La Repubblica di Weimar: democrazia e modernità
DOI: 10.1401/9788815370228/c12
In Germania, l’interesse degli
storici contemporaneisti si concentra sugli anni della dittatura nazista ma non sulle
battaglie che la prima democrazia tedesca dovette combattere per la propria affermazione
e sopravvivenza. In pratica sono stati {p. 263}rimossi dal discorso sul
passato alcuni fatti, come ad esempio le trattative per il Trattato di pace di
Versailles (1919), che non furono un diktat puro e semplice dei vincitori, la guerra
civile che fu sul punto di scoppiare in seguito all’attentato mortale a Walther Rathenau
nel 1922 ma portò anche ad una storicamente inaudita e mai più ripetutasi unità d’azione
dei tre partiti operai, gli scandali Barmat, nel 1924, e Sklarek, nel 1929, che
contribuirono non poco a screditare la repubblica
[6]
, e infine il fatto che a rendere ingovernabile la crisi economica non fu
tanto la politica di contenimento delle spese di Brüning quanto piuttosto il piano
Dawes-Young. Un tempo appassionatamente dibattuti, questi temi non sono stati
durevolmente al centro dell’attenzione degli storici e quindi ad essi non è stato
riservato un posto stabile nella memoria della nazione. Per usare le parole di Ernesto
Laclau, sono divenuti «vuoti significanti» e rappresentano un «vuoto culturale in tema
di memoria»
[7]
, condensato in formule brevi e spesso oggettivamente insostenibili, stando
alle quali ad esempio il Trattato di Versailles avrebbe causato la rovina della
repubblica, l’assassinio di Rathenau sarebbe stato causato da puro e semplice odio
antisemita, il ceto politico weimariano sarebbe stato corrotto e incapace, le difficoltà
causate dalla crisi economica sarebbero state ingigantite dalla politica di tagli di
bilancio di Brüning e il fallimento della democrazia weimariana sarebbe stato provocato
dalla immaturità dei cittadini. Scarsa considerazione hanno incontrato gli sforzi
compiuti negli anni immediatamente successivi alla fondazione della repubblica dalla
coalizione weimariana, che dopo una disastrosa guerra perduta riportò il Paese nel nuovo
ordine internazionale e non solo riuscì a reinserire nel processo economico milioni di
soldati smobilitati
¶{p. 264}senza peraltro provocare una disoccupazione
di massa, ma riuscì anche ad ottenere sul piano legislativo altri significativi
risultati, come la giornata lavorativa di otto ore, i contratti collettivi e
l’assicurazione per i disoccupati.
Sta di fatto che la Repubblica di
Weimar divenne in larga misura un «non luogo», e non solo in senso materiale ma anche
figurato. In nessuna scuola tedesca c’è una cattedra per l’insegnamento della sua
storia. Dei 122 contributi che Étienne François e Hagen Schulze hanno raccolto nei loro
Deutsche Erinnerungsorte (Luoghi tedeschi del ricordo) pochi
sono quelli che anche soltanto sfiorano gli anni di Weimar e solo due – sul Trattato di
Rapallo e sulla Bauhaus – sono quelli che li riguardano direttamente. Quando ci
occupiamo della storia della Repubblica weimariana, non la leggiamo a partire dai suoi
promettenti esordi come un romanzo di formazione o una romanza nel senso di Hayden
White, ma attraverso la lente appannata del suo inesorabile fallimento essa ci appare
come una storia di rovinoso declino o come una tragedia. Quello che ricordiamo di quegli
anni, infatti, sono le tappe della disfatta: lo scoppio della rivoluzione di novembre
nel segno della violenza, il peso del Trattato di Versailles, il debole comportamento
della democrazia alle prese con la rapida ed inaspettata «ondata di destra» (Ernst
Troeltsch), la politica nel segno del binomio amico-nemico e l’inarrestabile avanzata
del movimento nazionalsocialista. Nel «pantheon» delle
tradizioni tedesco-federali non trova posto la Repubblica di Weimar nella sua fase
ascendente ma solo la sua fine, e i suoi punti di fuga sono il giorno della presa del
