Bruno Manghi
Declinare crescendo
DOI: 10.1401/9788815413505/c1
È così che lo stesso sindacato aggressivo emerso dagli anni ’60 ha avuto delle componenti di stabilizzazione e di integrazione nel sistema sociale di masse, la cui marginalità poteva sfociare in pura negoziazione. Anche se il prezzo che esso ha preteso per patteggiare tende a ferire profondamente alcuni meccanismi di attribuzione del potere sociale: in questi casi i patti sono stati semplicemente tregue e formalizzazioni, accettate con riserva, di un rapporto di forza determinato.
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Va infine ricordato come più in generale lo spirito della negoziazione porti a valorizzare moltissimo nell’azione sociale l’utilizzo razionale di conoscenze scientifiche e tecniche. Il gioco contrattuale richiede infatti un processo di analisi tendenzialmente oggettiva delle posizioni, degli interessi, dei rapporti di forza. Anche su questo terreno perciò il successo degli atteggiamenti negoziali ha coinciso con un’acculturazione assai vasta, ha sviluppato bisogni nuovi di conoscenza, ha posto al centro dell’attenzione le esigenze conoscitive. Si tratta insomma di un atteggiamento che utilizza insieme risorse emotive, aggressività, ideali e facoltà di razionalizzazione. Quando si afferma, disgrega le nozioni tradizionali del «giusto» e dell’«ingiusto» poiché inserisce il concetto di interesse particolare. Alla lunga induce però a ricostruire nozioni universalistiche, fondate sui patti che gli attori sociali hanno nel frattempo concluso.

3. Sindacalismo di opposizione e sindacalismo negoziatore

L’esperienza degli attivisti più anziani e tutte le recenti indagini confermano quanto sia cambiato il sindacalismo italiano negli ultimi quindici anni. Il suo straordinario rafforzamento è stato anche reso possibile da vaste modificazioni interne e ha a sua volta richiesto trasformazioni successive.
Lo spirito della negoziazione è tra le acquisizioni basilari del nuovo sindacalismo: negli anni ’50 fuori dai dibattiti teorici della cisl l’aspetto negoziale aveva scarso rilievo, certo per ragioni pratiche ma altresì per diffidenze teoriche.
Nel lontano passato del nostro sindacalismo incontriamo talvolta episodi e figure in cui lo spirito e {p. 17}la tecnica della negoziazione hanno rilievo, valga per tutti l’esempio delle capacità contrattuali espresse da Buozzi a più riprese nel corso delle lotte alla Fiat. Ma l’insieme delle concezioni sindacali dominanti la nostra tradizione, quella marxista, quella cristiano-sociale e quella anarchica, non indulgevano a valorizzare il momento negoziale e gli atteggiamenti a esso connessi. Sia che al centro della loro visione stesse la lotta di classe per la emancipazione, sia che vi fosse la solidarietà o la collaborazione, sia che si teorizzasse l’azione diretta, la loro impostazione deduttiva li portava a trascurare il fatto negoziale, anche quando lo si praticava intensamente. Quando invece i temi della contrattazione, dell’articolazione, dei diritti negoziali diventano per lunghi anni quelli ricorrenti nel messaggio sindacale, assistiamo a una svolta culturale di grande portata.
Il vecchio sindacalismo di opposizione viene messo in discussione nei suoi punti deboli, quali la relativa grettezza dell’impostazione, le certezze dogmatiche che lo animano, il prevalere dell’agitazione o del paternalismo sulle capacità di indagine. La novità specifica consiste proprio nel fatto che il momento negoziale si articola verso il basso, si specializza tendendo a penetrare nel tessuto produttivo, e che perciò lo spirito rivendicativo negoziale viene assunto da migliaia di protagonisti anziché da un ristrettissimo vertice di negoziatori.
Il fatto che la negoziazione si inserisca in una realtà di movimento e abbia quindi per oggetto rapporti cruciali per il sistema economico e produttivo, impedisce il prevalere degli elementi puramente tecnici e l’affermarsi di una casta di professionisti. Con la svolta si apprende a disaggregare la figura monolitica e paralizzante del «padrone» in tante controparti, si apprende a seguire il percorso reale delle {p. 18}decisioni, a vedere le connessioni tra potere sindacale e potere politico e amministrativo.
La negoziazione in un sindacato che si vuole di classe anziché dar luogo a mediazioni tecnocratiche, sbocca in una pratica sociale di massa, aggiungendo però alla tensione ideale e a quella emotiva una ragione pragmatica. D’altra parte la negoziazione, affiancandosi agli altri momenti della vita sindacale collettiva, corregge le tendenze puramente carismatiche che erano proprie del glorioso agitatore sociale del passato. Un sindacato fondato su messaggi ideologici, dominato dal pathos dei capi, e soprattutto emarginato, finiva per chiedere ai militanti soprattutto attesa e predicazione.
Dopo la svolta il sindacato appare invece come un meccanismo che intende indurre nella società trasformazione quotidiana, e che sui successi parziali misura gran parte della propria ragione di esistere. Ovviamente a questo si è giunti perché la modernizzazione nel modo di fare il sindacato e il diffondersi dello spirito negoziale hanno trovato una classe operaia e una tradizione ricche di politicità, in grado cioè di collocare giustamente il conflitto di classe e la sua pregnanza sociale rispetto all’insieme dei rapporti conflittuali e contrattuali che caratterizzano la nostra vita collettiva.

