Luigi Mengoni
Diritto e valori
DOI: 10.1401/9788815413499/c10

X Legge e autonomia collettiva
Da «Massimario di Giurisprudenza del Lavoro», 1980, pp. 692-698

1. Premessa.

Il rapporto tra legge e autonomia collettiva è un tema classico del diritto del lavoro, e tuttavia non ancora esaurientemente esplorato. Nella nostra dottrina, nella quale mancano contributi approfonditi sul tipo di quello offerto nella dottrina germanica dal libro, pur discutibile, di Biedenkopf, l’interesse per il tema, sotto il profilo della ripartizione delle competenze, è stato ravvivato nell’ultimo periodo in due occasioni: una prima volta in relazione alla legge 14 luglio 1959, n. 741, che ha promosso l’introduzione, mediante decreti legislativi, di minimi legali di trattamento economico e normativo per tutti i lavoratori appartenenti a una medesima categoria professionale; una seconda volta, più recentemente, in relazione al d.l. 1° febbraio 1977, n. 12, convertito nella legge 31 marzo 1977, n. 91, che in materia di indennità di contingenza ha fissato limiti massimi alla contrattazione collettiva.
Sotto il profilo del principio gerarchico il tema è alimentato ancora dalla legge n. 741 del 1959 in ordine alla questione della possibilità di deroghe alle norme contenute nelle leggi delegate da parte dei contratti collettivi stipulati successivamente; poi dalla giurisprudenza con le sue frequenti incursioni nella sfera dell’autonomia collettiva sotto forma di dichiarazioni di nullità di clausole di contratti collettivi per contrarietà a norme imperative di legge; infine dai processi di «delegificazione» avviati da alcuni recenti interventi legislativi.
Ma il tema presenta un terzo profilo, che nell’ordine logico della trattazione viene per primo, costituito dal problema dell’inserzione del contratto collettivo nell’ordi{p. 288}namento giuridico dello Stato, e quindi del suo modo di operare, confrontato con quello della legge, sulla disciplina delle relazioni individuali di lavoro.