potere da parte dei nazisti (30 gennaio 1933) e la «giornata di Potsdam» (21 marzo
1933), ma non il giorno della proclamazione della repubblica (9 novembre 1918) e ancor
meno il giorno in cui il presidente del Reich Ebert promulgò la nuova Costituzione (11
agosto 1919). Quanto la prima repubblica tedesca fosse stata espunta dal ricordo
pubblico, basta a provarlo la parabola politica di Otto Braun, che in qualità di
Ministerpräsident tra il 1920 e il 1932 fece della Prussia un
baluardo della democrazia. Ci sono voluti sessant’anni e l’avvicendamento di tre sistemi
politici prima che a Berlino venisse finalmente intitolata una strada
¶{p. 265}a Braun. Il suo ricordo è stato offuscato dal fatto che, ormai
senza più alcun potere, si salvò ritirandosi in
volontario esilio dopo la sua destituzione, avvenuta il 20 luglio del 1932 ad opera del
governo presieduto da Franz von Papen. Ma un analogo destino di oblio è toccato anche ad
altri coraggiosi difensori della repubblica come i ministri degli Interni prussiani
Albert Grzesinski e Carl Severing
[8]
.
2. Il ritorno del ricordo
Malgrado queste evidenze, oggi non
si può dire che la repubblica sia completamente dimenticata; e se nel volto della città
la democrazia di Weimar, a lungo oscurata, è ancora difficilmente riconoscibile, negli
anni scorsi essa si è venuta trasformando nel discorso pubblico in un passato così
presente da divenire un imprescindibile punto di riferimento di dibattiti giornalistici,
mostre in occasione del giubileo e eventi commemorativi. A che cosa si deve un
cambiamento così repentino?
Una prima spiegazione può essere
data dal fascino che sempre esercitano i parallelismi storici. Quanto grande sia nel
dibattito pubblico la preoccupazione per un possibile ritorno di Weimar, lo ha tra
l’altro palesato una mostra allestita nel 2019 dal Museo storico tedesco di Berlino, i
cui curatori non a caso le hanno dato lo stesso titolo – Vom Wesen und Wert
der Demokratie – di un libro di Hans Kelsen pubblicato nel 1920. Il
cartello posto all’ingresso accoglieva i visitatori con queste parole: «Oggi la
democrazia liberale non è più scontata ma è nuovamente in pericolo». Che con questo
chiaro collegamento tra la prima e la seconda repubblica tedesca la mostra abbia colpito
molti visitatori, lo provano le annotazioni che si possono leggere nel libro ad essi
riservato: «Bella mostra, che induce a riflettere su quanto spesso la storia si ripete»,
scrive ad esempio una visitatrice il 10 giugno del 2019. «Una mostra
¶{p. 266}molto bella, che assume un significato ancora molto attuale»,
annota proprio il visitatore successivo, che così si inserisce in uno schema narrativo
storico che mette in guardia dal ritorno di funeste tendenze dell’epoca weimariana e
negli ultimi anni ha visto aumentare in maniera sorprendente la sua forza di attrazione
[9]
. Così come la coalizione weimariana composta da SPD, Zentrum e DDP perse la
maggioranza al Reichstag in seguito all’esito sfavorevole delle elezioni politiche del 6
giugno 1920, anche la Große Koalition della Repubblica federale ha
nel frattempo perso la sua. Soprattutto la rovinosa sconfitta dell’SPD ha indotto a
stabilire un parallelo con quanto avvenne durante la Repubblica di Weimar, allorché
l’SPD passò dal 29,8% del 1924 (elezioni di maggio) al 20,4% del novembre 1932; senza
contare che, non diversamente da oggi, anche nel 1930, con Müller cancelliere, il
partito era nettamente diviso tra i sostenitori di un programma con tratti visionari e
un’ala più pragmatica e attenta al contesto politico. Ancora una volta si trattava della
differenza tra promesse elettorali e scelte dettate dalla situazione reale e, come nel
1930, anche nel 2019 sembra che la base del partito ritenga che esso possa recuperare la
sua credibilità solo prendendo le distanze dal potere.
