Alessandro Sicora, Silvia Fargion (a cura di)
Costruzioni di genitorialità su terreni incerti
DOI: 10.1401/9788815411365/c3
Per rispondere a tali questioni, il riconoscimento è utilizzato come categoria interpretativa che consente di leggere i processi micro-sociali che influenzano la costruzione delle identità e dei ruoli e la loro interazione con le più ampie
{p. 69}dinamiche sociali che contribuiscono a costruire forme di privilegio o svantaggio, inclusione o esclusione, influenzando le possibilità di azione dei genitori.
L’organizzazione dei successivi tre paragrafi è funzionale a evidenziare come i processi di riconoscimento e misconoscimento si dispiegano nelle sfere di relazioni affettive, giuridiche e comunitarie, influenzando l’esperienza e le strategie di coping dei genitori.

4.1. Il riconoscimento e la sua negazione nelle relazioni affettive: la forza perduta e riguadagnata

Nella prospettiva indicata dalla teoria del riconoscimento, l’identità si forma all’interno di processi sociali in cui il soggetto raggiunge la consapevolezza di sé, grazie al riconoscimento ricevuto e dato agli altri. Le relazioni di riconoscimento si manifestano, in prima istanza, all’interno delle relazioni primarie di cura e affetto che caratterizzano il rapporto genitori-figli, e continuano a svilupparsi nelle interazioni che si svolgono nelle successive relazioni affettive e amicali.
Nel contesto di relazioni di riconoscimento reciproco, l’identità incorpora l’alterità; essa si forma nell’accettazione e nella contesa delle differenze, nel processo di differenziazione che si sviluppa nei movimenti dell’appartenenza e della separazione [Rocci 2019]. Per costruirsi come persona, al soggetto deve essere data la possibilità di riconoscere, riconoscersi ed essere riconosciuto. In questo senso, il riconoscimento è un fenomeno fondamentalmente reciproco e riflessivo [Benjamin 2019]. Nell’individuo la consapevolezza di essere «agente» si sviluppa attraverso la presenza di altre persone che riconoscono le sue azioni, i suoi sentimenti, le sue intenzioni, la sua esistenza, la sua indipendenza. L’interdipendenza implica il rispecchiamento dell’altro e nell’altro: il soggetto dichiara «io sono, io faccio» e attende la risposta «tu sei, tu hai fatto» [Dusi 2017]. In questo senso il riconoscimento è riflessivo: non include solo la risposta confermativa dell’altro, ma anche il ritrovare sé stessi in quella risposta.
Il primo luogo dove si fa esperienza di riconoscimento è la famiglia, in cui ci si costruisce reciprocamente come un valore per l’altro. Nei dati raccolti durante l’indagine si rintracciano diverse narrazioni dei genitori riferite al mutuo riconoscimento nelle relazioni primarie, come fondamento dei processi di costruzione identitaria. L’essere riconosciuti come genitori, lo scambio reciproco di cure e affetto, sono parte di tali processi. Stefania, madre di due bambini, di cui uno con bisogni speciali, che vive al Sud spiega, ad esempio, quanto sia «bello» riconoscersi e sentirsi riconosciuta come «mamma»:
È bellissimo tornare a casa sapendo che ti aspettano i bambini, sono a casa che aspettano te (…) essere chiamata mamma, magari quando ti viene un bimbo e dice «mamma, cosa facciamo oggi?», oppure «mamma, mi è successo questo!».{p. 70}
Se da un lato la cura si esprime nel riconoscimento e nella soddisfazione di bisogni corporei e affettivi, dall’altro «facendo i genitori» ed essendo riconosciuti come tali, si acquisisce fiducia in sé stessi. La relazione di mutuo riconoscimento con i figli è descritta da molti intervistati come fonte della forza per «andare avanti, nonostante tutto», ovvero nonostante i continui ostacoli determinati dalla condizione di povertà. Così spiega Giuseppe, padre di tre bambini, da lungo tempo disoccupato, riferendosi all’amore incondizionato nella relazione con i figli:
Come papà [sono] contento di avere un figlio in braccio… quando ti mancano tante cose per mandare avanti, i bambini ti amano lo stesso, anche se ti manca… anche se ti manca qualcosa, ti amano lo stesso.
