La Repubblica di Weimar: democrazia e modernità
DOI: 10.1401/9788815370228/c11
L’eredità problematica della sociologia weimariana In questo testo ho ripreso ampi brani di una versione precedente apparsa, con il titoloLa sociologia in tempi di disorientamento: il caso di Weimar,nella rivista «Sicurezza e scienze sociali», 8, 2020, 1, pp. 19-30
Notizie Autori
Alessandro Cavalli è già professore ordinario di Sociologia, Università degli Studi di
Pavia.
Abstract
Di contro al carattere fortemente deterministico dei numerosi tentativi di
spiegare storicamente le cause che hanno condotto al crollo della Repubblica di
Weimar e successivamente al nazionalsocialismo si pone qui, con gli stessi intenti,
particolare attenzione nei confronti di elementi interni alla società tedesca
stessa, che consentono di gettare uno sguardo differente sulle dinamiche interne al
paese. A tal proposito è di estrema utilità ricostruire le riflessioni del mondo
sociologico di quegli anni, il quale sebbene mostri una certa eterogeneità di
opinioni e una incapacità di fondo nel comprendere i nefasti risvolti del governo di
Weimar, mostra alquanto esplicitamente una volontà riformista e un sostrato
concettuale riconducibile al pensiero sociologico di Max Weber.
1. Il contesto di nascita e affermazione della sociologia in Germania
È significativo che oggi la fine
della Repubblica di Weimar susciti un rinnovato interesse nell’ipotesi che la crisi di
allora possa essere utile per capire la crisi attuale. La comparazione è sempre utile,
purché non ci si dimentichi mai che la storia non si ripete e che ogni tempo-luogo ha le
sue irripetibili specificità.
È facile spiegare perché oggi ha
senso riflettere su Weimar. Vi sono evidenti segnali di crisi delle democrazie:
dall’America di Trump, al Regno Unito della Brexit, alla Turchia di Erdoğan,
all’Ungheria di Orbán e ai suoi alleati del patto di Visegrad, per arrivare all’Italia
dei governi giallo-verde e giallo-rosso. Tutti casi che segnalano processi di
polarizzazione frammentata che ostacolano la formazione di governi capaci di governare
senza intaccare i princìpi democratici. Non c’è Paese, dalla Svezia alla Grecia,
passando per la Francia e la Germania, che non veda l’emergere di movimenti che
minacciano seriamente i valori e le istituzioni della tradizione democratica.
Nel caso di Weimar sappiamo come è
andata a finire. La storiografia ha proposto tante spiegazioni. L’esito è sicuramente il
risultato del concatenarsi di una pluralità di cause o fattori/processi, interni ed
esterni, nessuno dei quali è probabilmente stato quello decisivo. È stata la loro
combinazione a produrre ¶{p. 240}il risultato finale. Le spiegazioni ex
post tendono ad essere marcatamente deterministiche: data la combinazione dei fattori,
il risultato non poteva che condurre all’esito che si è realizzato. Tuttavia,
l’intreccio delle cause e dei fattori che hanno generato i processi sono pur sempre
riconducibili ad azioni/decisioni di attori, individuali o collettivi che avrebbero
potuto fare una scelta diversa, magari in relazione alle situazioni contingenti o
addirittura casuali nelle quali si sono trovati a decidere. Non c’è bisogno di scomodare
Machiavelli per ricordarsi il ruolo che la «fortuna» gioca negli eventi delle società
umane.
È troppo facile risalire alle
«cause» quando si conoscono gli effetti. Per uscire dall’implicito determinismo di molte
spiegazioni storiche possiamo, come peraltro suggerito anche da Weber, fare uso della
spiegazione controfattuale e dello strumento della simulazione: che cosa sarebbe
successo se l’attore A avesse fatto X invece che Y? È la stessa questione che Weber ha
posto chiedendosi che cosa sarebbe stato della nostra civiltà se a Maratona avesse vinto
l’esercito persiano e non quello ateniese.
