Giuseppe Antonelli, Giacomo Micheletti, Anna Stella Poli (a cura di)
Verso il museo multimediale della lingua italiana
DOI: 10.1401/9788815410283/c5

Telmo Pievani Intrecciare linguaggi espositivi per un museo della lingua italiana

Notizie Autori
Telmo Pievani professore ordinario di Filosofia delle scienze biologiche presso il Dipartimento di Biologia dell’Università degli studi di Padova. È autore di numerose pubblicazioni nazionali e internazionali nel campo della filosofia della scienza, fra cui: Introduzione alla filosofia della biologia (2005); La teoria dell’evoluzione (2006, 2010 e 2017); Creazione senza Dio (2006); Anatomia di una rivoluzione (2013); Libertà di migrare (2016, con Valerio Calzolaio); Finitudine. Un romanzo filosofico su fragilità e libertà (2020). È socio di importanti società e accademie scientifiche italiane, fa parte del Comitato etico della Fondazione Umberto Veronesi e dell’editorial board di riviste scientifiche internazionali. Dal 2020 è codirettore scientifico della collana «Scienza e Idee» di Raffaello Cortina Editore. Dal 2014 è nel Consiglio scientifico internazionale del MUSE – Museo delle Scienze di Trento.
Abstract
Tutto ciò di cui noi parliamo quando parliamo di virtuale è un mezzo per comunicare qualcosa, e quel qualcosa va organizzato: va trovato un modo per organizzare i contenuti vastissimi, versatili e di estremo interesse che riguardano il patrimonio della lingua italiana (le sue storie, la sua unicità, i saperi, la facoltà stessa del linguaggio, i contesti). Dopo la pandemia, però, diventa necessario cominciare a valutare questa ipotesi. L’interdisciplinarità dovrebbe permeare il racconto espositivo e, soprattutto (più difficile), dare un valore euristico alla storia: cioè fare capire come, per comprendere un certo fenomeno, un solo punto di vista non basti, ma sia necessario illuminarlo da angoli diversi. Si tratta insomma di creare un contesto che susciti interesse e motivazione, in qualche modo giocando, perché no, sull’ignoranza del visitatore: uno strumento fondamentale, in grado di generare stupore e meraviglia, le quali però – va detto – non devono mai essere il fine in sé della comunicazione. C’è un risvolto negativo, tuttavia, che può riguardare la mescolanza dei linguaggi ed è stato finora poco sottolineato, ed è l’aspetto estetico. Può sembrare un elemento superficiale, ma non lo è affatto: spesso viene sottovalutato, o considerato per ultimo. Meno ovvio, meno facile è affrontare l’obsolescenza propriamente tecnologica, che oggi procede velocissima. Bisogna considerare che il modo di concepire fenomeni come la realtà virtuale, la realtà aumentata, la gamification ecc., diffuso fino a pochi anni fa, oggi sembra vintage. O si gioca sul vintage, allora, in modo autoironico (ed è una possibilità), oppure bisogna affrontare l’invecchiamento rapido di un museo di questo tipo, prevedendo sin da subito una manutenzione evolutiva pluriennale. Sarebbe bello, insomma, se questo museo virtuale facesse poi succedere degli eventi reali, degli incontri in luoghi magari poco visitati, negletti, legati alla storia della lingua italiana e alla formidabile ricchezza delle collezioni museali italiane, uniche al mondo.
Sulla base delle mie esperienze nella comunicazione in ambito museale, mi sono chiesto: «Come immagino un museo virtuale della lingua italiana?».
Credo che, per un progetto di questo tipo, una «stella polare» sia sempre partire dai contenuti, che devono avere la priorità ed essere il perno di qualsiasi organizzazione.
Tutto ciò di cui noi parliamo quando parliamo di virtuale è un mezzo per comunicare qualcosa, e quel qualcosa va organizzato: va trovato un modo per organizzare i contenuti vastissimi, versatili e di estremo interesse che riguardano il patrimonio della lingua italiana (le sue storie, la sua unicità, i saperi, la facoltà stessa del linguaggio, i contesti).
Apro una parentesi: parlando di lingua, noi parliamo di «patrimonio immateriale» secondo la distinzione convenzionale materiale/immateriale. Sarebbe molto interessante e provocatorio giocare proprio sull’aspetto convenzionale di questa distinzione. Se la materia è intrisa di conseguenze immateriali, come abbiamo detto, vale anche l’inverso: noi spesso parliamo del mondo virtuale come di un mondo «etereo», laddove in realtà l’immateriale ha profonde conseguenze e ricadute materiali.
