Verso il museo multimediale della lingua italiana
DOI: 10.1401/9788815410283/c1
Giacomo Micheletti e Anna
Stella Poli Un coro di voci per il progetto MULTI – Museo
multimediale della lingua italianaI paragrafi 1-2 sono a cura di Anna Stella Poli, il paragrafo 3 a cura di Giacomo Micheletti
Notizie Autori
Giacomo Micheletti è assegnista di ricerca presso l’Università di Pavia, dove ha conseguito un
dottorato in Scienze del testo letterario e musicale, e collabora con
l’Università di Milano Bicocca. Si interessa perlopiù di storia della lingua
italiana, narrativa contemporanea, traduzioni.
Notizie Autori
Anna Stella Poli è assegnista di ricerca presso l’Università di Pavia. Insegna Editing della
poesia contemporanea allo IULM, per MasterBook. Ha un dottorato in Filologia
contemporanea, con una tesi sulla traduzione poetica. Si occupa di archivi e
Novecento. È redattrice di «Trasparenze» e della rivista online «La Balena
Bianca».
Abstract
Negli ultimi cinque anni (complice anche l’emergenza pandemica, che in campo tecnologico ha impresso una repentina accelerazione a fenomeni già in corso) il rapporto tra istituzioni museali e comunicazione digitale ha conosciuto un notevole sviluppo a livello globale. Gli ultimi tre decenni, segnati da un avanzamento radicale sul piano tecnologico-comunicativo, passeranno alla storia anche per l’evoluzione (altrettanto radicale) che numerose istituzioni del sistema culturale occidentale hanno dovuto intraprendere in risposta alle sfide poste dalla rivoluzione digitale, dall’avvento del World Wide Web nel già remoto 1991 ai dispositivi di ultima generazione e alle nuove «realtà» (virtuale, aumentata, mista) che essi portano in dote. È in questo scenario tecnologico-comunicativo sinteticamente schizzato, tanto vasto quanto mutevole, che si colloca la proposta del progetto MULTI – Museo multimediale della lingua italiana, che vede coinvolte l’Università di Napoli L’Orientale, l’Università della Tuscia e l’Università di Pavia nell’ideazione e realizzazione di un museo virtuale dedicato alla storia della lingua italiana. Il presente volume raccoglie una selezione degli interventi che il 28 maggio 2021 hanno visto confrontarsi sul tema, in modalità telematica e in un’ottica giocoforza interdisciplinare, specialiste e specialisti provenienti dai territori dell’antropologia, della museologia, della filosofia e della linguistica; un dibattito arricchito dalle testimonianze (tanto più preziose, perché fondate sulla concreta esperienza di lavoro) di alcuni «addetti ai lavori» internazionali.
1. Negli ultimi cinque anni (complice
anche l’emergenza pandemica, che in campo tecnologico ha impresso una repentina
accelerazione a fenomeni già in corso) il rapporto tra istituzioni museali e comunicazione
digitale ha conosciuto un notevole sviluppo a livello globale.
In Italia, dove a lungo – a dispetto
della capillare penetrazione in ogni ambito della vita quotidiana – l’applicazione delle
cosiddette «tecnologie dell’informazione e della comunicazione» (ICT) in ambito culturale ha
dovuto fronteggiare tanto la mancanza di adeguate competenze tecniche e di professionalità,
quanto – soprattutto – il radicato scetticismo dell’ambiente intellettuale, ecco che alcuni
tra i più rinomati musei nazionali si sono finalmente dotati di un sito web (dagli Uffizi di
Firenze alla Pinacoteca di Brera, dalle Gallerie nazionali di arte antica di Palazzo
Barberini e Galleria Corsini al Museo archeologico nazionale di Napoli ecc.); e tanti altri
hanno provveduto a rinnovare le pagine già esistenti, ricercando una maggiore navigabilità e
offrendo ai propri utenti un’ampia quantità di contenuti aggiornati e liberamente fruibili
(catalogo digitale della collezione, audioguide, materiali didattici, approfondimenti,
visite virtuali, interviste a direttori e curatori… cfr. Bonacasa [2011]; Mandarano [2019,
67-68]).
