La Repubblica di Weimar: democrazia e modernità
DOI: 10.1401/9788815370228/c12
Il freddo vento di Weimar. Considerazioni sulla nuova
attualità del confronto con la prima democrazia tedesca Traduzione di Enzo MorandiQuesto contributo è una rielaborazione ampliata del saggioWarum Weimar? Zur Renaissance einer vergessenen Republikapparso in tedesco inM. Sabrow(ed),Auf dem Weg nach Weimar? Demokratie und Krise, Leipzig, AVA, 2019, pp. 9-25
Notizie Autori
Martin Sabrow è professore ordinario di Storia contemporanea, Humboldt-Universität zu
Berlin, e direttore del Leibniz- Zentrum für Zeithistorische Forschung,
Potsdam.
Abstract
Per molto tempo l’esperienza della Repubblica di Weimar è stata considerata nei
termini di un semplice punto di passaggio tra le due guerre mondiali, e ciò ha
determinato il suo essere passata in secondo piano sia a livello prettamente
storiografico che per ciò che riguarda la generale memoria collettiva. In questo
capitolo si riflette sui modi con cui la breve e fragile repubblica è stata
interpretata nel complesso della storia della Germania da parte della Repubblica
Federale Tedesca, della DDR, e nel periodo successivo alla riunificazione del paese,
con l’obiettivo di comprendere le motivazioni che hanno eliminato Weimar dalla
memoria e che le consentono oggi di essere nuovamente un fenomeno significativo per
la storia e per la politica.
Dopo essere stata a lungo considerata un
puro e semplice intermezzo tra l’epoca guglielmina e il regime nazionalsocialista, la
Repubblica di Weimar è tornata improvvisamente alla ribalta. Prima il centesimo anniversario
della rivoluzione di novembre (1918) e poi della fondazione della Repubblica (febbraio
1919), ma anche i cento anni dalla sollevazione spartachista (gennaio 1918) e della firma
del Trattato di Versailles (giugno 1919) hanno avuto larga eco sui media e anche gli storici
sono tornati ad occuparsi in modo approfondito di questi eventi. Come esempio tra i tanti
vorrei richiamare l’attenzione sul Ministero degli Esteri, che solo nel contesto di questo
giubileo sembra essersi reso conto che il nome di Hermann Müller, il primo ministro degli
Esteri tedesco dell’epoca weimariana, era, in casa propria, praticamente sconosciuto. Eppure
il socialdemocratico Hermann Müller (1876-1931) è stato una delle figure chiave della prima
repubblica tedesca. Come segretario del partito socialdemocratico (SPD) e capo del suo
gruppo parlamentare Müller ebbe un ruolo chiave nella decisione di costituire una coalizione
di governo con i conservatori e nel deciso schieramento a favore della Repubblica; come
ministro degli Esteri tedesco sottoscrisse il Trattato di Versailles che, come nessun altro
evento, contribuì alla polarizzazione della ¶{p. 260}società postbellica e
al rifiuto della democrazia weimariana nata dalla sconfitta; come rappresentante dell’ultimo
governo espressione del Parlamento, Müller è infine passato alla storia come il «tragico cancelliere»
[1]
che il 27 marzo 1930 dovette rassegnare le dimissioni. Apparentemente perché la
grande coalizione SPD-DVP non era riuscita ad accordarsi in merito all’aumento del
contributo dello 0,5% per l’assicurazione in favore dei disoccupati, ma in realtà perché
ormai soprattutto da parte della DVP per nessun motivo si era disposti a proseguire la
collaborazione con l’SPD. Müller fu l’ultimo cancelliere
espresso dal Parlamento della Repubblica di Weimar e le sue dimissioni, cui venne
praticamente costretto dal suo stesso partito, spianarono la strada ai cosiddetti governi
del presidente (Hindenburg) che a partire da Brüning e passando per Papen e Schleicher
avrebbero infine condotto a Hitler. A quest’uomo politico dell’era weimariana, politicamente
così legato sia all’inizio che alla fine della prima democrazia tedesca, la nostra memoria
ufficiale riserva un posto tutt’altro che di primo piano – a Pforzheim c’è una via dedicata
al «cancelliere del Reich Müller», e a Berlino, ma solo dal 2011, c’è una targa
commemorativa. Nell’odierna Germania non c’è nient’altro che lo ricordi. Questo vuoto
storico-culturale, che egli peraltro condivide con altri cancellieri dell’epoca weimariana
come Constantin Fehrenbach, Wilhelm Cuno o Hans Luther
[2]
, necessita di una spiegazione allo stesso modo dell’attuale, prepotente ritorno
di interesse per la Repubblica di Weimar, che nel 2019 ha indotto perfino uno sconcertato
Ministero degli Esteri a chiedersi chi fosse stato veramente quest’uomo che pure, come
ministro degli Esteri tedesco, aveva scritto la storia ma poi era caduto nel dimenticatoio.
