Il chierico, il medico, il santo
DOI: 10.1401/9788815412072/c2
Più di ogni altro posto, però, i
testimoni parevano impazienti di nominare le «case». Quelle dei frati: i monasteri; e
quelle dei nobili napoletani – come si è già avuto modo di
¶{p. 130}ascoltare da padre Pigna. Il riferimento alla «casa» non era
certo corsivo: aveva un preciso intento. Le case dei Chierici Regolari Minori
formicolavano di
religiosi, fra quali vi sono uomini di molta età matura, dotti prudenti e gravi, ancorché siano alunni della religione istituita da detto venerabile padre Francesco Caracciolo [che non] sono, o possano riputarsi, nella menoma parte sospetti per la loro tenerezza di coscienza in inventare o in accrescere, o diminuire, qualche circostanza de’ fatti a loro ignoti per esaltare un miracolo quando non sossistesse [204] .
Queste le dichiarazioni di uno
studente della Pietrasanta, Filippo Maria Ruoti. Ingenuo data la sua giovane età, si
potrebbe sospettare, ma per nulla sprovveduto: al tempo dell’interrogatorio portava a
termine gli studi in metafisica, nonché indossava l’abito caracciolino da diversi anni.
Che tali fossero la fede e l’affidabilità dei padri più anziani, poteva giurarlo anche
il suo compagno di studi, Carlo. Come fece: «tutti son degni di fede, prudenti, e dotti»
[205]
. Anch’egli lo era. Dotto, era inconfutabile; come Filippo Maria Ruoti era
studente in metafisica. In ultima battuta, allora, professò la sua fede. Si espresse in
favore della beatificazione e canonizzazione del proprio salvatore: «ma secondo sarà
giudicato dalla Santa Sede, al cui infallibile giudizio io mi rassegno, né mai ho
procurato, anzi nemmen pensato di porvi la mia minima opera per la di lui canonizzazione»
[206]
. Professione di fede, la sua, ma anche dimostrazione di prudenza.
Le seconde, le case dei
gentiluomini, erano abitate e frequentate da «persone più dotte, e più critiche, e men credule»
[207]
. Come i chierici, anche i dotti «han fermata la loro opinione, e credulità,
che il detto chierico de Vivis fosse stato sanato prodigiosamente ad intercessione di
detto venerabile padre»
[208]
. Lo riferiva alle autorità il medico Vincenzo ¶{p. 131}de
Iorio, anch’egli un gentiluomo, che guadagnava le case dei pazienti al trotto, in
carrozza, e scortato dalla servitù. Se ciò non fosse bastato a rendere fededegna la
propria testimonianza, poteva aggiungere che l’evento: «da tutti si è creduto per un
evidentissimo miracolo, perché udito da me, che son della professione medica, ed è
passato sotto gli miei occhi»
[209]
. Era professore in medicina, e tanto bastava. Ma riteneva di dover
sottolineare, ulteriormente, la non ovvietà della propria presa di posizione: «io son
persona che non possa avere interesse per questo fatto e piuttosto potrei averlo per
escludere il miracolo se fosse possibile, perché le cure quanto son più pericolose e
disperate, tanto più cedono in onore de’ professori»
[210]
. Quando addirittura, come riportava Prospero Lambertini (lib. III, cap. 7,
nr. 8) «è opinione di alcuni che i medici, noti per la loro scienza, sono contrari ai miracoli»
[211]
. A sottintendere: quando a comprovare un miracolo è un medico, ovvero un
esperto conoscitore delle leggi della natura, non possono esserci dubbi. A maggior
ragione, poi, se si tiene conto del prestigio pubblico a cui questi starebbe rinunciando
togliendosi i meriti di una guarigione che era data per disperata.
Tutti gridavano al miracolo. Non
solo i chierici della Pietrasanta, da cui – nonostante le ripetute cautele – c’era da
aspettarselo: bramavano per vedere beatificato e canonizzato il fondatore del loro
ordine, come aveva confessato Carlo, candidamente. E, in egual modo, si comportavano i
nobiluomini: dotti, vale a dire intendenti della verità, e la cui dirittura morale era
da considerarsi virtuosa. O, almeno, così si credeva dovesse essere: «persone
consapevoli, non leggiere, né ordinarie, anzi degne di tutta la fede, perché persone di
dottrina ed integrità», tornava sull’argomento padre Pigna
[212]
. Consapevoli e degne di fede come il medico de Iorio, che del miracolo fu
testimone oculare. La cura di Carlo, allora, non era da tenersi per una chiacchiera da
¶{p. 132}bassifondi; una diceria da fannulloni o una superstizione da
ignoranti. Tutt’altro, insomma, che «un rumore fanatico del popolo», continuava il padre
[213]
. Termini, questi ultimi, che «dissimulano malamente una discriminazione
sociale», come Sallmann riconobbe nei casi processuali di Domenico da Muro e Bonaventura
da Potenza, ad Amalfi, nel 1694
[214]
.