Inoltre, i musei contemporanei hanno
finalmente imparato a sfruttare le potenzialità di interazione, condivisione e aggregazione
favorite dal web 2.0 e, nello specifico, dai principali social network (soprattutto YouTube,
Facebook, ¶{p. 8}Instagram, Twitter: ma è in rapida ascesa il cinese TikTok
[1]
), necessariamente adeguando la propria immagine e il proprio linguaggio alla
rivoluzione comunicativa rappresentata dal web partecipativo [Solima 2011; cfr. anche
Bonacini 2011; De Gottardo e Gasparotti 2014]. Il visitatore diventa così un follower, in
grado di contribuire con la propria presenza online alla valorizzazione del museo stesso: i
feedback forniti dai follower tramite commenti, like, stories ecc.
consentono infatti di valutare, aggiornare e, se necessario, ripensare drasticamente
contenuti e criteri espositivi, alla luce del contributo offerto dalla
community in termini di promozione del patrimonio culturale e delle
istituzioni a esso legate.
Di fatto, la mera conservazione delle
collezioni non è più considerata un obiettivo sufficiente per le istituzioni museali
odierne: la valorizzazione e la comunicazione delle stesse si impongono come questioni di
importanza decisiva, imprescindibili dalla realtà della rete e, conseguentemente, dalle
istanze di una società iperconnessa. Di più: è la stessa comunicazione online a porsi, oggi,
come strumento insostituibile di valorizzazione del patrimonio culturale. Un sito web ricco
di contenuti e facilmente navigabile (che ottemperi cioè ad alti standard di accessibilità e
usabilità); la possibilità, grazie a un’interfaccia accattivante, di fruire di un’esperienza
online immersiva (giusto lo shift dal paradigma della visita a quello,
appunto, dell’esperienza); la gestione attenta di uno o più canali
social sono oggi ingredienti essenziali di una metodologia comunicativa basata sul
coinvolgimento dell’utenza (user-centered) e sull’interazione con essa.
Nello sviluppo di un simile sistema
comunicativo integrato (dal museo al sito web alle bacheche delle pagine social) assistiamo
dunque al graduale superamento di quella situazione di scarsa ricettività ai nuovi strumenti
comunicativi evocata poco sopra, con conseguenze di enorme portata (specie laddove
supportate da un’adeguata riflessione critica) ¶{p. 9}nella valorizzazione
del patrimonio esistente [Luigini e Panciroli 2018; Colombo 2020]
[2]
. Ma assistiamo, nondimeno, a un sorprendente mutamento della natura stessa del
museo, per cui è necessario fare un passo indietro.
2. Gli ultimi tre decenni, segnati da un
avanzamento radicale sul piano tecnologico-comunicativo, passeranno alla storia anche per
l’evoluzione (altrettanto radicale) che numerose istituzioni del sistema culturale
occidentale hanno dovuto intraprendere in risposta alle sfide poste dalla rivoluzione
digitale, dall’avvento del World Wide Web nel ¶{p. 10}già remoto 1991 ai
dispositivi di ultima generazione e alle nuove «realtà» (virtuale, aumentata, mista) che
essi portano in dote.
Il museo è certo uno dei dispositivi di
trasmissione culturale interessati da un complesso di mutazioni particolarmente profonde,
tanto al livello «pratico» degli spazi e degli oggetti espositivi quanto nei suoi fondamenti
puramente teorici.
La museologia contemporanea (intesa come
«l’etica e la filosofia del museale», con Bernard Deloche citato da Desvallées e Mairesse
[2016, 58]) è da tempo impegnata in una drastica revisione degli attributi museali
«classici», alla ricerca di un nuovo statuto del museo stesso: spazi, collezioni, relazione
con il pubblico, obiettivi… tutte categorie interessate dalla ormai corrente
«smaterializzazione» del museo, entità-concetto sempre più fluida e ibrida (in
primis a livello mediale).