Jessica è una giovane madre sola che vive al Nord, con una storia familiare difficile alle spalle, affiancata dal servizio sociale nei momenti in cui «da sola non ce la fa, anche psicologicamente». Il figlio, e la condivisione del quotidiano con lui, le hanno consentito di essere riconosciuta e riconoscersi nel suo valore, e di scoprire in sé una forza «che non sapeva di avere»:
Con lui vedo la forza che non sapevo di avere, vedo le capacità che non sapevo di avere. Quando hai un figlio che sta male e ha problemi di salute, ti dà ancora più forza per lottare, perché dici «cavolo, io ce la faccio perché sono grande, posso guarire, so come curarmi, lui che è piccolo come fa a curarsi?». A volte stai male e non sai come aiutarlo, e lui ti fa capire anche come potresti aiutarlo.
La famiglia, tuttavia, può trasformarsi anche in luogo in cui si veicola misconoscimento. Nei racconti dei genitori esperienze vissute come negazione di riconoscimento si ritrovano nelle descrizioni di legami spezzati o mai nati a causa dall’abbandono, della violenza o della trascuratezza fisica o emotiva [Rocci 2019].
In diverse storie di madri, la povertà si intreccia o ha origine dall’aver subito violenza dal partner. Si tratta di relazioni di sopraffazione e dominio, in cui non c’è reciprocità, l’altro è visto come strumento per rispondere ai propri bisogni, mentre la sua autonomia e libertà sono negate. Le molteplici forme di oppressione, di cui queste donne fanno esperienza, si traducono non solo in sofferenza fisica e psichica per le lesioni personali subite, ma anche in condizioni di svantaggio nell’accesso a risorse necessarie a sostenere progetti per sé e i propri figli, ad esempio quando costrette per ragioni di sicurezza a entrare in percorsi di protezione.
In altri racconti vengono descritti spazi relazionali in cui si diventa reciprocamente estranei, nel contesto di relazioni in cui si negano amore, cura e il contatto fisico che esprime affetto, accoglienza e veicola senso di appartenenza. Sia Rosa, una madre single italiana di sei figli che vive al Sud, sia Gianna che, vedova del marito, vive in una città del Nord con l’unico figlio, {p. 71}raccontano di situazioni di «assenza di amore» tra figli e genitori nella famiglia di origine, le conseguenze in termini di fiducia in sé, oltre alla mancanza di supporto materiale ed emotivo in diverse situazioni cruciali nell’infanzia e nelle fasi successive. Entrambe le madri evidenziano, tuttavia, anche la forza riguadagnata grazie all’esperienza della genitorialità; nella relazione con i figli hanno ritrovato la possibilità di uno spazio relazionale in cui vivere il riconoscimento reciproco in maniera quasi ancor più consapevole, avendo vissuto la sua negazione, in termini di soddisfazione di bisogni fisici e emotivi.
Io mi ricordo di una belva in casa, non di una mamma, che mi picchiava, che mi buttava per terra mi schiacciava coi piedi, quindi per me… per me non esiste (…). Mia mamma è stata una cosa spaventosa, cioè ha annientato la mente, l’autostima… sia con me che con mio fratello non esisteva nessuna forma affettiva, né baci, né abbracci, niente… e noi [io e mio figlio] invece ci baciamo molto, molto (…).
Mangiavamo la carne una volta al mese perché noi [la famiglia di origine] non è che abbiamo disgiunto come si dice… tra piccoli e grandi (…) non c’era amore fra mamma e papà, loro vivevano a modo loro, se ti dovevano dare un bacio non te lo davano, guarda, brutto (…). E io non voglio che i figli miei sono così come sono cresciuta io, quello che non ho avuto io lo devono avere loro (…) Non avendo amore, tu lo dai dopo l’amore, quando hai figli, ma ne dai di più di quello che non hai avuto tu da piccola, è la cosa più bella del mondo (…) Io, anche quando andiamo a letto io mi bacio i figli miei, li tengo sempre vicino a me, c’è Caterina che la notte si sveglia e [mi dice] «mamma mi abbracci?», guarda, è bellissimo.
