Stefano Daniele
Il chierico, il medico, il santo
DOI: 10.1401/9788815412072/c2
Chi pregasse era un altro degli interrogativi da chiarire al più presto. I testimoni tentennarono a tal riguardo. Asserirono qualcosa, sì, ma non senza riserve. Il lettore di filosofia, sempre lui, balbettò: «né so quali orazioni avesse premesso o che continuava a fare verso il venerabile servo
{p. 85}di Dio» [43]
. E il sotto infermiere Porcelli, che vegliò a lungo accanto al corpicino, similmente affermò: «non potendomi ricordare precisamente le parole e le preghiere colle quali si raccomandava» [44]
. Tagliava corto Pignelver: «né sentii proferire da lui o orazione o giaculatoria verso il venerabile padre» [45]
. Non doveva essere semplice decifrare – figuriamoci ricordare – quei sussurri, ora rantoli, ora lamenti. Sicché l’amico di Carlo, Filippo Ruoti, si sincerava: «che [l’allettato] non troppo poteva bene articolare» [46]
. Si limitarono ad affermare: «mi disse, che ci havea tutta la fiducia e tutta la speranza» e «disse che fervidamente si raccomandò a lui con fede viva» [47]
. Queste le deposizioni, rispettivamente, del lettore Giovanni Battista Gomez e del chierico Giuseppe Maria Ricci. Per fortuna, il prefetto poté tranquillizzare i giudici a nome di tutti: «udiva da bocca sua, che si raccomandava a’ detto servo di Dio, e mi disse che si havea della fede» [48]
.
Che così fosse o meno, molti giuravano di averlo fatto raccomandare al padre caracciolino. Pignelver: «lo rincorava a confidare per la sua salute al detto venerabile fondatore, rispondendomi: “padre sì, padre sì”» [49]
; Pigna: «io maggiormente ce lo animavo» [50]
; lo stesso Carlo, come visto, ricorderà a proposito del professore di filosofia: «la stessa mattina delli undeci di agosto, essendo venuto a ritrovarmi fra gli altri il padre lettore, mi infiammò maggiormente colle sue insinuazioni, dicendomi che mi raccomandassi ed avessi fiducia a detto venerabile padre» [51]
. Quel che è certo è che: «non mi ricordo precedenti alcune orazioni che dissimo tutti genuflessi unitamente coll’infermo sottovoce» [52]
, risolse il compagno di studi di Carlo, Filippo Maria Ruoti. Nonostante {p. 86}tutto, questo mosaico di voci poteva essere tenuto assieme in modo stabile e credibile dalla confessione del de Vivis; la prima che i giudici, lo si ricordi, ascoltarono. Così depose il giovane: «sino a che mi alzai da letto dopo la visione in sogno, fra questo tempo, oltre qualche orazione vocale fuor delle già dette internamente e spesse fiate, mi raccomandavo a detto venerabile padre, perché intercedesse presso il Signore per la mia salute» [53]
. Quali fossero le preghiere, Carlo lo confesserà solo nel corso del processo romano del 1761, a distanza di quasi dieci anni: «recitando in tal atto tre Pater et Ave alla Santissima Trinità, raccomandandomi al detto servo di Dio, che mi restituisse la sanità» [54]
. In sintesi, aveva stretto con l’immagine del fondatore un pari chrétien – avrebbe chiarito lo storico Giuseppe Galasso: «una scommessa cristiana che può essere giocata in ogni circostanza, anche estrema, della vita» [55]
.
Si giunse, così, alla visione. «La visione in sogno», come Carlo la nominava nella lingua di testo precedentemente letta. Così, nel secondo interrogatorio, egli descrisse la dinamica:
addormentato, mi comparve coll’istesso viso che anche di sopra ho deposto, col quale vi è il ritratto in Roma, il detto venerabile padre mi disse: «tu mi hai chiamato, eccomi, che ti occorre?». Ed avendogli io risposto che desideravo la sanità, ed avendomi egli replicato, nell’istesso sonno, che il mio male era mortale, ma che in quel punto io già ero sano, e che mi alzassi ed ubbedissi [56]
.
