Il chierico, il medico, il santo
DOI: 10.1401/9788815412072/c2
La notizia del miracolo si diffuse
rapidamente. Attraversò le strade, fece il giro delle piazze; sgattaiolò tra i vicoli,
fin nei cunicoli, per poi sbucare in slarghi assolati e tornare a intrufolarsi nelle
chiese e nelle case partenopee. Non solo in quelle del popolo, come si potrebbe
supporre, più ospitali nei riguardi del soprannaturale. Una simile fuga di notizie c’era
da aspettarsela, considerato il fittissimo reticolo, architettonico e umano, che era
Napoli a metà Settecento. Un crocicchio di arterie, vie e viuzze sovraccariche di
passanti. Fino a notte, «come nemmeno se ne vede a mezzogiorno in un’altra città»,
scriveva il 10 luglio 1787, durante il suo secondo soggiorno napoletano, il pittore
Tischbein al vecchio compagno di viaggio, Goethe
[175]
. Soprattutto l’occhio di quest’ultimo, da fine antropologo questa volta,
torna utile a figurarsi quel trambusto cittadino. Dopo che una volta, volendo guadagnare
il Vesuvio, tentò di abbandonare la città in biroccio, raccontò: «il cocchiere non
faceva che gridare: “Largo, largo!” per mettere in guardia e far
scansare gli asini, che portano legna o rifiuti, i calessi che sfrecciano in senso
contrario, gli uomini, i bambini e i vecchi che
¶{p. 125}trascinano
carichi o se ne vanno a passeggio»
[176]
. Come un fiotto di lava, si faceva strada il carro «verniciato di un rosso
fiammante» e trainato da cavalli impennacchiati di rosso anch’essi
[177]
; tagliava in tutta corsa i «rosari di salsicce» che pendevano da un capo
all’altro della strada, tra il copricapo del passeggero e la cupola del cielo,
«serenamente azzurra», dove – si voleva – i santi patroni si dessero convegno
[178]
.
Nonché, in un successivo appunto,
il «povero nordico»
[179]
– era così che, ora, si autocommiserava – temprato dalla rigidità del clima
settentrionale ed educato a una prossemica di quarto tipo, riconosceva:
il trovarsi in mezzo a una massa così innumerevole e perennemente agitata è straordinario e insieme salutare. Come tutto trascorre in impetuoso disordine, e come tuttavia ognuno sa trovare la propria via, la propria meta! In tanta ressa e animazione mi sento perfettamente tranquillo e isolato, e più assordanti sono le strade, più grande si fa la mia calma [180] .
Sul molo, dove «i gamberi, le
ostriche, i cannolicchi» venivano messi in mostra «su uno strato di foglie verdi»
[181]
; per le vie centrali, dove «i friggitori con le padelle piene d’olio
bollente, erano pronti a preparare sui due piedi [...] frittelle»
[182]
; lungo le mulattiere che dalla città portavano in campagna, dove
sbocciavano: «cavolfiori, broccoli, carciofi, verze, insalata e aglio» e maturavano
«arance e limoni di tutte le specie», «uva [...] meloni e fichi»: tutti si davano un
gran daffare
[183]
; sì, ma pur sempre a cuor leggero. Tanto, seguitava, chi ha avuto la fortuna
di nascere a Napoli «è capace d’aspettare flemmaticamente dall’indomani ciò che ha
portato l’oggi e di vivere, quindi, senza pensieri»
[184]
. Perciò: ¶{p. 126}«tutti, in un certo senso, non lavorano
semplicemente per vivere, ma piuttosto per godere, e anche quando lavorano vogliono
vivere in allegria»
[185]
.
Solo in poche occasioni, prima o
dopo il lavoro, – a dispetto di quanto volesse far credere Johann Jacob Volkmann, autore
delle Notizie storico-critiche dell’Italia, che «a Napoli vi
sarebbero da trenta a quarantamila fannulloni»
[186]
– quei muli spensierati trovavano agio di posare la soma e intrattenersi a
cianciare coi compari, a fare i casanova con le comari. A quel punto, da asini
industriosi quali erano, saltavano agli occhi come tanti Pulcinella: «Pulcinella è il
tipico servo paziente, tranquillo, piuttosto scanzonato, quasi poltrone, eppure pieno
d’umorismo; e di simili servitori e domestici se n’incontrano dappertutto»
[187]
. Una simile filosofia di vita era contagiosa. Soprattutto per chi, come il
viaggiatore, non aveva mai goduto di simili gioie. Fu a causa di questa festosa
infezione che, presto, Goethe prese a rimproverarsi: «sono stato tutto fuorché diligente»
[188]
. Lo confessava con indulgenza; la stessa che riservava ai suoi nuovi
concittadini. Tanto che, in procinto di partirsene per Roma, scrisse, tirando le somme
della sua «indagine» sociologica, che l’osservazione di Volkmann
prendeva le mosse da un «criterio tipicamente nordico»: «il ritenere fannullone chiunque
non s’ammazzi di fatica da mane a sera»
[189]
. E proseguiva: «vidi, bensì, molta gente mal vestita, ma nessuno inattivo»
[190]
.