La sua vicenda personale fa il paio con quella della Repubblica di Weimar e ci porta alla
domanda cui si cercherà di dare una risposta nelle pagine che seguono:
¶{p. 261}perché la Repubblica di Weimar è stata così a lungo espunta dalla
memoria e quali sono le ragioni per cui essa è tornata inaspettatamente e prepotentemente
alla ribalta?
1. La Repubblica dimenticata
Almeno in un primo tempo, quando
dopo il 1945 sorsero in Germania (all’Est e all’Ovest) due repubbliche separate, la prima repubblica tedesca non venne
assolutamente rimossa dal ricordo. La storiografia della DDR considerò gli anni di
Weimar – dall’inizio alla fine – alla stregua di un errore storico, cui si dovevano
soprattutto preziose indicazioni per un futuro migliore. La Repubblica federale, invece,
considerò a lungo il breve e febbrile periodo compreso tra la fine dell’Impero
guglielmino e l’inizio della dittatura nazista «una sorta di parametro negativo da
tenere presente per meglio garantire e rafforzare la propria stabilità democratica.
Weimar rappresentava una lezione paradigmatica per la perdita di potere e l’abdicazione
della democrazia»
[3]
. Dopo il 1945 e il ritorno alla democrazia, prevalse in entrambi gli Stati
tedeschi un’immagine teleologica di Weimar per cui non si poteva parlare dell’inizio
carico di speranze e aspettative del biennio 1918-1919 senza prendere contemporaneamente
in considerazione l’ingloriosa fine della repubblica nel 1933
[4]
. Quali chance la Repubblica ¶{p. 262}di Weimar aveva
sprecato, quali insegnamenti si potevano trarre dal suo fallimento: erano queste le
domande correnti nella Repubblica federale con riguardo ai quattordici anni di
intermezzo democratico, e le risposte che immancabilmente venivano date sfociarono
dapprima nel titolo di un libro di Fritz René Allemann – «Bonn non è Weimar»
[5]
– che in seguito sarebbe diventato uno slogan di grande successo.
Con la crescente distanza e
soprattutto con l’avvio del dibattito in merito al complicato ingresso della Germania
nella modernità, in altre parole in merito al suo cosiddetto
Sonderweg, perse progressivamente importanza la questione
relativa alle chance perdute e alle conseguenze di lungo periodo dei limiti della prima
repubblica tedesca. Per trent’anni è come se i quattordici anni della Repubblica di
Weimar fossero stati espunti dalla storia e anche le sue realizzazioni d’avanguardia le
vennero riconosciute in maniera piuttosto vaga e confusa. In realtà essa diede vita,
immediatamente dopo la sua proclamazione, ancora nei giorni della rivoluzione di
novembre (1918), ad innovative forme di contrattazione collettiva e portò a compimento,
grazie al ministro delle Finanze Matthias Erzberger, la più radicale riforma della
storia finanziaria tedesca, riforma che, occorre sottolinearlo, è ancora oggi alla base
della legislazione tedesca in materia fiscale; con l’intesa franco-tedesca e una
educazione al pensiero europeo, inoltre, aprì spazi per un’azione sovranazionale che si
ritrovano anche nel pensiero attuale; grazie alla codificazione dei principi
fondamentali la sua Costituzione contribuì a radicare l’immagine di sé della Repubblica
federale – ma di tutto questo non c’è quasi traccia nella coscienza storica collettiva.