La sagoma apparsagli in sogno aveva «l’istesso viso» di un ritratto del servo di Dio custodito nel monastero dei Chierici Regolari Minori di Roma – precisamente, sulla parete al primo pianerottolo delle «scale maggiori» – dove il giovane era entrato all’età di 14 anni e aveva vestito l’abito dell’ordine [57]
. Lo aveva già ricordato alle autorità il giorno prima: «mi comparve con il sembiante simile a quello che {p. 87}io ne aveva l’idea di ritratto della nostra casa di Lorenzo in Lucina di Roma» [58]
. Così aveva risposto ai giudici. Di là dal comprendere se a causare l’apparizione fossero stati «apostoli, vescovi, martiri, confessori, vergini e altri santi, o demoni sotto mentite spoglie», preoccupazione invalsa soprattutto nella prima età moderna, come documenta ampiamente Stuart Clark – sebbene non era tanto che Prospero Lambertini (1675-1758) avesse aggiornato i criteri da seguire in materia di visioni e apparizioni nel suo più recente manuale di canonizzazione (lib. III, capp. 51-52) – la posta in gioco era piuttosto determinare l’identità dell’operatore miracoloso [59]
. E circa questo aspetto, de Vivis si mostrava risoluto: ad apparire non poteva essere altri che Francesco Caracciolo. Ribadirà nel secondo interrogatorio:
né altra ragione o causa di scienza, oltre le già descritte, so e posso assegnare, che chi mi comparve nel sonno fosse stato il venerabile padre Francesco Caracciolo e non altro, poiché io in veglia a lui mi raccomandavo, per i di lui meriti pregavo il signore, nel sonno non mi si fece avanti [...] se non un padre dell’istesso aspetto del suo ritratto [60]
.
In generale, l’insistenza con cui i giudici cercavano di appurare l’intervento del servo di Dio nell’ambito di una guarigione miracolosa era ossessiva, se non a tratti stravagante. Lo testimonia un altro caso, indagato nel corso dello stesso processo super miraculis del 1753, che vede protagonista la già citata Antonia Niglio, «moglie di mastro Petro Feola di professione cappellaro» [61]
. In breve: Antonia si era ammalata gravemente. Affebbrata, i medici le avevano confermato la {p. 88}sentenza di morte. Senonché, un caracciolino della Pietrasanta, tale padre Mauro, donò al cappellaio un’immaginetta di Francesco e gli consigliò di affidarsi al servo. Così fece. Una notte, esaurite le consuete giaculatorie, il marito sognò Caracciolo annunciargli la guarigione della sposa. Al risveglio, la donna era sana e salva. Pietro riferì l’accaduto al padre Paragallo, della casa di Santa Maria Maggiore, che chiese delucidazioni circa l’identità della sagoma apparsagli in sogno. Su due piedi, il visionario non seppe rispondere. Allora, il frate cacciò fuori dalla tunica cinque immagini di servi di Dio e chiese all’uomo se riuscisse a individuare, tra quelle, chi gli avesse fatto visita durante la notte. Si ascoltino direttamente le parole di mastro Feola:
Il suddetto padre, volendo sapere in qual aspetto mi comparve, ed io non sapendolo descrivere, egli cavò fuori da sotto l’abito da cinque a più figure di servi di Dio dell’istesso abito del suo ordine e, doppo di averne io vedute alcune che non erano del sembiante della figura datami dal padre Mauro, né di cui in quello il venerabile padre mi comparve in sonno, ma come io fossi stato vegliante, venendomi sotto gli occhi altra [...] dissi: «fermate padre, questa è simile a quella che mi portò il padre Mauro», ch’era appunto l’effigie del venerabile padre Francesco Caracciolo fondatore, siccome il venerando padre Paragallo mi confermò [62]
.