La storiografia più recente sostiene
che l’esito catastrofico della crisi della repubblica weimariana non era per nulla
scontato. Certo, era difficile evitare che la crisi del 1929 non si ripercuotesse anche
sull’economia europea, e tedesca, la quale dipendeva in modo particolare dai crediti
USA. I fattori esogeni giocavano allora, e ancor più oggi, un ruolo fondamentale. Gli
effetti potenzialmente nefasti (come aveva previsto Keynes) delle sanzioni contemplate
dal Trattato di Versailles erano stati sensibilmente attenuati dai crediti e dalle
commesse che gli Stati Uniti avevano generosamente concesso alla Germania repubblicana,
rendendola però così più dipendente del resto d’Europa dalle vicende della Grande
Depressione. Restava poi la paura che il regime post-rivoluzionario che si era
instaurato nella Russia sovietica avrebbe potuto favorire sviluppi analoghi anche in
Germania. E, inoltre, la percezione diffusa dell’ostilità della Francia, sottolineata
dalla smilitarizzazione della Renania, non rafforzava certo la credibilità dell’esempio
della democrazia francese. ¶{p. 241}
A prescindere dall’annosa e
insolubile questione sul primato della politica estera oppure interna, dobbiamo comunque
chiederci: quali erano i fattori interni, endogeni, alla società tedesca di allora,
quali erano gli attori, le loro decisioni, i loro orientamenti, le loro strategie che
hanno contribuito (oppure avrebbero potuto ostacolare), a che il corso della storia
assumesse una direzione così infausta? Che peso hanno avuto le norme previste dalla
nuova Costituzione repubblicana che replicavano, sia pure attenuandoli, alcuni
fondamenti già presenti nel Reich bismarckiano-guglielmino? Che ruolo hanno svolto le
formazioni paramilitari che si erano mantenute attive dopo la fine della Grande Guerra?
Come mai la nuova repubblica non è mai riuscita a realizzare un completo monopolio della
violenza? Che peso hanno avuto le spaccature all’interno del movimento operaio e delle
sue formazioni partitiche? E la tradizionale divisione tra la Germania protestante e
quella cattolica?
La storiografia sulla vicenda
weimariana ha cercato di dare delle risposte più o meno convincenti a queste domande. È
forse utile chiedersi se si può ricavare qualche indicazione andando a vedere che cosa
facevano e che cosa pensavano i sociologi d’allora. Quale era la loro immagine della
società tedesca nella quale vivevano, quali le dinamiche che individuavano, ma anche
quali erano gli strumenti teorici e metodologici con i quali operavano, le loro attese e
i loro punti di vista. I contemporanei sono in un certo senso dei testimoni privilegiati
della società nella quale vivono, anche se, come è ovvio, le loro testimonianze ci
servono oggi solo come documenti, come fonti significative da utilizzare con occhio
critico. Sappiamo bene che essere immersi in una data realtà da un lato facilita, ma
dall’altro ostacola lo sguardo: i testimoni diretti non sono necessariamente dei
testimoni attendibili, la distanza dai fatti è spesso, anzi quasi sempre, preferibile
alla prossimità.
Allora in Germania c’era già una
sociologia abbastanza robusta anche se non ancora pienamente istituzionalizzata nel
sistema accademico
[1]
. C’è qualcosa nella sociologia praticata in epoca
¶{p. 242}weimariana che ci può offrire o almeno suggerire qualche pista
per capire le dinamiche e le turbolenze di quella società?
Non ci sono molti studi sulla
storia della sociologia tedesca di quell’epoca
[2]
: l’età della fondazione collocata grosso modo nei decenni a cavallo tra i
secoli XIX e XX era ormai passata. Nel 1904 Sombart, Weber e Jaffé erano subentrati alla
direzione dell’Archiv für Soziale Gesetzgebung und Statistik (noto come «Brauns Archiv»)
cambiandone il nome in Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik, nel 1910 era
stata fondata la DGS (Deutsche Gesellschaft für Soziologie) per dare sostegno e
visibilità a una scienza che voleva marcare la distinzione con le discipline normative
fondate su giudizi di valore. Tra le quattro figure di spicco artefici della fondazione,
due erano morte quando la Grande Guerra era ancora in corso o appena terminata (Georg
Simmel e Max Weber), Max Weber fece in tempo a partecipare alle discussioni sulla
Costituzione di Weimar e gli altri due (Ferdinand Tönnies e Werner Sombart)
sopravvissero, attraversarono il breve periodo della repubblica e fecero in tempo a
vederne anche la fine.