Serve però una seconda premessa fondamentale: i contenuti vanno comunicati, vanno raccontati, mettendosi in una disposizione relazionale. E quindi: non dare per scontato l’interlocutore e il suo pregresso, evitare di fare semplice «di-vulgazione» (come purtroppo capita ancora in molti musei). Ormai sappiamo benissimo, da dati quantitativi robusti, che questo approccio un po’ paternalista non funziona, per quanto sia stato fondamentale in una prima fase di democratizzazione delle conoscenze scientifiche. Non sappiamo ancora bene come sostituirlo, ma di sicuro è necessario ricorrere a metodi più partecipativi, che generino motiva{p. 52}zione e interesse. In base alla mia esperienza, per quanto possa sembrare controintuitivo, per creare partecipazione occorre proporre un’idea al visitatore fin dall’inizio, portarlo dentro una storia, in modo proattivo, facendo scelte precise e offrendo un punto di ingresso sul tema. Una storia che è ovviamente parziale, senza pretese di esaustività, ma che induca l’utente a intraprendere un viaggio, un percorso, un’esplorazione. Anche sul web.
Un paio di esempi. Con Luigi Luca Cavalli Sforza abbiamo realizzato una grande mostra sull’evoluzione umana per il Palazzo delle Esposizioni di Roma, nel 2011: abbiamo pensato a lungo a quale taglio dare a una materia così vasta, e alla fine abbiamo deciso di raccontare le migrazioni, di raccontare al pubblico e di fargli vedere che noi, da sempre, siamo migranti. Questa idea è stata il nostro perno narrativo: vedere l’evoluzione umana non solo nel tempo, come si è sempre fatto, ma anche nello spazio, fisico e geografico. Quando alcuni anni prima, sempre per il Palazzo delle Esposizioni, avevamo realizzato la mostra su Charles Darwin, insieme a Niles Eldredge e a Ian Tattersall dell’American Museum of Natural History di New York, l’idea pure era molto semplice: raccontare il travaglio di Darwin a monte della pubblicazione dell’Origine delle specie, per cui la mostra si interrompeva lì, all’uscita del libro, dove di solito comincia, e il resto non te lo raccontava. O meglio: il resto era il racconto di come oggi, centocinquant’anni dopo, la teoria dell’evoluzione continua a evolvere. Una scelta radicale, ovviamente, non divulgativa (perché non esaustiva e piuttosto controintuitiva); però un modo migliore, forse, di spiegare la figura di Darwin e il suo metodo scientifico. In quella mostra non era mai spiegata per esteso, in modo didattico e divulgativo, la teoria dell’evoluzione, ma i visitatori potevano coglierne tutti i concetti essenziali scoprendo il processo che aveva portato alla sua nascita. Un altro elemento importante, quando ci si occupa di comunicazione scientifica, è ricordare infatti che si stanno sì comunicando dei contenuti, che però cambiano e si aggiornano continuamente. L’importante, nel raccontare questi contenuti, è spiegare il metodo, il processo, l’attitudine che ha condotto ai risultati esposti. Penso che questo {p. 53}principio metodologico valga anche per la linguistica e per i presupposti di un museo della lingua italiana.
Devo essere sincero: non avevo mai pensato alla possibilità di un museo totalmente virtuale. Dopo la pandemia, però, diventa necessario cominciare a valutare questa ipotesi. Credo si tratti di una sfida difficile, aperta a tanti pericoli. Uno, ad esempio, è il rischio che in un museo di questo tipo la tecnologia sovrasti i contenuti, diventi un fine anziché un mezzo (con lo spiacevole effetto collaterale, ben noto, che tutte le tecnologie espositive soffrono di rapida obsolescenza e dopo alcuni anni sembrano preistoria vintage). Un altro pericolo è quello di fare un «clone» o un surrogato digitale di un museo fisico, una mera gallery: il che sarebbe ovviamente un errore.
Un’ipotesi, con riferimento al titolo del mio intervento, potrebbe essere quella di «intrecciare» piani diversi, in un modo accorto e non banale. Mi spiego: è chiaro che in un museo della lingua italiana virtuale si intrecciano discipline diverse, a cominciare dalla linguistica e dalla storia (storia della lingua e storia in generale). Che cosa intendiamo per «intreccio di discipline diverse»? È un aspetto che non andrebbe mai esplicitato: dovrebbe essere piuttosto una chiave di lettura implicita, non indirizzata al pubblico (al quale non interessano i discorsi teorici sui confini disciplinari; il primo errore da evitare è concepire un museo con la paura delle reazioni che avranno i nostri colleghi accademici, che non sono il pubblico di riferimento del museo). L’interdisciplinarità dovrebbe permeare il racconto espositivo e, soprattutto (più difficile), dare un valore euristico alla storia: cioè fare capire come, per comprendere un certo fenomeno, un solo punto di vista non basti, ma sia necessario illuminarlo da angoli diversi. Questa a mio avviso è la «vera» interdisciplinarità: raccontare una storia al pubblico, spiegandola ma «senza dirglielo», perché ciò fa parte della storia stessa dell’oggetto che stai raccontando.