Il secondo fattore alla base di un
allarmante parallelismo è dato dal sorprendente rafforzamento del populismo di destra,
che nel frattempo ha ulteriormente approfondito, attribuendole nuove forme, la frattura
Est-Ovest, e in Sassonia e Turingia, ma anche nel Meclemburgo-Pomerania Anteriore e
Brandeburgo ha alimentato ampie zone di intimidazione sociale. Grande preoccupazione hanno sollevato nella Berlino politica i
risultati delle elezioni per il rinnovo del Landtag che si sono tenute in Sassonia e
Brandeburgo nel settembre del 2019, elezioni che certo non hanno visto l’AfD
(Alternativa per la Germania) diventare il più forte partito all’Est ma hanno costretto
gli altri partiti a dare vita ad alleanze di scopo che a livello programmatico
presentano pochi punti di interazione. Anche ¶{p. 267}in occasione delle
elezioni tenutesi in Turingia nell’autunno del 2019 l’AfD ha ottenuto un chiaro successo
raddoppiando i suoi voti (che ora assommano al 23,4%), con il risultato, tra l’altro,
che proprio nel Land che nel 1930 fu il primo in cui la NSDAP riuscì ad entrare nel
governo un elettore su quattro ha dato il suo voto ad un partito il cui candidato di
punta, un deciso e dichiarato estremista di destra, civetta disinvoltamente con la sua vicinanza politica al nazionalsocialismo e per
giunta è riuscito a trascinare nel ridicolo il sistema parlamentare dal momento che il
neo eletto Ministerpräsident Kemmerich (FDP) si è visto costretto a
rassegnare le dimissioni ad appena ventiquattro ore dalla sua entrata in carica.
Un parallelo non meno preoccupante
emerge allorché si guarda al di fuori dei confini nazionali. Come nel periodo tra le due
guerre mondiali, l’attuale perdita di validità e appeal della democrazia e dei valori
liberali che ne stanno alla base non è solo un fenomeno tedesco, ma globale. Ovunque si
volga lo sguardo, dall’Ungheria alla Polonia fino all’Olanda, dalla Francia alla
Danimarca, dalla Russia fino agli USA la democrazia liberale appare in ritirata e le
idee correnti di una modernità trionfante vanno di pari passo con il disprezzo del
compromesso come fondamentale principio politico. Il populismo di destra elogia la
democrazia illiberale, che ha in Victor Orbán il suo principale rappresentante, e la
putiniana uprawljajemaja demokratija, vale a dire una «managed
democracy» (formalmente tale ma in realtà guidata), attualmente ha il vento in poppa
grazie alla rinascita del nazionalismo, per il quale la popolazione di uno Stato non è
tanto il demos che si forma con e tramite la Costituzione ma è
piuttosto l’ethnos che preesiste allo Stato.
