Elena dell'Agnese, Daniel Delatin Rodrigues (a cura di)
Re(l)-azioni
DOI: 10.1401/9788815410795/p1
Le aree a bassa densità di popolazione e domanda de
{p. 12}bole di servizi non sono sempre «isole di tradizione», spazi residuali separati, o addirittura contrapposti, al moderno sistema urbano; sono aree funzionali ai suoi meccanismi di produzione, riproduzione e consumo, non solo perché forniscono al centro, come tutte le periferie che si rispettino [Reynaud 1981], manodopera (e questo è chiaro a tutti) e risorse (e anche questo è chiaro, anche se meno chiaro è che queste risorse provengono spesso da attività agricole intensamente industrializzate, caratterizzate da un’elevata concentrazione capitalistica, che attraggono manodopera straniera, spesso sfruttandola con le regole del caporalato, e che spargono veleni nell’aria); sono funzionali ai centri anche perché ospitano ciò che i sistemi urbani non vogliono al proprio interno: allevamenti intensivi, macelli, impianti industriali dall’impatto talora devastante, impianti di essiccazione fanghi, discariche di rifiuti.
Non tutte le aree interne e non tutti gli spazi rurali hanno perciò le stesse potenzialità «paesaggistiche» e non tutti gli insediamenti sono «borghi». Spesso, il paesaggio risulta sfregiato da un passato di industrializzazione che oggi lascia «vuoti» imponenti, capannoni coperti di amianto e vecchi stabilimenti abbandonati, o dalla diffusa presenza di edifici di scarsa qualità, da condomini anni Sessanta, da villette realizzate in uno stile edilizio poco consistente con l’abitato originario (e siamo di fronte a quella che Barbera e Dagnes [2022] chiamano, senza pietà, «bruttitalia»); in altri ancora, la bassa densità dell’edificato, che mantiene ancora caratteri tradizionali carichi di valore paesaggistico, e la ricchezza di «verde» nascondono la potenziale nocività legata all’uso intensivo di pesticidi fortemente inquinanti e il paesaggio diventa così segnato da una «violenza lenta» [Nixon 2011], che agisce su tempi lunghi e in modo non vistoso, nel quadro delle corsie dei reparti di oncologia, ma non per questo meno micidiale di quella «veloce» delle periferie urbane.
Le stesse dinamiche demografiche positive nascondono, talora, una situazione di disagio: infatti, mentre la popolazione lungo-residente è sempre più vecchia e sempre meno numerosa, il patrimonio di edifici sottoutilizzati e {p. 13}abbandonati, accanto alla possibilità di svolgere vecchi e nuovi mestieri in ambito agricolo, o di pendolare verso settori terziari, attraggono «nuove» popolazioni (migranti, proprietari di seconde case) che in qualche modo «usano» lo spazio rurale, ma difficilmente si incontrano fra loro, formando una comunità.
Guardare alle aree a domanda debole solo in termini demografici, dunque, non basta, e non basta neppure ripensarle esclusivamente attraverso un discorso stereotipizzante, che promuove la «retorica del borgo» e l’illusione della sua autenticità, tipicità, capacità di essere un serbatoio di valori tradizionali. Delle popolazioni che attraversano le aree a domanda debole, alcuni sono i giovani che vogliono rimanere [Membretti et al. 2023]; circa la metà dei rispondenti a un’indagine sui giovani nelle aree interne italiane, realizzata dall’associazione Riabitare l’Italia [4]
, dichiara infatti che vorrebbe restare nel luogo in cui vive e pianificare lì la propria vita (il problema è che i giovani nelle aree interne italiane sono ormai pochissimi). Altri sono nuovi arrivi, come i migranti, attratti dalla possibilità di trovare impiego in settori sempre meno attrattivi per gli italiani, come l’agricoltura o l’edilizia. Poi ci sono i neo-rurali, alcuni dei quali si trasferiscono in campagna o in montagna per riprendere attività antiche, come l’agricoltura e la pastorizia tradizionale, altri semplicemente perché attratti dalla possibilità di trovare abitazioni a basso costo, magari caratterizzate da buone qualità in termini paesaggistici. Fra i rural users (per fare un calco sull’idea martinottiana di city users) [Martinotti 1993], vi sono coloro che, attratti dalle abitazioni a basso costo in un contesto ambientale extraurbano apparentemente di qualità (pazienza se inquinato dalle pratiche di agricoltura intensiva, come nel Trentino delle mele, o nel Monferrato del barbera), vi acquistano una seconda casa in campagna; e coloro che vi praticano escursioni o altre attività di carattere turistico.
