Verso il museo multimediale della lingua italiana
DOI: 10.1401/9788815410283/c5
Un altro pericolo che vorrei
evidenziare e che ho imparato con l’esperienza è che si tende a credere che un museo
virtuale sia facilmente aggiornabile – il che è vero per quanto riguarda i contenuti, i
quali si trovano in un ambiente, quello digitale, in continuo, tumultuoso aggiornamento, ed
è ovvio allora che anche il museo virtuale vada «manutenuto», curato, aggiornato
costantemente nei suoi contenuti.
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Meno ovvio, meno facile è affrontare
l’obsolescenza propriamente tecnologica, che oggi procede velocissima. Bisogna considerare
che il modo di concepire fenomeni come la realtà virtuale, la realtà aumentata, la
gamification ecc., diffuso fino a pochi anni fa, oggi sembra
vintage. O si gioca sul vintage, allora, in
modo autoironico (ed è una possibilità), oppure bisogna affrontare l’invecchiamento rapido
di un museo di questo tipo, prevedendo sin da subito una manutenzione evolutiva pluriennale.
Il vero antidoto «anti-invecchiamento»,
in questo caso, è la semplicità nel raccontare l’intreccio di contenuti e linguaggi, un modo
duttile che poi possa essere aggiornato senza troppe complicazioni: più una tecnologia è
inutilmente barocca, e più invecchia facilmente e diventa difficile da gestire.
Concludo con due parole chiave. È
necessario che un museo di questo tipo, destinato all’ambiente digitale, valorizzi quella
che è forse, in tale ambiente, la merce più rara: vale a dire
l’autorevolezza, il «copyright» dell’istituzione (sempre associata
ovviamente alla massima apertura, trasparenza, gratuità), in grado di fare la differenza al
giorno d’oggi nei progetti online, in cui l’informalità e l’incertezza sulle fonti devono
trovare un argine istituzionale.
E poi, più in generale,
affezione, ovvero favorire il ritorno del visitatore. Perché anche
in un museo virtuale ci può essere una sorta di collezione permanente (l’asse narrativo
fondamentale, comunque aggiornabile), e poi ci possono essere delle mostre temporanee, in
turnazione a cadenza fissa, per stimolare gli utenti a tornare regolarmente, consapevoli che
dopo sei mesi troveranno un museo diverso e sorprendente.
Infine, non immagino un museo virtuale
autosufficiente, penso che non avrebbe senso. Bisogna giocare su questo paradosso: un museo
virtuale «non autosufficiente», che immagini in qualche modo un contatto fisico con degli
originali, in presenza, tangibili. Abbiamo fatto varie indagini a partire dai nostri
progetti museali, e mi ha sempre colpito, nel domandare ai visitatori cosa ricordassero di
particolarmente pregnante all’interno della visita, l’insistenza
¶{p. 57}sull’essere finalmente entrati in contatto visivo, fisico, con un
reperto originale. L’originale, obiettivamente, mantiene questa carica un po’ feticistica,
totemica, che va tenuta in considerazione.
Mi immagino dunque che il museo
virtuale dialoghi con un’istituzione fisica, in una complementarità costruttiva e feconda,
ma che possa diventare, anche, un museo «diffuso» nelle scuole, un luogo virtuale che
fornisca materiali e «ingredienti» per fare laboratori ed esperienze, là fuori nella realtà
fisica: il museo che esce dalla rete ed entra nella scuola si fa materiale. Sarebbe bello,
insomma, se questo museo virtuale facesse poi succedere degli eventi reali, degli incontri
in luoghi magari poco visitati, negletti, legati alla storia della lingua italiana e alla
formidabile ricchezza delle collezioni museali italiane, uniche al mondo.