Stefano Daniele
Il chierico, il medico, il santo
DOI: 10.1401/9788815412072/c2
Sin da che io era figliuolo in Roma ed ebbi ispirazione di farmi religioso di quest’ordine de’ Chierici Regolari Minori, alcuni mesi prima che incominciai a trattare col padre Giuseppe Ricci nella casa e chiesa di San Lorenzo in Lucina e con altri padri per il mio ingresso e vestizione, sentii da medesimi discorrermi e nominarmi il venerabile padre Francesco Caracciolo, narrandomi generalmente le gran virtù colle quali visse ed i miracoli e le grazie da Dio fatte per i suoi meriti, e dandomi a leggere anche la sua vita per maggiormente infiammarmi ad accettar l’istituto et ad imitarlo; e, poi, entrato in religione, non vi è stato religioso che
{p. 90}non me ne abbia parlato, e precisamente il maestro de’ novizi padre Francesco Landulfo, che ne teneva particolari discorsi delle medesime virtù del venerabile padre per l’istesso fine di esortarci ad imitarlo, non potendone individuare le volte che me n’è stato parlato, essendo difficile a raccoglierne il numero [66]
.
E lo studente Filippo Ruoti continuava a tratteggiarne il quadro:
Sin da che io avessi l’abito religioso, nell’età mia di tredici anni, ho inteso nominare continuamente fin oggi da padri e fra padri della mia Religione il venerabile servo di Dio padre Francesco Caracciolo; ed il primo di essi fu il maestro de’ novizi, Andrea Citarelli, in occasione di istruirci delle Regole e degli istituti da lui prescritti per l’osservanza che da noi se li doveva dare, e per imitare le di lui virtù. Ed alle volte facendoci leggere la sua vita, la quale anche ogni tanto tempo si legge in refettorio, ed alle volte raccontandosi fra noi i miracoli [67]
.
E confermava padre Ricci: «fatto poi religioso, quasi non è mancato giorno che non ne ho avuto colloquio, o in questa casa, o nelle altre di Roma, ove per qualche tempo ho stanziato, oltre la lettura della di lui vita più volte fatta in refettorio» [68]
. Domenico Messina, amico di Carlo, aggiunse addirittura che spesso: «se ne prendean i processi per la sua beatificazione» [69]
. È chiaro che il nome del servo di Dio accompagnasse in modo ossessivo le fasi della giornata, quindi della vita dei Chierici Regolari Minori di Napoli. Dall’entrata in noviziato sino alla morte, quando, nel corso delle celebrazioni funebri, l’officiante avrebbe senza dubbio trovato il modo di citare un motto o rimembrare un episodio della vita del fondatore dell’ordine. Francesco Caracciolo era servito in tutte le salse; anche a cena, dove le minestre erano accompagnate dalla lettura di stralci agiografici. E, come se ciò non bastasse, si rammenti che, la mattina dell’11 agosto, Gomez «infiamm[ò] maggiormente colle sue insinuazioni» il giovane {p. 91}«dicendo[gli] che si raccomandass[e], ed avess[e] fiducia a detto venerabile padre» [70]
. Non crea meraviglia, dunque, che in tutto quel parlare di Francesco; nel visualizzarne l’effigie e pregarlo ardentemente, Carlo fosse giunto a sognarlo. Così si sarebbe tentati di spiegare oggigiorno una simile dinamica; e, al netto delle differenze, similmente la spiegava Pomponazzi nella prima età moderna, in parte facendo ricorso alla teoria delle capacità ritentive dell’immaginazione, in parte lanciando uno sguardo inedito, da antropologo culturale. Si volga la memoria per un solo istante al già citato miracolo (o prodigio, a seconda dei punti di vista) che nel giugno del 1520 interessò i cieli dell’Aquila. Con queste parole, Guido Giglioni restituisce l’esegesi del peripatetico mantovano:
Pomponazzi non escludeva la possibilità che la percezione degli abitanti dell’Aquila si presentasse già carica di aspettative ereditate dalla loro particolare storia culturale. Gli Aquilani vedevano san Celestino in cielo così come i Bolognesi avrebbero potuto vedere san Petronio, e così come gli Ebrei vedevano eserciti ebrei e i Romani eserciti romani [71]
.
