Umberto Romagnoli
Contrattazione e partecipazione
DOI: 10.1401/9788815374950/c2

2. Un’analisi motivazionale: la spinta comunitaria

Nel corso della riunione tenutasi il 14 maggio 1958 per la firma del protocollo d’intesa, Bassetti ebbe occasione di affermare che l’accordo «nella sostanza e nella forma» non è un accordo «equivoco». Il tono del discorso da cui la frase è estrapolata era, in quel momento, vivacemente polemico. Dopo poco, infatti, sarebbe calato «il profondo silenzio» che, come si legge nel verbale, accompagnò l’abbandono delle trattative da parte della delegazione della FILTEA-CGIL. Tuttavia, ho giudicato opportuno ricordare quell’affermazione perché mi sembra che, una volta isolata dal particolare contesto in cui fu pronunciata, essa rivela un margine di credibilità superiore a quello normalmente consentito ad una risposta polemica. Infatti, come l’evoluzione successiva avrebbe posto in luce, l’accordo del ’58 era «equivoco»: ma poteva accorgersene chi riponeva una illimitata fiducia nella spontaneità e nella creatività della prassi? La realtà è che il non considerare equivoco l’accordo, al momento in cui fu stipulato, equivaleva a fare una «scommessa» sull’at­teggiamento del personale e sulle virtù intrinseche del dialogo in quanto tale tra imprenditore e suoi dipendenti.
Senonché, l’aleatorietà della scommessa venne sensibilmente accentuata (quando tutto lascerebbe supporre il contrario) dagli stessi che l’avevano fatta, nella misura in cui trascurarono di predisporre le condizioni ottimali di partenza dell’esperimento «produttivistico». Infatti, sarebbe lecito attendersi dai compilatori di un autentico «manifesto» di politica di relazioni industriali, qual è il protocollo d’intesa del ’58, un uso più sorvegliato di concetti e formule (soprattutto se non mancano, al ri­guardo, studi e ricerche sperimentali) e la volontà di ridurre al massimo le inevitabili incertezze interpretative o{p. 48} applicative formulando norme ove la genericità e l’approssimazione del dettato non siano scambiate per enunciazioni programmatiche.
Come si è detto, l’accordo del ’58 introduce e disciplina «due forme di cooperazione»: la consultazione e la collaborazione.
La ragione di questo distinguo testuale non è chiara. La consultazione — dispone l’art. 3 — «ha lo scopo di promuovere fra operai, impiegati e capi la conoscenza dei problemi di conduzione e di sviluppo dell’impresa e di rendere consapevole la direzione dei problemi del per­sonale»; la collaborazione — stabilisce l’art. 4 — «si prefigge di unire gli sforzi e gli intenti delle due parti per assicurare all’azienda il buon successo sul mercato ed i più alti livelli di efficienza interna, sviluppando proce­dure e metodi migliori, riducendo gli sprechi e gli arresti sul lavoro e comprimendo i costi di produzione e le spese generali. Ciò avrà anche per effetto di rendere i prodotti accessibili ad un maggior numero di consumatori, di assi­curare ai lavoratori il massimo livello di occupazione, la loro qualificazione e valutazione, l’incoraggiamento della iniziativa dei singoli e il miglioramento delle condizioni di lavoro e di retribuzione».
La differenza potrebbe porsi in termini di rapporto tra genere e specie: la «collaborazione» comprende la «consultazione», come il più comprende il meno; oppure, potrebbe porsi in termini di «scopo-mezzo»: rispetto all’estesa gamma di finalità comuni, di cui la «collaborazione» è una semplice variante semantica, la «consultazione» ha valore strumentale. Nell’uno come nell’altro caso, la consultazione è intesa in maniera tale da implicare necessariamente una omogeneità o comunione di interessi tra imprenditore e maestranze.
Questo primo tentativo di interpretazione non appartiene al novero delle ipotesi logicamente possibili: è una delle interpretazioni storicamente date al documento contrattuale nell’ambiente in cui esso si applica. Infatti, nell’ottobre del 1960 si tenne a Stresa un congresso dei dipendenti della sede della società, il cui «primo obiet{p. 49}tivo» era quello di «sapere, vagamente almeno, in quale direzione (...) si svolge (...) la strada che ci eravamo proposti di percorrere tutti insieme» nel 1958 [1]
. Le commissioni di studio, composte da 10-12 impiegati, a cui era stato affidato preventivamente l’incarico di svolgere alcuni temi inerenti all’esperienza aziendale in atto, presentarono relazioni che, nel complesso, convalidano una valutazione dell’accordo nei termini sopra indicati.
I redattori delle principali relazioni (aventi ad oggetto «la produttività come partecipazione» e «l’azienda come gruppo di lavoro e come gruppo sociale») non esitano a scoprire che il traguardo a cui si dovrà arrivare è quello di instaurare tra datore e prestatore di lavoro «rapporti di collaborazione, impostati sulla chiara presa di coscienza di essere partecipi su di uno stesso piano di una impresa in comune»: «l’azienda» è una «cosa che in parte ci appartiene», affermano, «perché abbiamo concorso a crearla». Naturalmente, si rendono conto che «l’intento di associare in una unica direzione il cosciente contributo di ciascuno e di fatto determinare la costituzione di una vera comunità aziendale» presuppone il «superamento» ‒ atteso con impazienza, che «oggi, questo superamento è ancora allo stadio di una aspirazione, di un desiderio» — «del tradizionale rapporto capitale-lavoro in termini di convergenza di interessi e quindi di collaborazione». La «lungimiranza» della direzione non è sufficiente. È necessario che i dipendenti, dei quali si lamenta la «scarsa ricettività» di fronte al «giusto concetto produttivistico», sappiano «maturarsi» sotto l’azione «educativa» svolta dai propri capi che purtroppo è, essa pure, carente perché l’atteggiamento di questi ultimi è, spesso, «decisamente difforme da quello voluto dalla direzione generale».
