Stefano Daniele
Il chierico, il medico, il santo
DOI: 10.1401/9788815412072/c2
verso le ore incirca della stessa mattina, dormendo, gli comparve il predetto venerabile padre Francesco Caracciolo e gli disse le seguenti, o altre simili, parole: «tu mi hai chiamato, eccomi, che ti occorre?». Alle quali parole rispose: «la salute del corpo, se a voi piace»; al che il servo di Dio replicò: «sappi che il tuo male era mortale, ma al presente sei sano; su alzati, obbedisci...» [20]
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È evidente che, prima di verificare l’effettività dell’evento soprannaturale, l’obiettivo dei commissari fosse quello di appurare la corrispondenza tra la sagoma apparsa in sogno e la persona storica di Francesco Caracciolo. Che il miracolo, dunque – della cui autenticità le autorità proponenti dovettero esserne già persuase – fosse riconducibile, solo e soltanto, al padre fondatore dei Chierici Regolari Minori. Va da sé: qualora il prodigio celeste fosse realmente accaduto per intercessione di Francesco, la fama di santità di quest’ultimo ne sarebbe uscita rafforzata. Finalmente acclarata, la guarigione avrebbe concesso a Caracciolo di compiere un passo in più verso gli onori dell’altare. Che tale fosse l’intento ultimo dei caracciolini, Carlo non lo nascondeva. Non senza un certo candore, riportò ai giudici le parole che il lettore di filosofia, Giovanni Battista Gomez, gli sussurrò al capezzale:
mi infiammò maggiormente colle sue insinuazioni, dicendomi che mi raccomandassi ed avessi fiducia a detto venerabile padre, perché vi era anche il suo interesse a farmi questa grazia prodigiosa, poiché, con questo miracolo che avrebbe fatto nella mia persona, egli sarebbe canonizato con maggior sicurezza [21]
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Era il 1752 e, a quella data, altri sette processi, ordinari e apostolici, super virtutibus e super miraculis, si erano già conclusi a Napoli. Nonché, di otto dei miracoli compiuti dal candidato e proposti dai postulatori al «saggio giudizio de’ dotti Consultori», la Santa Sede era sul punto di avallarne due [22]
. Difatti, col decreto del 19 settembre dello stesso anno, Benedetto XIV «si compiacque [...] di approvare, degli otto proposti miracoli, due soli in terzo genere; seguiti nella persona di Gennaro Cappello e di Filippo Rubinacci» [23]
. Con «terzo genere» (quam modum) la teologia intende le guarigioni istantanee (o rapide) a fronte di una prognosi nefasta; malattie che l’arte medica avrebbe pure potuto curare, ma in modo diverso, richiedendo tempi più lunghi, {p. 81}ad esempio. Come aveva sistematizzato Tommaso d’Aquino nella Summa theologiae (I, q. 105, a. 8), quando «un fatto può superare le forze della natura [soltanto] per il modo e per il procedimento con cui è prodotto: come quando, per esempio, uno guarisce istantaneamente dalla febbre per virtù divina, senza cure e fuori del decorso normale della malattia in casi simili» [24]
. Come il celere ristabilimento di Rubinacci (occorso dopo tre giorni), il giardiniere del convento di San Giovannello che riportò gravi fratture craniche e al femore per «la caduta fatta da un tetto, o solaro, sopra un piano terra» [25]
. Ne faceva cenno Carlo de Vivis, a qualche mese di distanza dalla pubblicazione del decreto; cosciente – proseguiva – «che il nostro venerabile padre Francesco Caracciolo abbia fatto due miracoli» [26]
. Tuttavia, solo l’infermiere Carlo Porcelli, da quanto è dato leggere nella documentazione processuale, affermava recisamente: «ne fossero stati approvati due soli dalla Santa Sede» [27]
. Ma lo ripeteva a orecchio, tanto che «non [sapeva] darne ragione, né descrivere le circostanze» [28]
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Sebbene a questa data non fosse ancora possibile dar per assodata la santità di Caracciolo, strada se ne era fatta dalla sua morte, nel 1608; dal veto che la Santa Sede impose ai fedeli, nel 1629, contro le celebrazioni in onore del non ancora beato; dal primo processo napoletano super fama, del 1676. Almeno due generazioni di devoti continuavano ad attendere. La loro pazienza doveva essere esasperata, ma non la speranza di vedere quanto prima coronato il loro desiderio. Come emerso dalle succitate raccomandazioni di Giovanni Battista Gomez, quella restava dura a morire. E tale si tramanderà alle generazioni a venire, fino all’alba {p. 82}del secolo successivo, quando finalmente Francesco sarà canonizzato: il 24 maggio del 1807, sotto il pontificato di Pio VII, mentre sedeva sul trono napoletano Giuseppe Bonaparte, fratello maggiore di Napoleone [29]