Costituivano eccezione «gli
ecclesiastici, che si adagiavano con sommo piacere nell’ozio»
[191]
. Non dovevano esser pochi se, come ricostruisce lo storico Sallmann: «Napoli
[aveva] l’aspetto che oggi conosciamo: un groviglio di chiese, oratori e conventi che
non finiscono mai di ingrandirsi e di impreziosirsi»
[192]
.¶{p. 127}
Non c’è da meravigliarsi, dunque,
se, qualche decennio prima che Goethe compisse il suo Grand Tour
nel Bel Paese, la notizia del miracolo occorso a Carlo de Vivis prese a circolare di
strada in strada, di chiesa in chiesa, di casa in casa. In una Napoli che, forse per
intima vocazione, aveva tutti i tratti – rispettabili e riprovevoli – di una redazione
giornalistica a cielo aperto.
In soccorso ai giudici, che
tentavano di ricostruire le modalità con cui la fuga di informazioni avvenne e di
soppesare la gravità, l’autenticità, e la fede dei vari parolai –
juxta 29: «si interroghi [...] [se la notizia] abbia avuto
origine da persone particolarmente emotive, o sospette, e interessate, o se le persone
da cui la segnalazione è partita fossero autorevoli, autentiche e degne di fede»
[193]
– il miracolato ipotizzò che: «siasi potuto spargere un tal prodigio per
Napoli dal medico, da miei religiosi qui, ed in altri luoghi dove sono le nostre case»
[194]
. Per quel che gli competeva, il medico ordinario, Vincenzo de Iorio,
confermò la versione di Carlo: «è vero, bensì, che anche di questo miracolo ne corre
pubblica voce e fama in questa città, perché avendolo io raccontato in molte parti ed in
varie conversazioni»
[195]
. Anche il prefetto degli studenti, Michelangelo Pigna, per parte sua –
caracciolina – sottoscrisse le parole dell’allievo: «sono nondimeno inteso che anche se
ne sia sparsa la fama e la voce per buona parte di questa città, massimamente delle
persone civili e nobili e de religiosi, per racconto, come io credo, fattoli da ognuno
di questi padri consapevoli di tutti i fatti, alle loro rispettive case o’ amici colli
quali conversano»
[196]
. Poi, anch’egli tirò in ballo «il medico Iorio stesso, ch’essendo uno de
primi medici di questa città, e tenendo in condotta varie case nobili civili e luoghi
pii, l’ha andato comunicando nelle occasioni che se gli sono offerte»
[197]
.¶{p. 128}
A fare da cassa di risonanza alla
notizia furono diversi luoghi, tra cui uno non insolito per l’epoca: «il miracolo si è
reso publico [...] anche nelle spezierie»
[198]
. Lo dichiarò l’infermiere maggiore della Pietrasanta, padre Giovanni Maria
Pignelver, che, per forza di cose, di quei locali era un habitué.
Pur se, relativamente a un periodo storico anteriore e a un’area geografica che, non
solo dal punto di vista topografico, potrebbe considerarsi agli antipodi rispetto al
Meridione, lo storico Filippo De Vivo, nel suo studio sulle strategie comunicative al
tempo dell’interdetto di Venezia (1605-1607), restituisce una vivida descrizione di
questi luoghi e del loro perduto officio:
oltre alla cura del corpo e alla salute, spezierie e barberie servivano all’incontro di diversi gruppi sociali e offrivano canali per la circolazione di informazioni di ogni tipo: proprio come i caffè che sono meglio noti agli storici che si sono occupati di luoghi per l’aggregazione della cosiddetta opinione pubblica [...]. A differenza dei caffè, [però], le spezierie e le barberie non erano luoghi predisposti al solo svago e dovevano ospitare gruppi meno numerosi e conversazioni meno comode e forse più brevi perché, a parte qualche panca, la maggior parte della gente doveva rimanere in piedi. Ciò nonostante, potevano accogliere un pubblico socialmente più ampio di quello dei caffè dove era consentito l’accesso solo ad avventori paganti [199] .