2. La funzione normativa del contratto collettivo.

Valutata sul piano della teoria generale delle fonti, la posizione della dottrina comune in merito a questo problema mostra una incoerenza di fondo. Pur essendo il contratto collettivo una fonte di disciplina dei rapporti di lavoro, la sua efficacia non è teorizzata in termini corrispondenti al concetto di atto normativo. Esso viene ricondotto alla categoria, di segno affatto diverso, del «contratto normativo», il quale non è una specie del genere «atto normativo», caratterizzato dalla struttura logica della norma giuridica e quindi dall’attitudine a incidere direttamente nei processi di qualificazione giuridica, bensì è una specie del genere «contratto obbligatorio», caratterizzata dalla destinazione dell’obbligazione costituita dal contratto a predeterminare il contenuto di futuri contratti di un certo tipo. Nell’ambito di questa ricostruzione diventa ardua la fondazione dogmatica della cosiddetta efficacia automatica. Da un lato, il concetto di obbligazione non si adatta a un vincolo dal quale le parti, cioè i singoli datori e prestatori di lavoro, non possono sciogliersi per mutuo consenso nel momento della formazione dei contratti individuali di lavoro; dall’altro, si è costretti a configurare la detta efficacia come un modo di esecuzione specifica ope legis dell’obbligazione di conformazione del contratto individuale alle clausole del regolamento collettivo, in contrasto col rilievo elementare che la legge non può modificare ciò che le parti hanno voluto, cioè appunto il contenuto del contratto, bensì può negare al contratto effetti giuridici conformi al voluto sostituendoli con effetti diversi determinati da una fonte di regolamento del rapporto non derogabile dall’accordo dei contraenti.
Le difficoltà della dottrina comune derivano dal pregiudizio positivistico che identifica il concetto logico-teoretico di atto normativo con la categoria degli atti formalmente assunti come proprie fonti dall’ordinamento {p. 289}giuridico dello Stato. Se si abbandona questa concezione, la definizione del contratto collettivo come atto a struttura normativa, immediatamente operante sugli effetti del contratto individuale di lavoro ad una stregua analoga a quella della legge, non appare più incompatibile col dato positivo che esclude la qualificazione del contratto collettivo come fatto idoneo a porre norme costitutive del diritto oggettivo in senso stretto (nel senso dell’art. 1 delle disposizioni preliminari del codice civile).
L’esclusione del contratto collettivo dal sistema delle fonti del diritto oggettivo implica la mancanza di certe conseguenze che soltanto alle norme prodotte dalle fonti legali sono ricollegate, quali l’ammissibilità del ricorso per cassazione sotto il profilo della «violazione o falsa applicazione di norme di diritto», la regola «iura novit curia», l’interpretazione secondo i canoni dell’art. 12 disp. prel., e significa – positivamente – che esso conserva la natura di atto di autonomia privata. Ma la natura negoziale non è un argomento sufficiente per negare la possibilità di teorizzare il contratto collettivo nei termini del concetto di atto normativo. In un errore logico inverso cade la dottrina dominante in Germania, la quale dalla premessa dell’efficacia normativa riconosciuta dalla legge al contratto collettivo argomenta senz’altro che esso è stato assunto nel sistema delle fonti dell’ordinamento positivo, e che pertanto, essendo l’atto di esercizio di un potere di legislazione materiale delegato dallo Stato ai sindacati, del contratto ha conservato solo la forma, ma non la sostanza: conclusione che stravolge la portata storico-politica del riconoscimento del contratto collettivo, il quale è stato «strappato» allo Stato dal movimento sindacale, e quindi non segna l’integrazione del contratto collettivo nelle fonti dell’ordinamento dello Stato, ma tutt’al contrario segna la vittoria della tendenza opposta all’accentramento della competenza a regolare i rapporti di lavoro nella sfera del potere statale. Certo, per gettare un ponte tra l’efficacia normativa del contratto collettivo e il concetto di atto di autonomia privata la dottrina tedesca si trova di fronte all’ostacolo dogmatico rappresentato dalla conce{p. 290}zione rigorosamente obbligatoria del contratto propria di quell’ordinamento come del diritto romano. Ma una simile difficoltà non emerge dal nostro ordinamento, secondo il quale il contratto non è soltanto fonte di obbligazioni, ma è idoneo anche a produrre effetti dispositivi in senso stretto, cioè immediatamente modificativi di situazioni di diritto o di potere senza il medium di un’obbligazione (cosiddetti effetti reali).
D’altra parte è cessata per noi la difficoltà inversa costituita dall’assenza di indici positivi di attribuzione al contratto collettivo (di diritto comune) di forza regolativa dei rapporti di lavoro analoga all’efficacia delle norme di legge (salvo il diverso grado gerarchico). In questo senso oggi si può argomentare sia dal nuovo testo dell’art. 2113 c.c., che, ai fini dell’impugnabilità delle rinunzie e delle transazioni consentite dal prestatore di lavoro, equipara i diritti a lui derivanti da disposizioni inderogabili dei contratti collettivi ai diritti derivanti da disposizioni inderogabili della legge, sia dal nuovo testo dell’art. 808 c.p.c. che, ai fini dell’impugnazione di nullità della sentenza arbitrale, equipara la violazione e falsa applicazione dei contratti collettivi alla violazione delle regole di diritto prevista dall’art. 829 [1]
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La funzione normativa del contratto collettivo positivamente riconosciuta in ordine alla disciplina dei rapporti (individuali) di lavoro, e quindi l’efficacia analoga al modo di operare della norma di legge inderogabile, possono essere pensate dogmaticamente nell’ambito dell’autonomia privata come un caso particolare di efficacia reale del contratto. A differenza dell’autonomia privata individuale, la quale non può manifestarsi se non con atti costitutivi o modificativi di rapporti giuridici, e perciò non può essere vincolata in relazione al contenuto di contratti futuri se non nella forma di un’obbligazione di conformazione a moduli prestabiliti di regolamento (cioè mediante contratti normativi o contratti-tipo dotati di efficacia meramente {p. 291}obbligatoria), all’autonomia collettiva è attribuito dall’ordinamento il potere di precostituire per le varie categorie professionali un regolamento dei rapporti di lavoro non disponibile (ossia inderogabile) dalle parti dei contratti individuali che li hanno posti o li porranno in essere. In virtù di questa efficacia costitutiva di limiti non semplicemente obbligatori, ma reali all’autonomia individuale, il contratto collettivo si inserisce tra le fonti di integrazione del rapporto di lavoro nel senso dell’art. 1374 c.c., concorrendo direttamente a determinare gli effetti del contratto individuale senza bisogno della mediazione della volontà delle parti, cioè senza bisogno che le sue clausole siano trasfuse nel contenuto del contratto. La spiegazione usuale, anche nel linguaggio legislativo, dell’efficacia automatica in termini di sostituzione automatica delle clausole individuali meno favorevoli al lavoratore con le clausole corrispondenti del contratto collettivo, è impropria e fuorviarne.
Alla peculiarità della funzione del contratto collettivo corrispondono alcune peculiarità di trattamento della fattispecie. Il punto non può essere qui approfondito, ma almeno due conseguenze devono essere accennate come ipotesi meritevoli di verifica:
  • se è vero, come non si stanca di ripetere la Cassazione, che l’interpretazione del contratto collettivo è soggetta alle regole di interpretazione dei negozi, queste regole peraltro, e in particolare il canone fondamentale di interpretazione soggettiva impartito dall’art. 1362 c.c., devono essere opportunamente adattate tenuto conto della funzione normativa del contratto e correlativamente della posizione dei datori e dei prestatori di lavoro i quali, considerati uti singuli e non uti socii, sono terzi rispetto al contratto, cioè sono soggetti alla sua efficacia normativa come a un regolamento eteronomo. Perciò il criterio della ricerca dell’intenzione comune delle parti oltre il senso letterale delle parole deve avere uno spazio meno ampio che nell’interpretazione degli atti di autonomia individuale. Per esempio, la dottrina, a mio avviso fondata, che estende all’interpretazione dei contratti la
    {p. 292}regola falsa demonstratio non nocet, espressamente sancita dal codice civile soltanto in tema di testamento (art. 625), non è applicabile al contratto collettivo. Insomma, anche in relazione ai contratti collettivi c.d. di diritto comune, la tesi di Carnelutti, secondo cui l’interpretazione deve seguire una linea mediana tra i canoni di interpretazione dei negozi e i canoni di interpretazione della legge, non è priva di un nocciolo di verità;
Note
[1] Si aggiunga l’indicazione dell’art. 4, comma 6°, della legge 23 marzo 1981, n. 91.