L’elenco potrebbe continuare con i caracciolini, i quali non avrebbero potuto vedere altri che Caracciolo. Adattando al caso dei chierici di Napoli il dettato dello studioso, si potrebbe sostenere che il sogno – il firmamento per i devoti dell’Aquila – «diventava allora il grande schermo su cui gli individui [...] proiettavano il loro immaginario collettivo» [72]
.
Tuttavia, Carlo, per primo, fu scettico in merito a una simile interpretazione. Nonostante un iniziale tentennamento, ribadì che così non poteva essere andata. Confessò, infatti, che al risveglio avrebbe voluto «fare esperimento se fosse stata vera visione in sonno, o effetto della mia fantasia, colla quale avevo principiato a dormire per le veementi preghiere, che precedentemente avevo drizzate al venerabile padre Francesco Caracciolo per la mia salute» [73]
. È quanto dettò {p. 92}nel primo interrogatorio. Anche se, l’indomani, convocato per la seconda volta dinanzi ai giudici, risolse:
nel sonno non mi si fece avanti la mia fantasia, se non un padre dell’istesso aspetto del suo ritratto, che io sappia; le parole da lui proferitemi, le mie istanze fatteli per la sanità, ed il precetto da lui fattomi di alzarmi, per che ero già sano, sono per me una pruova sicura che la grazia che io ricevei in quell’istante non l’ebbi se non per intercessione, e per gli di lui meriti dalla divina bontà [74]
.
Si era trattato di miracolo: così fissò. La dichiarazione, però, non poteva essere accettata a cuor leggero. Restavano troppe zone d’ombra; in altre parole, la possibilità che la guarigione fosse avvenuta per via naturale era dietro l’angolo. Per questo, il medico Vincenzo de Iorio passò al vaglio tutte le strade del caso per provare a venirne a capo.

3. La perizia del medico ordinario

Al risveglio, de Vivis volle discendere nel sepolcro della chiesa, sotto il coro dell’altare, dove da quasi un secolo erano riposti i resti del padre fondatore della casa. Smaniava dal desiderio di ringraziare chi – ora sosteneva – lo avesse salvato; o, perlomeno, di rendere onore a quel che di esso restava. Carlo Porcelli, il sotto infermiere, portò l’istanza al padre provinciale, Francesco Maria Giovo, che si mostrò contrariato. Impose all’entusiasta: «che non foss[e] escito di stanza se non fosse prima venuto il medico» [75]
. Voleva vederci più chiaro. Capire se la visione, quindi la guarigione, fosse da ascriversi alla fantasia del risanato o a Dio, per intercessione del suo servo. Era l’11 agosto 1752.
Di lì a qualche ora, il medico Vincenzo de Iorio arrivò. Era ormai sera. Salì le scale e guadagnò la cella dove, pochi giorni prima, aveva fatto rintanare l’ammalato: date le sue condizioni, supponeva che potesse rappresentare un potenziale focolaio di contagio. Pericoloso. Che, lasciando {p. 93}il paziente nel dormitorio del professorio, questi avrebbe potuto contagiare i compagni di stanza e i fratelli più anziani che gli facevano visita [76]
. Anche il primo infermiere, Giovanni Maria Pignelver, che non era certo a digiuno di cognizioni mediche, ipotizzò che la causa del morbo che tormentava il più giovane confratello potesse ascriversi, essa stessa, a contagio. A un’infezione diffusasi tra le mura della Pietrasanta. D’altronde, l’epidemia non avrebbe potuto aprirsi altre vie di propagazione, considerato che, come illustrerà un compagno di Carlo: «essendo chierico studente, e sotto la cura del prefetto, non mi è permesso di trattare con secolari, ed uscire se non con lui, e con gli altri miei compagni chierici per esercizio, e per respirare un poco di aria di campagna» [77]
. Così, il primo infermiere non escludeva
che abbia probabilmente potuto dipendere la prima caduta [...] dall’infezione contratta da un altro chierico chiamato di Casato Castagnola, che se ne morì tisico marcio, e la recidiva anche dall’infezione che poté contrarre dall’altro chierico sopranominato Ignazio Guardati, a cui continuamente assisteva mentre era infermo; e questa recidiva comparve colli stessi sintomi della prima indisposizione [78]
.
