di
¶{p. 276}«riduzione della complessità»: molte sarebbero le variabili
da porre sotto osservazione, innumerevoli gli elementi di allerta, i fattori di
disuguaglianza, le iniquità. Per questo si opta per un modello di sopravvivenza,
consapevoli anche del forte carico di stress emotivo che renderebbe ulteriormente
gravosa una programmazione ex novo.
5.3. La destrutturazione delle relazioni
La quotidianità scolastica
per i bambini è un fattore altamente strutturante il loro tempo. Ma dentro questo
tempo non ricade soltanto l’attività di apprendimento, bensì una parte rilevante è
riservata alla socialità e alle relazioni, sia con le insegnanti, sia con i pari. La
scuola primaria è il luogo per eccellenza e in cui si avvia la socializzazione
secondaria e la socializzazione normativa. I bambini a scuola cessano di essere
figli per diventare alunni, quindi acquisiscono il loro primo ruolo pubblico,
ottengono un riconoscimento sociale. Inoltre sviluppano un’identità che è correlata
alla scuola che frequentano, alla classe di cui fanno parte. I bambini si
riconoscono e si definiscono come componenti di un gruppo che è la propria classe.
Il venir meno della «coabitazione» dentro la scuola per cinque giorni a settimana a
tempo pieno significa per molti bambini la perdita pressoché totale di ogni
relazione con i pari.
La condizione di isolamento
fisico porta con sé implicazioni importanti sul piano relazionale e affettivo. Le
insegnanti delle scuole riferiscono di un diffuso senso di disorientamento dei
bambini: a un iniziale momento di euforia legata alla «vacanza» protratta dalla
scuola è subentrata una condizione di profondo abbattimento e nostalgia. Il distacco
dalla scuola e dalla classe come luogo fisico porta con sé anche significati
simbolici: perdita di una parte della propria identità, perdita delle relazioni
quotidiane con compagni e amici, distacco emotivo dalle insegnanti come adulti di
riferimento. Si potrebbe dire che è in corso una fase di social
rebonding che avviene per il tramite della costruzione di nuove
comunità transitorie, ma a differenza di quanto ¶{p. 277}afferma
Gordon secondo cui esse sarebbero caratterizzate da legami molto forti, anche di
fusione, la loro caratteristica in questo contesto è invece riconducibile al fatto
che si tratta di comunità a distanza e costruite più sulla base del criterio
dell’opportunità che non della scelta. Se in condizioni ordinarie i bambini si
sceglievano e costruivano legami speciali di amicizia e affetto con alcuni tra i
compagni di classe, ora le comunità transitorie si costituiscono in base al fatto di
poter avere una connessione, di avere una playstation con cui giocare e luoghi
virtuali in cui trovarsi. Sono quindi comunità in cui i legami possono essere meno
forti, più legati a una circostanza che non a una affinità. Manca inoltre del tutto
la condivisione di esperienze, ludiche e scolastiche, mentre l’unica esperienza
condivisa è quella della pandemia. Ma non soltanto vengono diminuite come quantità
le relazioni con altri al di fuori della famiglia; anche la qualità di tali
relazioni è mediocre, sia per quanto si precisava prima a proposito della
costituzione di gruppi tra pari, sia nella gestione delle interazioni a distanza per
i bambini con gli adulti («i bambini si vergognano, li vediamo diversi quando ci
parliamo a distanza, non sono abituati assolutamente a interagire con noi in questo
modo; e ancora peggio tra di loro», da focus con insegnanti
della scuola Ortensia).
La situazione emergenziale
dunque deprime le capacità di agency dei bambini, che hanno
poche capacità di vedere ascoltata la propria voce, che perdono la possibilità di
confronto e costruzione della propria realtà insieme ai pari e che hanno un limitato
accesso alle informazioni, se non in via mediata dagli adulti.
5.4. Oltre i programmi: ciò che si impara a scuola oltre la scuola
Ben prima dell’emergenza le
finalità della scuola erano state più e più volte ribadite: trasmissione di saperi
curricolari, educazione, relazione. La parte strettamente didattica della scuola
occupa una porzione del tempo pieno. Sia nella veicolazione dei contenuti didattici
(sempre meno trasmissiva
¶{p. 278}e sempre più interattiva) sia
nella vita di classe, i bambini apprendono competenze e regole, imparano a stare
insieme e a gestire le loro differenze, sperimentano esperienze.
Note