Prima di licenziare le ricerche
dello studioso, stimolati dalle sue parole, vien da chiedersi se non proprio a Napoli,
oggi patria dell’espresso, le coffee houses non giocassero, già nel
Settecento, un ruolo, se non superiore, equipollente alle drogherie nella diffusione di
informazioni. Si deve constatare che nella tipologia di fonti prese in considerazione
(il processo super miraculis del 1753) non si fa menzione di
botteghe o luoghi di aggregazione finalizzati al consumo della bevanda importata dalle
Nuove Indie. Era possibile che le officine del caffè, quindi lo stesso prodotto, non
fossero così à la page a quel tempo. Tale assenza troverebbe
conferma nelle ¶{p. 129}parole di Giuseppe Maria Galanti (1743-1806),
economista e intellettuale di stampo illuminista, quando solo allo scoccare della fine
del secolo, nella sua Breve descrizione della città di Napoli e del suo
contorno (1792), assoderà: «il bere caffè è divenuto un uso generale»;
che: «Napoli ha un gran numero di botteghe di gelati e di caffè. Queste ultime in tutte
le ore del giorno sono piene di persone che ciarlano o che guardano chi passa. Esse sono
l’ordinaria dimora degli oziosi: vi si parla di tutto, si giudica di tutto, e si
esaminano gli affari del governo e quelli delle potenze straniere»; e che, di caffè
«fino i più vili lavoratori ne vogliono di mattino»; anche se «quello che si dispensa
nelle botteghe a buon mercato, non ha altro del caffè che il colore»
[200]
. Addirittura, la moda dovette essere tanto ramificata da attecchire persino
tra i livelli più infimi della scala sociale; tanto da arrivare a pensare che «per le
persone di rango non [fosse] decente sedere ne’ caffè»
[201]
. Ai tempi di Carlo, dunque, è probabile che il simil infuso bruno, nonché
tazze, tazzine e cuccume, fungessero non più che da «contorno» alle giornate dei
partenopei. Lo stesso Goethe dovrà aspettare di lasciare Napoli, il 3 giugno 1787, per
imbattersi, giunto all’ultima dogana del sobborgo, in un garzone porta caffè: quasi un
monito per quello che sarebbe venuto all’indomani del suo passaggio dalla capitale partenopea
[202]
. La voga, infatti, dovette diffondersi solo alla fine del secolo.
Dell’evoluzione di tale costume, ne compendia la storia David Gentilcore: il consumo del
caffè «partì come curiosità a metà del Seicento, velocemente divenne un bene di lusso, e
chiuse il Settecento come un bene giornaliero»
[203]
.
Più di ogni altro posto, però, i
testimoni parevano impazienti di nominare le «case». Quelle dei frati: i monasteri; e
quelle dei nobili napoletani – come si è già avuto modo di
¶{p. 130}ascoltare da padre Pigna. Il riferimento alla «casa» non era
certo corsivo: aveva un preciso intento. Le case dei Chierici Regolari Minori
formicolavano di
Note
[175] J.W. Goethe, Viaggio in Italia, cit., p. 398.
[176] Ivi, p. 213.
[177] Ivi, p. 376.
[178] Ivi, pp. 378 e 376.
[179] Ivi, p. 245.
[180] Ivi, p. 234.
[181] Ivi, p. 377.
[182] Ivi, p. 378.
[183] Ivi, pp. 371 e 377-378.
[184] Ivi, p. 221.
[185] Ivi, p. 374.
[186] Ivi, p. 368. A proposito dello «stereotipo del napoletano», cfr. G. Galasso, L’altra Europa, cit., pp. 143-190.
[187] J.W. Goethe, Viaggio in Italia, cit., p. 238.
[188] Ivi, p. 247.
[189] Ivi, p. 379.
[190] Ibidem.
[191] Ivi, p. 129.
[192] J.M. Sallmann, Santi barocchi, cit., p. 191.
[193] AAV, Cause dei Santi, Processus 1895, f. 245r: «interrogetur [...] an habuerit origine a personis nimis affectis, vel suspectis, et interessatis, an personae, a quibus fama orta est, essent personae graves, authenticae, ac fide digne».
[194] Ivi, f. 55v.
[195] Ivi, f. 80r.
[196] Ivi, f. 219r.
[197] Ibidem.
[198] Ivi, f. 94v.
[199] F. De Vivo, Patrizi, informatori, barbieri. Politica e comunicazione a Venezia nella prima età moderna, Milano, Feltrinelli, 2012, pp. 233 e 235.
[200] G.M. Galanti, Breve descrizione della città di Napoli e del suo contorno, Napoli, Presso li Socj del Gabinetto Letterario, 1792, p. 271.
[201] Ivi, pp. 270-271.
[202] J.W. Goethe, Viaggio in Italia, cit., p. 385.
[203] D. Gentilcore, Food and Health in Early Modern Europe: Diet, Medicine and Society, 1450-1800, London, Bloomsbury, 2015, p. 176.