Non ho illustrato il nucleo centrale delle tesi elaborate dalle Commissioni di studio per criticarle sotto il profilo ideologico o per sottolinearne la scarsa originalità cultu­rale o, più semplicemente, per segnalare come esse non{p. 50} siano immuni da eccessi di verbalismo retorico, ma per documentare che le stesse sono ricollegabili, come è espli­citamente ammesso, all’accordo «di vertice tra direzione e sindacati democratici» del 1958 e che, quindi, quest’ultimo era interpretabile ‒ di fatto, è stato interpretato ‒ come manifestazione di note tendenze politiche ispirate al solidarismo cattolico-sociale integralista, nel cui àmbito si stabilisce automaticamente una correlazione di necessità logica tra l’attività di consultazione e l’ipotizzata unione solidale e organica di tutti i partecipi del processo produttivo.
Infatti, la tentazione a ravvisare nell’accordo del 1958 la premessa-base di una modifica nei rapporti tra imprenditore e lavoratore del tipo descritto è tenace almeno quanto gli ostacoli che vi si oppongono. Risale al 1962 una tavola rotonda sindacale interna nelle cui conclusioni si riafferma che, in prospettiva, la CM è un «mezzo per superare l’alienazione che è insita nel contratto di lavoro subordinato»; si esprime la persuasione che «la parteci­pazione al potere aziendale» costituisce un «contemperamento del contratto di lavoro con forme più prossime al contratto di società».
Alla stregua di questo orientamento ideologico, consultazione e collaborazione si identificano: unico è il fondamento dell’una e dell’altra. Senonché, non può sopprimersi il dato contrattuale da cui risulta che alla CM si assegna uno scopo suscettibile di realizzarsi indipendentemente dagli esiti pratici della «forma di cooperazione» mirante ad «unire gli sforzi e gli intenti» delle parti. La consultazione, in altri termini, può essere concepita e utilmente esercitata anche nella cornice di fini e interessi confliggenti: il comitato di CM può essere considerato come un particolare accorgimento tecnico per stimolare una promotion collettiva tra tutti i soggetti inseriti nell’impresa, pour mieux s’entendre e, mediatamente, per la composizione di interessi che sono e restano contrapposti.
Nel quadro di questo ordine di idee, il distinguo testuale tra consultazione e collaborazione acquista un di{p. 51}verso significato, potendo essere interpretato come espressione di una resistenza istintiva di fondo ‒ non importa stabilire se consapevole e in quale misura ‒ ad ammettere che l’attribuzione ai lavoratori di un ruolo attivo nella formulazione delle politiche aziendali presupponga o comporti necessariamente il riconoscimento o la creazione di una comunità di interessi. La collaborazione, in tal caso, piuttosto che un’attività qualificata da un fine comune prestabilito, va intesa come un risultato da conseguirsi attraverso la libera dialettica degli interessi: «tanto poco significa di per sé, comunione di interessi, che essa può, al limite, estrinsecarsi soltanto nell’introduzione dei metodi più adeguati per l’espressione di interessi diversi e nella predeterminazione delle regole per la composizione dei conflitti tra questi» [2]
.
Che un simile orientamento politico affiori in maniera prevalentemente casuale e a stento percepibile nel documento contrattuale si giustifica osservando che esso appare dominato dalla «esigenza, particolarmente sentita dalla direzione generale, di modificare il clima aziendale (...) nella speranza che alla fine possa essere realizzata una vera e propria collaborazione aziendale» nel quadro di fini comuni [3]
. Che esso, poi, tardi a manifestarsi sul piano operativo si giustifica considerando che l’accordo del ’58 segna una tendenziale preferenza per le istituzioni rappresentative del personale, come tali non solo ottimi strumenti di integrazione nell’azienda, ma anche incapaci, per difetto di cultura specifica e di autonomia, ad elaborare una valida alternativa politica rispetto alle scelte direzionali.
In definitiva, l’accordo del ’58 mirava a sanare la contraddizione che non di rado si assume esservi tra il comportamento dei lavoratori e la dipendenza della loro sorte da quella dell’impresa. In altri termini, poiché
{p. 52} la prosperità dell’impresa è vantaggiosa sia per l’imprenditore sia per i lavoratori, non si dà conflitto, bensì convergenza d’interessi.
Note
[1] Sono le parole introduttive dell’intervento con il quale Bassetti apriva i lavori del congresso.
[2] Giugni, Mansioni e qualifica nel rapporto di lavoro, Napoli, 1963, p. 304 ss.
[3] Le parole riprodotte nel testo si leggono nella relazione cit. La produttività come partecipazione, presentata al convegno di Stresa nel 1960.