Oltre a quello delle discipline, un altro tipo di intreccio riguarda i linguaggi virtuali utilizzati. A Padova pochi anni fa abbiamo inaugurato «Il Bo Live», un magazine crossmediale che, su ciascuna notizia o approfondimento, intreccia {p. 54}linguaggi diversi: testo, video, connessione ai social, podcast, streaming… Un insieme di linguaggi che si intrecciano tra di loro per raccontare un contenuto: una storia, una ricerca scientifica ecc. Questa può essere una chiave di lettura importante nel progettare oggi un museo virtuale – nel «fare virtualità» attraversando e mescolando media differenti, grazie alla enorme flessibilità del web.
Terzo livello di intreccio, ancora più importante, è poi quello dei saperi: nel museo della lingua italiana che immagino, la storia della lingua può essere raccontata, caso per caso, attraverso l’arte, la musica, il cinema, il teatro, il fumetto o graphic novel ecc. Ed è questo intreccio, peraltro, a generare la famosa «immersività» di cui oggi parlano tutti, l’idea di entrare in un’esperienza e sentirsi trascinati, immersi in essa, senza tuttavia essere sovrastati e disorientati da una disordinata accozzaglia di stimoli visuali, sonori e testuali. Si tratta insomma di creare un contesto che susciti interesse e motivazione, in qualche modo giocando, perché no, sull’ignoranza del visitatore: uno strumento fondamentale, in grado di generare stupore e meraviglia, le quali però – va detto – non devono mai essere il fine in sé della comunicazione. Il museo non deve mai rincorrere l’effetto «WOW!»: stupore e meraviglia devono portare in un modo o nell’altro alla conoscenza (altrimenti si incorre in un altro errore molto frequente: la spettacolarità fine a sé stessa).
C’è un risvolto negativo, tuttavia, che può riguardare la mescolanza dei linguaggi ed è stato finora poco sottolineato, ed è l’aspetto estetico. Un museo virtuale che mescoli linguaggi tra loro molto diversi deve evitare l’impressione di un affastellamento di contenuti e di messaggi: deve essere bello, armonioso, avere una mano artistica, la grafica dev’essere molto curata, funzionale, elegante, minimale. Deve insomma avere una componente estetica che tenga insieme i contenuti attraverso una piacevolezza percettiva. Può sembrare un elemento superficiale, ma non lo è affatto («estetica» indica il modo in cui io percepisco un particolare contenuto): spesso viene sottovalutato, o considerato per ultimo. In realtà la «confezione», la forma, è parte del messaggio, soprattutto nel mondo digitale.{p. 55}
Si pongono altre sfide interessanti, come l’interattività: un museo virtuale non può che essere interattivo. Però, di nuovo, in che senso? Bisogna ragionarci bene. È ovvio che un museo esclusivamente virtuale è innanzitutto a portata di click per un pubblico mondiale. Questo va tenuto presente, perché si tratta di una prospettiva completamente diversa rispetto a quella di un museo fisico o ibrido. Nel museo virtuale ci si può entrare da qualsiasi parte del mondo in qualsiasi momento, indipendentemente da quale lingua io parli o da cosa stia facendo. Non ci sono barriere architettoniche né rischi di conservazione per gli oggetti… Ma in realtà, e lo sappiamo, ci sono delle norme di inclusione che vanno rispettate, perché si può risultare «escludenti» anche in un museo virtuale (in relazione a grafica, accesso, navigabilità).
E in positivo, che tipo di interazione mi immagino? Sicuramente una di tipo giocoso, senza però esagerare in questo aspetto, come a volte capita in area anglosassone: il gioco è un ingrediente che non può diventare predominante, o altrimenti diventa anch’esso fine a sé stesso.
Mi piace immaginare un’interazione che sia esplorativa e costruttiva insieme. «Esplorativa» perché offre la possibilità di entrare e muoversi in una situazione (in un museo della lingua italiana, ad esempio, io ci metterei molte mappe geografiche interattive, aperte alla navigazione). «Costruttiva» perché facilita la possibilità di crearsi dei percorsi: un tema oggi fondamentale, soprattutto quando c’è la necessità di selezionare molti reperti e organizzare delle visite per highlights, così da incentivare il visitatore (così come le classi scolastiche) a tornare più volte per intraprendere ogni volta un altro percorso, una nuova storia. Vale sia per il museo fisico sia per quello virtuale.
Un altro pericolo che vorrei evidenziare e che ho imparato con l’esperienza è che si tende a credere che un museo virtuale sia facilmente aggiornabile – il che è vero per quanto riguarda i contenuti, i quali si trovano in un ambiente, quello digitale, in continuo, tumultuoso aggiornamento, ed è ovvio allora che anche il museo virtuale vada «manutenuto», curato, aggiornato costantemente nei suoi contenuti.
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