4. Crisi della negoziazione e crisi del sindacalismo di massa

L’espandersi dello spirito negoziale ha trovato il suo limite, almeno nell’esperienza sindacale, ma la difficoltà di superarlo senza bruciarne le acquisizioni porta il sindacato stesso verso una crisi sostanziale. Non basta citare la gravità della crisi econo{p. 19}mica per dar conto dei dilemmi attuali del sindacalismo italiano.
Anzitutto è constatazione ovvia (ma poco applicata alla lotta di classe sacralizzata) che la negoziazione, dopo esser stata un moltiplicatore di lotte, diventa un regolatore di conflitti. Il legame crescente con le controparti, l’instaurarsi delle regole del gioco, pongono la negoziazione in posizione dominante rispetto alla lotta, portano talvolta a contrastare i conflitti o a fingerli, come nel caso degli scioperi di agitazione o «pedagogici». Poiché molte delle ragioni che portano al conflitto restano inalterate, assistiamo a un trasferimento dei conflitti su altri terreni, e anche al mutare (come vedremo nella nota successiva) della figura del nemico. Nel caso italiano il primo blocco della negoziazione sindacale l’abbiamo registrato quando, come era implicito nei fenomeni di insorgenza della società civile, la controparte negoziale per alcuni oggetti importantissimi è diventata lo Stato.
A quel punto non solo si sono manifestate nel gruppo dirigente sindacale grandissime eterogeneità culturali circa la concezione del rapporto Stato-società civile, ma in una parte consistente della élite sindacale ha cominciato a giocare una profonda identificazione con la élite del potere classica, anche e proprio per l’autorevolezza sociale che il sindacato pareva aver acquistato. Così si è continuato a recitare la contrattazione, ma nella sostanza si è negoziato sempre meno, mettendo in gioco la stessa specificità del mandato di rappresentanza che il sindacato esercita.
C’è tuttavia una più generale difficoltà al perpetuarsi dello spirito negoziale, anche all’esterno dell’esperienza sindacale. In un primo momento la negoziazione libera da predicati e da valori imposti come oggettivi dalle classi dominanti, dà contorni a {p. 20}nuovi bisogni e a nuovi diritti, allarga complessivamente il fascio dalle esigenze legittime dell’uomo. E tuttavia finisce per trasferire nelle lotte di liberazione e di emancipazione elementi propri dello scambio di merci, abituando talvolta a una visione pan-economica sostanzialmente coerente con la cultura dominante.
C’è quindi un punto oltre il quale la pura negoziazione, anche se legata alla lotta, smarrisce nell’intrico dei patteggiamenti e delle unità di misura quelle ipotesi generali sull’uomo senza le quali non c’è impegno cosciente e continuo per l’uguaglianza. C’è un punto in cui la negoziazione perde gran parte delle sue primitive capacità di innovazione e di trasformazione sociale. Pensiamo quindi che il sindacato della negoziazione abbia rappresentato il momento migliore, il più efficace, il più vivo e il più democratico della nostra storia sindacale, ma che non si debba guardare a esso e alla sua crisi con nostalgia.
Piuttosto va osservato come il sindacato tenda a reagire alla propria crisi attraverso un atteggiamento di negazione: autoesaltazione, vanità verbosa, retorica e dilettantismo sembrano prevalere. Perciò talvolta viene voglia di reagire tenendo il giusto elogio della negoziazione, anche se essa ha forse prodotto il massimo dei risultati utili per la classe lavoratrice. Bisogna invece capire perché il sindacato non cresce, se non nelle sue apparenze esteriori, non va al di là dello spirito della negoziazione, e anzi perdendolo rischia di trovarsi più autoritario e più debole di quanto la stessa frusta della crisi non comporterebbe.
Tentiamo, nelle pagine che seguono, di esaminare alcuni aspetti del funzionamento interno del sindacato che, non casualmente, viene così poco discusso nei dibattiti tra dirigenti. Occorre tuttavia, e si
{p. 21}cercherà di accennare anche a questo, fondare la ripresa di un sindacato democratico e di classe su una ispirazione di fondo, su un nuovo spirito che anche a livello emotivo e soggettivo esprima il significato e la direzione dell’agire quotidiano.