Per diversità di interessi, matrice culturale, pratiche territoriali, queste popolazioni hanno un senso del luogo {p. 14}assai differente in relazione allo stesso contesto e non hanno quasi mai motivo di incontro; questo le rende incapaci di comunicare fra loro, di fare relazione, di entrare in contatto con il territorio, di ripensarlo e in qualche modo di difenderlo (perché, anche se, sempre per citare Barbera e Dagnes [2022], è solo un «posto brutto», si tratta comunque di un contesto dove le persone abitano e lavorano e che per questo merita di essere protetto e difeso).
I contributi presenti in questo volume, pur se differenti fra loro per metodologia, impostazione teorica e taglio disciplinare, sono accomunati dal desiderio di capire quali azioni siano possibili, all’interno di quegli spazi che possiamo definire «rurali», ma che sarebbe meglio definire solo «marginali» o «a domanda debole», che a volte sono belli e carichi di storia, pieni di potenziali attrattive, e in altri casi sono già stati sfregiati proprio a causa della loro marginalità, o rischiano di diventarlo ancora di più, per costruire un sistema di relazioni «territoriali» che li rivivifichi e li protegga, ossia per fare sì che chi vive e chi usa quegli spazi sviluppi, nei loro confronti, un rapporto positivo con il territorio e con le sue diverse configurazioni [Turco 2010], attraverso il «senso del luogo» e la sensibilità nei confronti del «paesaggio» [dell’Agnese 2016].
Il primo capitolo, di Francesca Sabatini, si interroga sul significato di «rurale» (come faranno poi altri saggi successivi), cercando di analizzare quali discorsi, intesi in senso foucaultiano come dispositivi di produzione e controllo del sapere, vengano promossi dalle politiche sul rurale e come questi discorsi «contribuiscano a trasformare e risignificare la ruralità». Nello specifico, il contributo si focalizza sull’analisi delle politiche portate avanti da LEADER (Liaison Entre Actions de Développement de l’Économie Rurale), un approccio promosso dall’Unione europea per mettere in atto nuove strategie di sviluppo nelle regioni rurali e da quello che si configura come il suo principale strumento di applicazione, il GAL (gruppo di azione locale), per coglierne il ruolo nel processo di risignificazione degli spazi rurali. L’analisi, svolta attraverso l’esame di documenti, interviste semistrutturate e osservazione partecipante, si focalizza sul {p. 15}GAL Sicani, nell’entroterra agrigentino in Sicilia, il cui primo obiettivo, secondo l’autrice, è quello di «costruire un’immagine del territorio chiara e univoca per definire i Sicani come territorio di produzioni ed esperienze turistiche di qualità» contribuendo alla tendenziale trasformazione della ruralità in uno spazio multifunzionale sempre più «da consumare», piuttosto che da vivere.