Akim, un padre di due bambini emigrato dal Senegal, che vive nel Sud Italia, racconta del difficile periodo durante la crisi pandemica, in cui l’aggravarsi della condizione di povertà dovuta all’interruzione di molte attività economiche, si è combinata al disagio legato alle restrizioni imposte dal distanziamento fisico, con conseguenze sulla vita sociale e relazionale di tutti i membri della famiglia. Lo scambio di affetto, fatto anche di manifestazioni fisiche, il riconoscere di esserci l’uno per l’altro, hanno costruito la forza per «andare avanti»:
[Durante il lockdown] come genitore stavi male, perché si vede che [i bambini] non dormivano bene, non vedevano mai i loro amici, facevano delle videochiamate, ma non è che puoi colmare la presenza. Ci sono giorni in cui abbiamo pianto, abbiamo pianto per darci forza, non di disperazione, ma così, per caricarci un po’ l’uno all’altro, ci è capitato di dormire insieme io, mia moglie e i bambini (…) cerchiamo di dormire insieme così per darsi forza, per dire «siamo insieme ai ragazzi, niente panico».
Gala spiega che «fare i genitori» non si apprende dai libri, ma si apprende facendo, e descrive i processi di reciproco riconoscimento implicati nel dare e ricevere cura, nel limitarsi e completarsi come processi intersecati:{p. 72}
Intervistatrice: Che cosa deve saper fare secondo te un genitore?
Genitore: Saper fare… oh non è un libro, questo viene da sé, io… io ho perso la mamma da un po’ di mesi e ogni tanto penso che mia mamma era per me come un’amica e parlavo con lei di quasi qualsiasi cosa (…). Lei mi ha saputo tranquillizzare anche nei momenti più brutti (…), anche se magari non poteva farci niente [ride], però ti dava questa sicurezza, no? Io all’inizio non sapevo dare a X [nome del figlio], neanche quando aveva 4 anni, non riuscivo a capire, non avevo ancora questa cosa, invece pian piano adesso che riesco a vedere un po’ le sue insicurezze e affrontiamo certi problemi, io provo a fare la stessa cosa che faceva mia mamma, dirgli «Stai tranquillo, qualsiasi cosa che sia, la affronteremo, ne usciremo fuori in qualche maniera» (…) adesso essendo anche lui un po’ più grandicello e vedo che capisce diversamente, mi conosce, perché vedo che già mi conosce, anche le mie reazioni e tutto, riusciamo a comunicare e darci dei consigli, perché anche lui mi dà dei consigli, mi completa… sì, mi completa, ci completiamo a vicenda.

4.2. Il riconoscimento e la sua negazione nelle relazioni comunitarie: essere genitori, ma poveri

Honneth individua un’altra modalità di riconoscimento nella sfera delle relazioni comunitarie, in cui assumono valore le qualità che distinguono il soggetto come capace di contribuire alla realizzazione di fini collettivi, in relazione a modelli di valore condivisi nella comunità di riferimento. Se le capacità e il contributo del soggetto non vengono riconosciute, ovvero apprezzate e considerate di valore, l’esperienza è quella dell’umiliazione.
La possibilità di godere di stima sociale è condizionata dall’uguaglianza di opportunità per adeguarsi ai modelli dominanti. Essere genitori conferisce un ruolo socialmente apprezzato, in quanto parte di processi che contribuiscono alla riproduzione sociale. Tuttavia, l’intersezione di categorie socialmente costruite in relazione alla classe, al genere, alla nazionalità e ad altri ruoli sociali, influenza in modo diverso le esperienze dei genitori, così che il loro ruolo può diventare fonte di apprezzamento e vantaggi per alcuni, e di svantaggio e giudizio negativo per altri.