I sociologi attivi durante Weimar
possono essere classificati ex post a seconda della posizione che avrebbero assunto
successivamente nei confronti del nazionalsocialismo: alcuni ne divennero più o meno
esplicitamente degli apologeti
[3]
, altri si ¶{p. 243}rifugiarono nell’esilio interno
[4]
, altri ancora furono costretti a lasciare la Germania
[5]
.
2. Segnali di crisi annunciata
Da un certo punto di vista la
corrente più «interessante» è costituita da coloro che hanno anticipato prospettive che
si trovavano più o meno in sintonia con i movimenti anti-modernisti, anti-industriali di
fine Ottocento ed anche coi movimenti eversivi che si erano affermati nel primo
dopoguerra. Non si trattava solo di movimenti tradizionalisti e conservatori di stampo
aristocratico, ma anche di movimenti, come i Wandervogel che
rivendicavano l’esigenza di un ritorno alla natura. Risale a questi orientamenti l’idea
di una «rivoluzione conservatrice» per designare una tendenza radicata nel pensiero
politico/filosofico e nei ceti sociali della piccola proprietà contadina e in genere in
quegli strati della società che avevano subito le trasformazioni indotte da una
rivoluzione industriale di inaudita e rapida intensità. Nel loro pensiero si ritrovano
echi nostalgici di un ordine sociale che è stato sconvolto e di cui si auspica la
restaurazione.
Anti-capitalismo,
antri-industrialismo, anti-liberalismo, anti-parlamentarismo, anti-razionalismo, il
tutto accompagnato poi da un altro anti e cioè dall’antisemitismo sono i tratti
distintivi di questa corrente di pensiero. Potremmo chiamare questa una sociologia
anti-weberiana, pensata, esplicitamente in qualche
¶{p. 244}caso, o
implicitamente in molti altri, per marcare la distanza da una sociologia che proponeva
di tenere separati i giudizi di valore dal lavoro scientifico.
Note
[2] I. Gorges, Sozialforschung in der Weimarer Republik 1918-1933, Frankfurt a.M., Hain Verlag, 1986. Si veda anche lo «Jahrbuch für Soziologiegeschichte», pubblicato da Leske & Budrich dal 1992 in poi. Si vedano però anche gli scritti coevi di Karl Mannheim citati in seguito.
[3] O. Rammstedt, Deutsche Soziologie, 1933-1945: Die Normalitat einer Anpassung, Frankfurt a.M., Suhrkamp Taschenbuch Wissenschaft, 1986. Il lavoro di Rammstedt è illuminante per cogliere continuità e discontinuità tra Weimar e il nazionalsocialismo. Sul tema della continuità si veda anche: C. Klingemann, Zur Begründung der Nachkriegssoziologie in Westdeutschland: Kontinuität oder Bruch?, in C. Honneger et al. (edd), Grenzlose Gesellschaft?, Opladen, Leske & Budrich, 1989, pp. 131-138. Dello stesso autore non ho potuto tener conto del recentissimo Soziologie im Deutschland der Weimarer Republik, des Nationalsozialismus und der Nachkriegszeit. Der schwierige Umgang mit einer politisch-ideologisch belasteten Entwicklungsphase, Wiesbaden, Springer, 2020. In Italia manca tuttora uno studio accurato della sociologia durante il periodo fascista. Per il periodo precedente il fascismo, A. Pusceddu, La sociologia positivistica in Italia 1880-1920, Roma, Bulzoni, 1989.
[4] Il personaggio di maggiore spicco fu certamente Ferdinand Tönnies, ma vanno ricordati anche Alfred Weber, Leopold von Wiese, Alfred Vierkandt, oltre a Werner Sombart che però si colloca nella zona incerta di vicinanza e lontananza dal regime.
[5] Coloro che dovettero lasciare la Germania erano quasi tutti di origine ebraica: Norbert Elias, Karl Mannheim, Max Horkheimer, Theodor Adorno, Siegfried Kracauer. Theodor Geiger invece non era di origine ebraica ed emigrò prima in Danimarca e poi in Svezia in quanto esponente della socialdemocrazia e oppositore del regime.