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Che nel 1753, al tempo del processo super miraculis, l’intento delle autorità fosse quello di verificare la corrispondenza tra il soggetto dell’immagine, il destinatario della preghiera e l’identità della sagoma nella visione – affinché la sanazione potesse essere attribuita senza riserve a Caracciolo – è certificato dall’attenzione che i formulatori degli interrogatori e degli articoli posero su questi tre elementi. Si ritrovano concatenati nella juxta 22, che recita:
chieda se gli furono portate l’immagine del servo di Dio e la polvere del suo sepolcro. Quando e da quale persona, che cosa fece l’infermo con esse, vale a dire sia con l’immagine, che con la detta polvere, se la applicò a sé stesso e in quale parte del corpo, o rispettivamente se provvide a ingoiarla; e con quale fiducia, con quali preghiere e orazioni si raccomandò allo stesso servo di Dio, dando conto delle sue parole e del perché ne fosse al corrente [30]
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Chi con maggiore precisione, chi meno, tutti cercarono di soddisfare la richiesta dei giudici. Per cominciare, la domanda: da dove saltò fuori l’immaginetta che, in quell’11 agosto dell’anno precedente, Carlo pose sul proprio petto prima di addormentarsi?
Il miracolato specificò: «richiesi l’effigie di carta del venerabile padre Francesco Caracciolo, che teneva nella mia {p. 83}prima stanza» [31]
. L’immagine fu quindi richiesta dall’ammalato dopo che fu allontanato dal dormitorio e trasferito nella nuova cella. Isolata. Nella prima stanza, l’aveva intravista il compagno di studi, Filippo Maria Ruoti: «io viddi accanto al suo letto la figura del molto venerabile padre Francesco Caracciolo, la stessa che io precedentemente aveva veduta nella prima stanza dov’egli stava nel professorio» [32]
; mentre il lettore Giovanni Battista Gomez si limitò a riferire: «io viddi [che] teneva sopra il petto, da sopra la coperta, la figura in carta del nostro venerabile padre Francesco Caraccioli (sic), che lo stesso chierico mi disse di aversela fatta venire» [33]
. Pare che de Vivis avesse preso a maneggiarla la notte del 10 agosto, prima che il medico desse l’ordine di segregarlo. In risposta al «decimo quarto articulo», difatti, Carlo aggiunse:
la figura del venerabile padre Francesco Caracciolo, quale teneva io nella prima mia camera, donde fui poi trasferito, me la posi sul petto sin dal primo tempo che la sera mi venne il butto del sangue, tenendola e levandola secondo il moto che facevo e raccomandandomi al venerabile padre; ma poi, trasferito nella stanza fuori del professorio, o sia secondo noviziato, me la mandai a prendere per fare l’istesso [34]
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Nonché, negli interrogatori, puntualizzava: «mi fu poi portata la mattina seguente» [35]
. Pigna, infatti, la vide per la prima volta solo «quella mattina, che teneva accanto suo, sopra il letto, una figura di carta del nostro venerabile padre Francesco Caracciolo» [36]
. Tuttavia, non sapeva dire chi l’avesse traslata: «non sapendo io però chi gli avesse portata l’imagine del predetto servo di Dio in quella sua stanza» [37]
. Allo stesso modo insipiente si dichiarò padre Giovanni Maria Pignelver: «da chi poi fosse stata portata la sua figura, io non me lo ricordo, ma ben la viddi accanto al suo letto. Ed {p. 84}egli stesso, l’infermo, colla sua mano, se la pose sul petto» [38]
. Un’asserzione, quest’ultima, che parrebbe contraddire quanto lo stesso dichiarava il giorno precedente, durante il suo primo interrogatorio, venerdì 1° giugno 1753: «di averli io applicata la figura del medesimo, da lui richiesta, sul petto» [39]
. Come a voler riprodurre un gesto intimo; un atto che il frate era solito svolgere in privato, tra sé e sé. Tanto che, quello stesso giorno, tenne a spiegare: «non posso negare di avere particolar divozione verso detto venerabile servo di Dio, padre Francesco Caracciolo [...] tantoché ne porto continuamente addosso la sua figura e, quando mi occorre di predicare, me la pongo su del petto» [40]
. Al netto delle differenze, delle molteplici prospettive, delle tante sfumature narrative, quel che sembra interessasse ai giudici è un punto su tutti: che la figura ritraesse Francesco e non altri. Era il sigillo; la firma che avrebbe attestato la responsabilità del venerabile nella guarigione miracolosa. A confermarlo, su tutti, era il prefetto Pigna: «io non vidi in tutto il decorso della sua infermità altra imagine, o’ altre reliquie de santi a’ quali si fusse raccomandato» [41]
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Ricapitolando: Carlo era allettato. Sul petto, sotto il quale la malattia scavava, il peso celestiale dell’immaginetta di Francesco. La teneva sotto coperta, a diretto contatto con il torace, o «da sopra la coperta», come ricordava Gomez [42]
. E, con le poche forze che gli restavano; con le braccia intorpidite dal formicolio, la innalzava, la baciava, la riponeva sul costato. E pregava.