La «valorizzazione» in termini turistici dello spazio rurale non è però il risultato solo delle politiche territoriali europee. Nel contributo di Lorenzo Bagnoli, meno critico nei confronti dell’approccio post-rural, ossia della rifunzionalizzazione e risemantizzazione degli spazi extraurbani, si esamina la relazione fra «nuovi turisti» e iniziative turistiche basate su reti di relazione che mettono in collegamento attori e stakeholders del mondo produttivo, culturale e sociale locale in ambito rurale, iniziative finalizzate non tanto, e non solo, allo sviluppo locale, ma anche, e soprattutto, alla costruzione di processi innovativi di territorializzazione. Alla promozione di interazioni costitutive del territorio è indirizzata la rete culturale di promozione territoriale affermatasi in Val di Susa, il caso di studio su cui si focalizza il contributo, che l’autore definisce, per questo motivo, come una best practice. Già nel 2003, la valle è stata infatti collegata dalla creazione di un «patto di sistema», chiamato «Tesori di arte e cultura alpina», che costituisce una rete di soggetti pubblici, privati e no profit impegnati su obiettivi e metodi di lavoro condivisi e sottoscritti in un protocollo di intesa, tramite una forma di governance a rete leggera.
Alle montagne alpine si rivolge l’attenzione anche del contributo di Stefania Cerutti, che si domanda se la marginalità, o meglio la perifericità, di ciò che viene considerato «rurale» non possa essere, in alcuni casi, favorevole all’innescarsi di processi di innovazione e trasformazione non esperiti altrove. A dimostrazione di questa tesi, prende in esame una varietà di strumenti mirati alla «riappropriazione e rilettura di quelli che vengono riconosciuti come beni comuni e identitari», che includono mappe e cooperative di comunità, ecomusei, passeggiate comunitarie, festival e rassegne cinematografiche o musicali rurali, strumenti cui {p. 16}si uniscono nuove modalità di ricorso alla tecnologia (come la telemedicina) per garantire una migliore offerta di servizi alla persona.
Come best practices vengono presentate anche le esperienze ecomuseali di Lis Aganis, in Friuli, analizzate da Pigozzi e Borrelli, l’agricoltura multifunzione monferrina, analizzata da Allolio e Ferretto, e le esperienze neo-rurali/neo-agricole della Val Maira, analizzate da Carucci. A differenza dei casi esaminati in precedenza, tuttavia, l’ecomuseo di Lis Aganis non si rivolge a chi viene da fuori, ma mira a rafforzare primariamente il senso di luogo della comunità, attraverso attività varie (basate sulle proposte degli associati), come laboratori con esperti locali, per scuole e famiglie; i percorsi didattici per la valorizzazione del territorio; attività mirate al recupero della memoria del passato, eventi e giornate dedicate a temi specifici (archeologia, mosaico, antichi mestieri, mulini e farine, antiche fornaci e sapori). Le attività dell’ecomuseo vengono integrate anche nella didattica scolastica, attraverso quella che si può definire una «didattica situata», ovvero ancorata alle realtà del territorio.
L’importanza della scuola nel «coltivare» il senso del luogo di una comunità viene messa in evidenza anche nel quinto contributo di Giulia De Cunto, che, da un lato si sforza di proporre la necessità di una rilettura della montagna al di fuori del discorso dominante e omologante (discorso cui gli stessi abitanti della montagna rischiano di doversi adeguare), dall’altro riporta la propria esperienza di ricerca/didattica, per mettere in luce il ruolo della scuola nella costruzione di una relazione tra persone e territorio.
Al ruolo delle pratiche agricole, seppur con diverse prospettive, si rivolgono invece i contributi di Allolio e Ferretto, e Carucci. Come Cerutti, anche Allolio e Ferretto sembrano voler riconoscere alla marginalità la capacità di proporre innovazione. Nel caso da loro preso in esame, il Piemonte con un focus più mirato al Monferrato casalese, questa capacità di innovazione nelle aziende di agricoltura sociale è un modello alternativo rispetto alla produzione agricola capitalista, che denota la capacità di integrare nell’orizzonte aziendale un fine solidale, di creare nuovi
{p. 17}significati identitari per residenti storici e nuovi venuti, di diversificare le imprese agricole incrementandone la solidità, di migliorare la qualità di vita nelle aree rurali da un punto di vista lavorativo, formativo, di welfare (anche se, come le stesse autrici ammettono, si tratta di «un fenomeno diffuso a numeri ancora troppo contenuti per poterne misurare un impatto»).