In Germania, l’interesse degli
storici contemporaneisti si concentra sugli anni della dittatura nazista ma non sulle
battaglie che la prima democrazia tedesca dovette combattere per la propria affermazione
e sopravvivenza. In pratica sono stati ¶{p. 263}rimossi dal discorso sul
passato alcuni fatti, come ad esempio le trattative per il Trattato di pace di
Versailles (1919), che non furono un diktat puro e semplice dei vincitori, la guerra
civile che fu sul punto di scoppiare in seguito all’attentato mortale a Walther Rathenau
nel 1922 ma portò anche ad una storicamente inaudita e mai più ripetutasi unità d’azione
dei tre partiti operai, gli scandali Barmat, nel 1924, e Sklarek, nel 1929, che
contribuirono non poco a screditare la repubblica
[6]
, e infine il fatto che a rendere ingovernabile la crisi economica non fu
tanto la politica di contenimento delle spese di Brüning quanto piuttosto il piano
Dawes-Young. Un tempo appassionatamente dibattuti, questi temi non sono stati
durevolmente al centro dell’attenzione degli storici e quindi ad essi non è stato
riservato un posto stabile nella memoria della nazione. Per usare le parole di Ernesto
Laclau, sono divenuti «vuoti significanti» e rappresentano un «vuoto culturale in tema
di memoria»
[7]
, condensato in formule brevi e spesso oggettivamente insostenibili, stando
alle quali ad esempio il Trattato di Versailles avrebbe causato la rovina della
repubblica, l’assassinio di Rathenau sarebbe stato causato da puro e semplice odio
antisemita, il ceto politico weimariano sarebbe stato corrotto e incapace, le difficoltà
causate dalla crisi economica sarebbero state ingigantite dalla politica di tagli di
bilancio di Brüning e il fallimento della democrazia weimariana sarebbe stato provocato
dalla immaturità dei cittadini. Scarsa considerazione hanno incontrato gli sforzi
compiuti negli anni immediatamente successivi alla fondazione della repubblica dalla
coalizione weimariana, che dopo una disastrosa guerra perduta riportò il Paese nel nuovo
ordine internazionale e non solo riuscì a reinserire nel processo economico milioni di
soldati smobilitati
¶{p. 264}senza peraltro provocare una disoccupazione
di massa, ma riuscì anche ad ottenere sul piano legislativo altri significativi
risultati, come la giornata lavorativa di otto ore, i contratti collettivi e
l’assicurazione per i disoccupati.
Note
[1] P. Reichel, Der tragische Kanzler. Hermann Müller und die SPD in der Weimarer Republik, München, dtv, 2018.
[2] B. Erenz, Die Verfemten. Die Kanzler der Weimarer Republik gelten als Versager und wurden nach dem Krieg vergessen gemacht. Zu Recht?, in «Die Zeit», 3 settembre 2017; https://www.zeit.de/2017/36/weimarer-republik-kanzler-demokratie (ultima consultazione 18 maggio 2020).
[3] A. Wirsching, Weimarer Verhältnisse? Appell an die Vernunft, in «Frank-furter Allgemeine Zeitung», 24 aprile 2017; https://www.faz.net/aktuell/politik/die-gegenwart/weimarer-verhaeltnisse-appell-an-die-vernunft-14985470.html?printPagedArticle=true#pageIndex_2 (ultima consultazione 3 aprile 2020).
[4] Così ancora una panoramica sulla ricerca nel 2000: «Su ogni lavoro riguardante questo periodo si librano come un cattivo presagio le conoscenze acquisite in merito al crollo della repubblica. Si moltiplicano le domande circa le cause e contemporaneamente si rafforza il desiderio di escludere qualcosa di analogo per il presente grazie al ricordo degli errori e delle omissioni dell’epoca weimariana»: A. Büssgen, Intellektuelle in der Weimarer Republik, in J. Schlich (ed), Intellektuelle im 20. Jahrhundert in Deutschland, Tübingen, Niemeyer, 2000, pp. 161-246, qui p. 161. Cfr. anche: K.D. Erdmann, Weimar. Selbstpreisgabe einer Demokratie. Eine Bilanz heute, Düsseldorf, Droste, 1984; F. Balke - B. Wagner (edd), Vom Nutzen und Nachteil historischer Vergleiche. Der Fall Bonn-Weimar, Frankfurt a.M. - New York, Campus, 1997.
[6] In un caso rimase coinvolto un precedente cancelliere (Gustav Bauer), che venne così sconfessato, nell’altro un potente borgomastro (Gustav Böß). Sul punto cfr. S. Malinowski, Politische Skandale als Zerrspiegel der Demokratie. Die Fälle Barmat und Sklarek im Kalkül der Weimarer Rechten, in «Jahrbuch für Antisemitismusforschung», 5, 1996, pp. 46-64.
[7] V. Wirtz, Flaggenstreit. Zur politischen Sinnlichkeit der Weimarer Demokratie, in M. Dreyer - A. Braune (edd), Republikanischer Alltag. Die Weimarer Demokratie und die Suche nach Normalität, Stuttgart, Franz Steiner, 2017, pp. 51-66, qui p. 52.