A dispetto di quanto si possa
immaginare, i «nobiluomini», che i Chierici evocarono nel corso del processo, parrebbero
non rientrare tra le fila di quelli che Sallmann definisce «gruppi di pressione»
[215]
; tantomeno corrispondere agli «accoliti (acolytes)» –
secondo la locuzione di Paolo Parigi – «persone che provenivano da differenti strati
sociali» e «operavano come una sorta di broker simbolici tra le
nuove esigenze di Roma e la domanda locale»
[216]
. Difatti, oltre a una «signora principessa di Piedimonte», nella cui casa,
in prossimità della chiesa di Santa Maria Maggiore, si intratteneva il «medico Sig.re
Gaspare Vegliante», nessun’altra signora, o signore, furono nominati
[217]
. Così come, non considerato l’ordinario Vincenzo de Iorio – che fu
interrogato in qualità di testimone oculare –, nessuno tra i nobili, i dotti, i dotti
nobili e i nobili dotti fu convocato al processo
[218]
.
A comparire dinanzi alle autorità
religiose furono, innanzitutto, i Chierici Regolari Minori. Cosa che andrebbe a
confermare quanto asserisce Giulio Sodano a proposito delle cause napoletane
sei-settecentesche: la presenza dei soli caracciolini «riflette [...] non tanto la
capacità di una elite di mobilitarsi a favore» di un candidato, quanto piuttosto «la
capacità di un ordine [religioso] di mobilitare determinate categorie sociali» a
sostegno di un proprio membro
[219]
. ¶{p. 133}Allo stesso tempo, la cosa non pare sconfessare,
in tutto e per tutto, quanto sostiene una nutrita storiografia: che senza l’appoggio
delle classi superiori era difficile che un candidato divenisse santo nel Seicento
[220]
. Nel caso della canonizzazione di Caracciolo, anzi, una simile circostanza
si protrasse, certo a fatica, fino ai primi decenni del Settecento: gli interrogatori e
gli articoli del processo super miraculis (1711-1713) intendevano
far luce sul miracolo accaduto a una certa Antonia Laura Meta, moglie di Francesco Del
Miele, «ministro della città»
[221]
. Inutile sottolineare che la donna godeva di ottima reputazione sociale,
oltre a vantare un’agiata condizione economica: il nome del marito compare, assieme ad
altri illustri napoletani, tra gli acquirenti di una partita di beni di lusso: «vasi di
fiori e poi “riggiole di Faenza” e “faenze ordinarie”, come “tufoli”, inverniciati e
canali, “pignatte”, “sancelle”, “scaforee”»
[222]
. I coniugi, poi, vivevano «a spese del medesimo [marito]», in un palazzo del
centro cittadino, grande e dalle molte stanze; governato dalla servitù e protetto dalle guardie
[223]
.
Dal Seicento al 1752-1753, però,
più di un secolo era trascorso; e un secolo (e più) è un tempo sufficiente per
riorganizzare le procedure e i principi che oliano la cosiddetta «fabbrica dei santi»
[224]
: furono emanati nuovi decreti (i Decreta servanda in canonizatione
et beatificatione sancto
¶
rum, nel 1642)
[225]
e la santità si rivestì di nuovi significati: se ne preferì una «edificante»
in luogo di una «miracolante», come compendiava felicemente Giuseppe Galasso
[226]
. Non solo: riconosce Paolo Parigi, una santità «lontana dalla devozione
popolare e fisicamente centrata tra le mura di monasteri e conventi – come ormai era
quella di Francesco – diventerà dominante dopo il 1642», appunto dopo il varo dei già
citati decreti di Urbano VIII. Allo stesso modo, più di un secolo
era trascorso dalla dipartita di Caracciolo; dalla crisi di «routinizzazione del
carisma» che, nella prospettiva di Max Weber, seguirebbe alla morte di un leader
[227]
. Nonostante tutto, a metà Settecento, quel che restava immutato presso i
Chierici della Pietrasanta doveva essere il bisogno di un «riconoscimento da Roma come
mezzo per garantire che la loro struttura sarebbe sopravvissuta [anche] alla loro morte»
[228]
. Senza dimenticare che, per dirla ancora con Parigi, «il riconoscimento da
Roma [...] istituzionalizzava il messaggio del candidato e produceva un flusso di
risorse alla nuova struttura locale»: «donazioni, nuove proprietà e offici»
[229]
. In verità, nel corso del tempo, l’ordine era riuscito a espandere la
propria area di influenza cittadina, a partire dal sagrato della chiesa di Santa Maria
Maggiore. Un fascicolo rinvenuto presso l’Archivio di Stato di Napoli riferisce di una
contesa legale tra i caracciolini e i Maestri del Santissimo Salvatore, proprietari di
una cappelletta che si affaccia sullo spiazzo antistante la Pietrasanta. I Chierici
dirimpettai rivendicavano «l’affacciata della chiesa e [di] render più
¶{p. 135}spazioso il largo d’avanti»
[230]
. La ottennero nel 1676, come sottoscrive una «copia della cessione della
cappella del Salvatore»
[231]
. Pure, la copia di un atto notarile, rogato il 4 gennaio 1738 e riguardante
una «donazione fatta a beneficio del nostro monastero da Don Benedetto e Donna Teresa
Pugliucci», attesta l’espansione immobiliare dei Chierici. Si trattava di un «ospizio di
case consistente in più e diverse stanze inferiori e superiori, sito in questa città di
Napoli e proprio del quartiero della chiesa di San Giovanni e a Carbonara nel vicolo
cognonimato de cavajoli». Edificio che, di affitto, fruttava rendite esose: «docati 75
in circa l’anno»
[232]
. La casa di San Giuseppe – situata a circa un chilometro di distanza dalla
Pietrasanta – quindi la masseria, nel quartiere Sanità, e l’ospizio di San Michele
Arcangelo a Santa Maria di Capua, costituivano ulteriori satelliti napoletani
dell’ordine. Da non trascurare, infine, la relazione tra devozione e pubblico
riconoscimento. Riconosce Fiorelli: «il fallimento della promozione di un santo faceva
infatti perdere agli ordini e alle istituzioni conventuali che lo avevano subito quel
riscontro nel tessuto sociale al quale essi appartenevano che costituiva la linfa vitale
per la loro stessa sopravvivenza». Era quanto accaduto in conseguenza al processo
inquisitoriale del 1629 e alla conseguente sottrazione del corpo del candidato alla
pubblica devozione: pare che i chierici «fossero diventati oggetto di dileggio da parte
della popolazione urbana»
[233]
.