Chi pregasse era un altro degli interrogativi da chiarire al più presto. I testimoni tentennarono a tal riguardo. Asserirono qualcosa, sì, ma non senza riserve. Il lettore di filosofia, sempre lui, balbettò: «né so quali orazioni avesse premesso o che continuava a fare verso il venerabile servo
{p. 85}di Dio» [43]
. E il sotto infermiere Porcelli, che vegliò a lungo accanto al corpicino, similmente affermò: «non potendomi ricordare precisamente le parole e le preghiere colle quali si raccomandava» [44]
. Tagliava corto Pignelver: «né sentii proferire da lui o orazione o giaculatoria verso il venerabile padre» [45]
. Non doveva essere semplice decifrare – figuriamoci ricordare – quei sussurri, ora rantoli, ora lamenti. Sicché l’amico di Carlo, Filippo Ruoti, si sincerava: «che [l’allettato] non troppo poteva bene articolare» [46]
. Si limitarono ad affermare: «mi disse, che ci havea tutta la fiducia e tutta la speranza» e «disse che fervidamente si raccomandò a lui con fede viva» [47]
. Queste le deposizioni, rispettivamente, del lettore Giovanni Battista Gomez e del chierico Giuseppe Maria Ricci. Per fortuna, il prefetto poté tranquillizzare i giudici a nome di tutti: «udiva da bocca sua, che si raccomandava a’ detto servo di Dio, e mi disse che si havea della fede» [48]
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Note
[20] Ibidem.
[21] Ivi, f. 53r.
[22] A. Cencelli, Compendio storico della vita e miracoli del Beato Francesco Caracciolo..., cit., p. 248.
[23] Ivi, pp. 251-252.
[24] Cfr. T. d’Aquino, La Somma Teologica, Bologna, ESD, 2014, p. 1152 e per l’intera tripartizione pp. 1152-1153. Un rapido e chiaro compendio dell’evoluzione della concezione di miracolo nelle opere di Tommaso d’Aquino si legge in A. Laverda, La nascita del sovrannaturale, cit., pp. 39-47.
[25] AAV, Cause dei Santi, Processus 1895, f. 45v.
[26] Ibidem.
[27] Ivi, f. 58v.
[28] Ibidem.
[29] Relazione della solenne canonizazione dei beati Francesco Caracciolo fondatore de’ Chierici Regolari Minori... celebrata con sacra divota pompa dalla Santità di Nostro Signore Papa Pio VII nella Basilica Vaticana il dì 24 maggio 1807, con le cerimonie, e sontuoso apparato, che qui appresso fedelmente si descrive, In Roma, Nella Stamperia Cracas, Presso S. Marco al Corso, 1807.
[30] AAV, Cause dei Santi, Processus 1895, f. 243r: «Interrogetur, an ad imago servi dei, eiusque sepulchri pulvis sibi fuerint delatae. Quando et a qua persona, quid de illis egerit infirmus nempe tam de imagine, quam de dicto polvere, illumve sibi applicare et in qua corporis parte, vel respective deglutire curaverit, ac praeterea sub qua fiducia, quibusque precibus, et orationibus sese eidem servo dei commendaverit, reddendo dicti sui ratione, cum scientiae causa».
[31] Ivi, f. 48v.
[32] Ivi, f. 116r.
[33] Ivi, f. 201v.
[34] Ivi, f. 56r.
[35] Ivi, f. 48v.
[36] Ivi, f. 216v.
[37] Ibidem.
[38] Ivi, f. 92r.
[39] Ivi, f. 83v.
[40] Ivi, f. 83r.
[41] Ivi, f. 218v.
[42] Ivi, f. 201v.
[43] Ivi, f. 203r.
[44] Ivi, f. 65v.
[45] Ivi, f. 92r.
[46] Ivi, f. 116v.
[47] Ivi, f. 203r e f. 104v.
[48] Ivi, f. 218v.