Ma questi evidenti parallelismi non
bastano a spiegare il rinnovato interesse per Weimar. Ad uno sguardo più approfondito,
infatti, dietro i palesi punti di contatto si celano fondamentali differenze. La
Repubblica di Weimar nacque ‘nella’ sconfitta e non parecchio tempo ‘dopo’ la sconfitta
come la Repubblica federale; la prima dovette reggere il confronto con la grandezza del
passato Impero guglielmino, per la seconda si trattò soprattutto di cogliere l’occasione
per il ritorno ad un normale ordinamento statale. Mentre la prima repubblica
¶{p. 268}tedesca si vide gravare della responsabilità per la sconfitta
patita e dovette anche cercare di affermarsi in un mondo di Stati ad essa ostili, la
seconda venne fondata nel quadro di una organizzazione sovranazionale interessata al suo
rafforzamento in un mondo ormai diviso in due a causa della Guerra fredda. Anche
nell’ambito degli sviluppi interni l’attuale Repubblica federale si distingue in modo
sostanziale dalla repubblica che l’ha preceduta: nel suo ordinamento giuridico essa
infatti fa tesoro delle esperienze weimariane. Inoltre, essa è l’espressione di una
cultura politica che non deve temere l’accanita concorrenza di ideologie e progetti
sociali radicalmente diversi e si distingue per la sostanziale assenza di violenza
politica. Non solo: può contare su uno stabile ordinamento economico-sociale, che a
differenza di quello weimariano è stato in grado di erogare le sue prestazioni sociali
anche in presenza di un massiccio aumento dell’allora minore tasso di disoccupazione,
mentre della assicurazione obbligatoria sulla disoccupazione introdotta nel 1927
potevano beneficiare non più di 800.000 persone rimaste senza lavoro.
Un’altra caratteristica della
Repubblica federale è la presenza di un vasto centro democratico che, anche se
regionalmente differenziato e caratterizzato da un persistente divario città-campagna, è
ben lungi dal dissolversi come invece avvenne negli anni di Weimar. Alla sconfitta
dell’SPD fa da contralto l’aumento dei Verdi, mentre alla crescita del populismo di
destra si contrappone l’apertura della CDU al centro liberale e il graduale inserimento
del partito della sinistra (Die Linke) in un sistema condiviso di valori democratici. Il
potere di coesione del principio democratico è così forte che perfino l’AfD, che si
considera e si presenta come una forza antisistema, non vi si riconosce solo in modo
retorico visto che nel suo programma rende omaggio al «fondamentale principio
democratico della separazione dei poteri»
[10]
, ma interpreta il diritto di partecipazione di tutti gli iscritti al partito
in un modo
¶{p. 269}così radicalmente democratico che i suoi congressi
rischiano regolarmente di affondare nel caos provocato dalle continue richieste di
intervento.
Note
[6] In un caso rimase coinvolto un precedente cancelliere (Gustav Bauer), che venne così sconfessato, nell’altro un potente borgomastro (Gustav Böß). Sul punto cfr. S. Malinowski, Politische Skandale als Zerrspiegel der Demokratie. Die Fälle Barmat und Sklarek im Kalkül der Weimarer Rechten, in «Jahrbuch für Antisemitismusforschung», 5, 1996, pp. 46-64.
[7] V. Wirtz, Flaggenstreit. Zur politischen Sinnlichkeit der Weimarer Demokratie, in M. Dreyer - A. Braune (edd), Republikanischer Alltag. Die Weimarer Demokratie und die Suche nach Normalität, Stuttgart, Franz Steiner, 2017, pp. 51-66, qui p. 52.
[8] Su Severing si veda un recente lavoro di: V. Köhler, Bürokratie, Politik und Klienten. Carl Severing als Patron und Parteigenosse, in M. Dreyer - A. Braune (edd), Republikanischer Alltag, pp. 119-134.
[9] H. Kiesel, Hässlich entstellt in den Untergang. Berlin ist nicht Weimar, heißt es. Zu Recht? Unheilvolle Tendenzen aus der Weimarer Republik kehren wieder. Man darf sie nicht unterschätzen, in «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 15 ottobre 2018.
[10] «Noi anteponiamo il principio dello Stato di diritto, il rispetto dei patti e la legittimazione democratica all’azionismo di corto respiro e alla ricerca del facile effetto per scopi puramente elettorali», in Programm für Deutschland. Das Grundsatzprogramm der Alternative für Deutschland, Stuttgart 2016, pp. 18 s.