Note
[204] AAV, Cause dei Santi, Processus 1895, f. 119v.
[205] Ivi, f. 55r.
[206] Ivi, f. 45r.
[207] Ivi, f. 78v.
[208] Ibidem.
[209] Ivi, f. 80r.
[210] Ivi, ff. 80r-80v.
[211] DSDB, vol. III, pars 1, trad. p. 171.
[212] AAV, Cause dei Santi, Processus 1895, f. 119r.
[213] Ibidem.
[214] J.M. Sallmann, Santi barocchi, cit., p. 214.
[215] Ivi, p. 202.
[216] P. Parigi, The Rationalization of Miracles, Cambridge, Cambridge University Press, 2012, pp. 40 e 80.
[217] AAV, Cause dei Santi, Processus 1895, f. 126v.
[218] Sulle implicazioni sussistenti tra testimone e gruppo sociale di appartenenza, cfr. R. Dulong, Le témoin oculaire. Les conditions sociales de l’attestation personnelle, Paris, Editions de l’Ehess, 1998.
[219] G. Sodano, Modelli e selezione del santo moderno. Periferia napoletana e centro romano, Napoli, Liguori, 2002, pp. 138-139.
[220] A. Prosperi, Dalle «divine madri» ai «padri spirituali», in E. Schulte van Kessel (a cura di), Women and Men in Spiritual Culture. XIV-XVII Centuries: A Meeting of South and North, The Hague, Netherlands Government Publishing Office, 1986, pp. 71-90; A. Rouselle, Miracoli e persecuzioni: assenza e presenza, in S. Boesch Gajano e M. Modica (a cura di), Miracoli. Dai segni alla storia, Roma, Viella, 1999, pp. 121-150.
[221] AAV, Cause dei Santi, Processus 1892, f. 78r.
[222] Cit. in G. Donatone, La real fabbrica di maioliche di Carlo di Borbone a Caserta, in «Napoli nobilissima», IX, 3 (1970), pp. 34-43, in particolare p. 41.
[223] L’informazione si ricava in AAV, Cause dei Santi, Processus 1892, f. 81v.
[224] Una delle primissime attestazioni dell’espressione, in seguito divenuta celebre tra gli addetti ai lavori, «fabbrica dei santi», si trova nella nota critica redatta da J.C. Schmitt, La fabrique des saints, in «Annales. Économies, Sociétés, Civilisation», 39, 2 (1984), pp. 286-300.
[225] Urbano VIII, Decreta servanda in canonizatione et beatificatione sanctorum. Accedunt instructiones et declarationes quas E.mi et R.mi S.R.E. Cardinales praesulesque Romanae Curiae ad id muneris congregati ex eiusdem Summi Pontificis mandato condiderunt, Romae, Ex Typographia Reverenda Camera Apostolica, 1642.
[226] G. Galasso, L’altra Europa, cit., pp. 73-75.
[227] M. Weber, Economia e società, 2 voll., Milano, Edizioni di Comunità, 1974 (ed. or. Wirtschaft und Gesellschaft, Tübingen, Mohr Siebeck, 1922).
[228] P. Parigi, The Rationalization of Miracles, cit., p. 76.
[229] Ivi, pp. 79 e 103.
[230] ASN, Corporazioni religiose soppresse, S. Maria Maggiore, 3855.
[231] ASN, Corporazioni religiose soppresse, S. Maria Maggiore, 3856 (cfr. indice alfabetico all’interno). Della cappella di Santa Caterina si parla nel sopracitato fascicoletto in ASN, Corporazioni religiose soppresse, S. Maria Maggiore, 3855.
[232] ASN, Corporazioni religiose soppresse, S. Maria Maggiore, 3853 (cfr. indice alfabetico all’interno).
[233] V. Fiorelli, I sentieri dell’inquisitore, cit., p. 192.