L’analisi di Honneth [1992] aiuta a rintracciare nella storia la costruzione dei processi di attribuzione di apprezzamento sociale. Nel passaggio alle società moderne, il riferimento normativo prevalente è diventata l’attività economica, in linea con i valori della classe borghese (e dei soggetti di genere maschile), escludendo dall’attribuzione di valore interi settori di attività egualmente necessari per la riproduzione sociale, ad esempio il lavoro di cura e il lavoro domestico. Il filosofo evidenzia, inoltre, come ciò che è considerato merito e successo influenza non solo l’attribuzione di prestigio, ma anche la quantità di risorse che le persone hanno legittimamente a disposizione, giustificando al contempo una loro ineguale distribuzione. L’accesso alle risorse materiali percepite da ciascun individuo è influenzato {p. 73}dal modo in cui il suo contributo viene valutato; nelle società capitaliste, ad esempio, a occupazioni diverse è riconosciuto un diverso prestigio e, dunque, trattamento economico.
L’esito di tali processi si traduce in forme di oppressione sociale per i gruppi in condizioni di deprivazione economica, a cui è di fatto impedito l’accesso alle risorse per vivere nei modi socialmente apprezzati. I genitori coinvolti nell’indagine hanno evidenziato come sia limitata la possibilità di realizzare i propri obiettivi, dispiegare le proprie capacità e dunque interagire in processi sociali che veicolano stima sociale. La realizzazione di sé, i progetti di vita, i progetti per il futuro proprio e dei propri figli perdono senso, in assenza di risorse per poterli realizzare, con conseguenze sulla stima ricevuta dall’esterno, sull’autostima e sulla percezione di autoefficacia. Paradossalmente, infatti, le conseguenze di una condizione di svantaggio comportano un giudizio sociale negativo su di sé come persone e come genitori che talvolta viene internalizzato, manifestandosi nella forma di «sensi di colpa», anche rispetto alle possibilità consentite ai figli.
Carla si è separata dal marito violento e si appoggia presso l’abitazione dei genitori con i due bambini. Nonostante il sostegno della famiglia di origine, le conseguenze della condizione in cui vive «con poco o niente», e dell’impossibilità di pianificare una vita autonoma, la portano a fare esperienza nel quotidiano di un vissuto di «fallimento»:
Come mamma ti senti distrutta psicologicamente, ti senti un fallimento (…) se magari loro cercano un paio di scarpe in più, tu devi dire un no, e quel no fa male, fa male perché dici «o faccio la spesa, o compro…». Poi, in tutto ciò, i ragazzi si devono rapportare alla scuola, agli amici, e non tutti hanno la tua stessa situazione, non tutti hanno una mamma che è l’unica che ti sostiene economicamente… un fallimento che ti porti tutti i giorni e la consapevolezza di questo fallimento.
Gli sguardi giudicanti degli altri si percepiscono in relazione a simboli di status che non possono essere mostrati: vestiti considerati non adeguati, l’impossibilità di organizzare eventi per i bambini che richiedono investimento di denaro, e in generale la cura di sé. Una mamma che vive al Sud, ad esempio, racconta:
Si rinuncia alle cose, a non avere i soldi, sei anche isolato dagli amici e questo vale anche per i bambini (…). «Che scarpe ha quello?»; loro guardano anche questo, per cui vuol dire isolare anche i bambini… anche non potergli offrire un gelato a volte, no? (…) per cui le conseguenze ci sono, il malessere di tutto, sentirsi inferiori… non dovrebbero… cioè sarebbe bello se tutti, se tutti possiamo essere uguali (…) per i giochi, perché si fa magari la festa di fine anno e non hai i soldi per andare a mangiare la pizza, mi ricordo che ci sono state delle tavolate quando era all’asilo, e si facevano un poco fuori città e io non avendo l’auto e non avendo i soldi per arrivarci… È passato, tutto passa per fortuna, no? Però al momento e per un po’ di tempo ci resti male.
{p. 74}