Una scena da romanzo poliziesco. Chez Simenon, à la Scerbanenco; come nel Pasticciaccio giallo, aureo barocco, dell’Ing. Gadda [63]
. Dove un investigatore con i nervi esasperati, e un divorzio alle spalle, schiaccia sul naso del testimone le foto segnaletiche dei sospettati. Il fascio di luce di una lampada da scrivania taglia il buio e inazzurra la stanza; l’aria è pregna di caffè e fumo di sigarette. Nel caso di Carlo, l’identikit fu sbozzato in modo rapido e deciso. E che il giovane parlasse in fede, lo provarono altri due padri. Così, almeno, udirono pronunciare per bocca del ragazzo: {p. 89}«mi disse che il venerabile padre li comparve in quel sembiante che sta’ dipinto nel quadro della scala, nella nostra casa in San Lorenzo di Lucina di Roma» convalidò il lettore di filosofia, Giovanni Battista Gomez [64]
; padre Pignelver, invece, provò ad annodare tra loro alcuni indizi in una più articolata ragnatela di deduzioni: «egli lo ravvisò per il nostro fondatore nella suddetta apparizione, a cagion che ne aveva viva l’idea tratta da tante immagini del medesimo, che sono in questa nostra casa ed in quella di Roma ov’egli è stato, e specialmente da quella figura che aveva in carta su del suo petto» [65]
. Difatti, al quadro di Francesco, che col suo sguardo vegliava dalle scale del cenobio romano, il padre affiancava altre possibili fonti di ispirazione: le immagini del venerabile che, pare, tappezzassero i corridoi, le stanze, le pareti della Pietrasanta e dell’annesso monastero; quindi l’effigie in carta che il giovane teneva sul comò del professorio e che, la mattina dell’11 agosto, si era fatto recapitare nella nuova cella, per porsela sul petto. Al fondo, la testimonianza di Pignelver riferiva un dato di non trascurabile importanza: pochi altri servi di Dio avrebbero potuto apparire in sogno a Carlo; poiché lo spazio cultuale in cui quest’ultimo era immerso, a Santa Maria Maggiore come, in precedenza, nella casa romana di San Lorenzo in Lucina, era interamente occupato da Francesco. Francesco Ascanio Caracciolo: una presenza ingombrante. Del venerabile, difatti, se ne parlava ossessivamente. Ne dava fede lo stesso de Vivis:
Sin da che io era figliuolo in Roma ed ebbi ispirazione di farmi religioso di quest’ordine de’ Chierici Regolari Minori, alcuni mesi prima che incominciai a trattare col padre Giuseppe Ricci nella casa e chiesa di San Lorenzo in Lucina e con altri padri per il mio ingresso e vestizione, sentii da medesimi discorrermi e nominarmi il venerabile padre Francesco Caracciolo, narrandomi generalmente le gran virtù colle quali visse ed i miracoli e le grazie da Dio fatte per i suoi meriti, e dandomi a leggere anche la sua vita per maggiormente infiammarmi ad accettar l’istituto et ad imitarlo; e, poi, entrato in religione, non vi è stato religioso che
{p. 90}non me ne abbia parlato, e precisamente il maestro de’ novizi padre Francesco Landulfo, che ne teneva particolari discorsi delle medesime virtù del venerabile padre per l’istesso fine di esortarci ad imitarlo, non potendone individuare le volte che me n’è stato parlato, essendo difficile a raccoglierne il numero [66]
.
Note
[43] Ivi, f. 203r.
[44] Ivi, f. 65v.
[45] Ivi, f. 92r.
[46] Ivi, f. 116v.
[47] Ivi, f. 203r e f. 104v.
[48] Ivi, f. 218v.
[49] Ivi, f. 92r.
[50] Ivi, f. 216v.
[51] Ivi, f. 52v.
[52] Ivi, f. 116r.
[53] Ivi, f. 53r.
[54] AAV, Cause dei Santi, Processus 1896, f. 79r.
[55] G. Galasso, L’altra Europa, cit., p. 73.
[56] AAV, Cause dei Santi, Processus 1895, ff. 53v-54r.
[57] AAV, Cause dei Santi, Processus 1898, f. 57v.
[58] AAV, Cause dei Santi, Processus 1895, f. 48v.
[59] S. Clark, Vanities of the Eye. Vision in Early Modern European Culture, Oxford, Oxford University Press, 2007, p. 209 e, in generale, pp. 161-235. Per una «epistemologia del sogno», cfr. pp. 300-328; DSDB, vol. III (d’ora in avanti, tutte le traduzioni relative a questo volume saranno tratte da P. Lambertini [Benedetto XIV], La Beatificazione dei Servi di Dio e la Canonizzazione dei Beati, 4 voll. (8 pt.), Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2010-2018).
[60] AAV, Cause dei Santi, Processus 1895, f. 54r.
[61] Ivi, f. 20r.
[62] Ivi, f. 153v.
[63] C.E. Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Milano, Garzanti, 1957, pp. 200-203.
[64] AAV, Cause dei Santi, Processus 1895, f. 203v.
[65] Ivi, f. 92v.
[66] Ivi, ff. 44v-45r.