Si ripercorrano questi ultimi tramite il resoconto, stringato e preciso, che l’amico di Carlo, Domenico Messina, fornì ai giudici: «gran vomito di sangue buttato per bocca e per secesso e per un battimento, e dolore di petto, gran tosse, febbre, accenzione di gote e difficoltà grande di respiro» [79]
. A differenza dei due confratelli marcescenti, però, de Vivis non era affetto da «semplice sputo di sangue di tisicia» [80]
, come l’infermiere maggiore osservò. Dal canto suo, de Iorio aveva parlato di «emotisi polmonaria [...] con la total corruttela della sostanza de’ polmoni e delle viscere che vi si attaccano» [81]
. O, almeno, questo era stato riferito all’in{p. 94}fermiere Pignelver dal giovane. E, in effetti, quest’ultimo aveva vomitato pezzi di membrana, biancastra e gelatinosa, assieme a sangue nero e marcio; altro sangue, poi, aveva espulso per secesso.
Quando la sera dell’11 agosto de Iorio valicò la porta della cella, il coro dei frati si aprì, facendogli varco. Guadagnò il tavolaccio su cui il ragazzo sedeva. Lo stesso ragazzo a cui il medico, la sera prima, aveva pronosticato la morte. Certa. Ne attese il racconto, del «modo e le circostanze colle quali io era miracolosamente guarito», dirà Carlo [82]
. A quel punto, l’ordinario lo scrutò «con molta maraviglia» [83]
. Gli tastò il polso, misurò i battiti; gli frizionò il petto e salì, tenagliandogli le guance. Domandò se l’affanno che lo appesantiva persistesse; se patisse tuttora difficoltà di respiro. Ottenne risposta negativa. Appurato ciò, si scostò alla ricerca del vaso da notte. Guardò oltre la bocca del pitale, sul fondo, per studiarne il contenuto: le feci che il giovane aveva deposto a visione avvenuta. Nessuna traccia di muco, men che meno di sangue. «Naturalissime!», gorgogliò. E riportò a galla la pinna nasale [84]
.
Lo ritrovai così perfettamente sanato da tutti e qualsivogliano sintomi precedenti immediatamente, che stando fuor di letto con calore vegeto e sano, senza febre, come li osservai ne’ polsi senza battimento di petto, come anche lo toccai, e senza difficoltà di respiro, che io rimanendone ammirato, perché né per regola di arte, né per conjetture per opera di fantasia, poteva seguire la di lui curagione così istantanea come io osservai; così perfetta senza un evidente prodigio del Creatore [85]
.
È quanto il medico sosterrà a un anno di distanza dall’accaduto; all’abboccamento di martedì 13 marzo 1753.
Quella sera, invece, nel ridiscendere le scale al fianco del lettore Giovanni Battista Gomez, si limitò a bisbigliare: Mirabilis Deus in sanctis suis, pescando un passo dai Sal
mi (67, 36) [86]
. Era un uomo di scienza, de Iorio, sebbene in giovinezza fosse stato «uno dei Fratelli Aggregati nella congregazione de’ studenti nel Collegio Massimo de’ Gesuiti in questa Città» [87]
.
Note
[66] Ivi, ff. 44v-45r.
[67] Ivi, ff. 109v-110r.
[68] Ivi, f. 97r.
[69] Ivi, f. 131r.
[70] Ivi, f. 53r.
[71] G. Giglioni, Il cielo sopra l’Aquila. Pietro Pomponazzi su immaginazione e devozione popolare, cit., p. 278.
[72] Ibidem.
[73] AAV, Cause dei Santi, Processus 1895, f. 49r.
[74] Ivi, f. 54r.
[75] Ivi, f. 49v.
[76] Ivi, f. 103v.
[77] Ivi, f. 139r.
[78] Ivi, f. 89v.
[79] Ivi, f. 131v.
[80] Ivi, f. 91r.
[81] Ibidem.
[82] Ivi, f. 49v.
[83] Ibidem.
[84] Ibidem.
[85] Ivi, f. 70r.
[86] Ivi, f. 204r.
[87] Ivi, f. 68v. Cfr. M. Errichetti, L’antico Collegio Massimo dei Gesuiti a Napoli (1552-1806), in «Campania Sacra», 7 (1976), pp. 170-264.