I più recenti orientamenti museologici
hanno oramai riconosciuto l’ingresso in pianta stabile delle ICT nella conservazione del
patrimonio culturale. Ma in realtà la «svolta digitale», con il suo portato innovativo di
tecnologie e professionalità, appare oggi come uno strumento insostituibile non soltanto per
la conservazione e promozione delle collezioni, ma anche per la produzione
delle stesse, come attesta la diffusione crescente dei
cybermusei, o (con etichetta discussa ma invalsa, che qui
adotteremo) «musei virtuali».
Un’etichetta, appunto, tutt’altro che
univoca, tradizionalmente impiegata in riferimento a qualsivoglia museo fisico che scelga di
adottare, all’interno delle sue sale, tecnologie digitali interattive/immersive on
site (schermi e tavoli touch-screen, dispositivi per la realtà virtuale o
aumentata, app); ma può darsi anche il caso limite di un museo fisico basato
sull’esposizione di sole apparecchiature tecnologiche, tramite cui fruire di uno o più
percorsi esclusivamente digitali
[3]
.
Secondo un’altra accezione (che pure
non esclude la prima), il museo virtuale si identificherebbe con il sito web
dell’istituzione di riferimento: esperienza online a mera
¶{p. 11}integrazione e supporto del museo fisico, con contenuti multimediali
rivolti a un visitatore remoto per migliorare la propria opera di valorizzazione del
patrimonio (cfr. par. 1).
Ma il museo virtuale può essere inteso,
oggi, anche come entità autonoma appositamente concepita per lo spazio digitale, con
contenuti creati ad hoc o forniti da altre istituzioni: un vero e
proprio museo online. In altri termini, con le parole di Manzone e Roberto [2004, 41]:
una collezione di risorse digitali di ambito artistico-culturale accessibile mediante strumenti telematici, caratterizzate da una struttura ipertestuale o ipermediale e da una rappresentazione grafica più o meno intuitiva che consente la navigazione all’interno di tale ambiente, permettendo così al visitatore di interagire con il contesto.
Un «museo impossibile» [Antinucci 2004]
perché esistente solo in rete, privo di un corrispondente fisico ma non per questo, come
vedremo, meno reale.
La possibilità di intrecciare
contemporaneamente oggetti multimediali (o senz’altro ipermediali) di norma incompatibili
con la fruizione canonica di un museo; l’opportunità di concepire percorsi espositivi
inediti ricorrendo alle riproduzioni di opere non accessibili al pubblico e a risorse web
sconosciute ai non addetti ai lavori fanno di questo tipo di museo, «impossibile» fino a
pochi anni fa, un contenitore concettuale particolarmente adatto alla valorizzazione di
quello che la Convenzione UNESCO del 2003 ha infine definito come «patrimonio immateriale»
di una comunità, un territorio, un paese.
Questo passaggio dal «museo-tempio»
fisico al «museo-laboratorio» virtuale apre la strada alla sperimentazione di nuove
strategie di storytelling, sulla scorta dei più aggiornati modelli di
coinvolgimento basati sull’edutainment del pubblico (virtuale, in
questo caso) e sull’interazione con esso tramite esperienze «immersive»
[4]
.
¶{p. 12}
Note
[1] Si veda la breve rassegna di Musei e TikTok: quando l’arte sbarca sul social della GenZ, in «Treccani-Accademia», 25 novembre 2021, https://treccaniaccademia.it/news/musei-e-tiktok-quando-larte-sbarca-sul-social-della-genz/ (ultimo accesso: gennaio 2023).
[2] Diversi sono del resto i progetti (europei e nazionali) che hanno contribuito e tuttora contribuiscono, anche grazie alla creazione di piattaforme digitali, a sensibilizzare sull’utilizzo delle ICT in ambito culturale promuovendo strategie di accessibilità e valorizzazione del patrimonio. Per i primi cfr. ad esempio, nel mare magnum di proposte, l’importante biblioteca digitale Europeana (https://www.europeana.eu/it, ultimo accesso: gennaio 2023), piattaforma nata nel 2008, su volontà della Commissione europea, che raccoglie materiali digitalizzati da diverse istituzioni appartenenti ai paesi membri dell’Unione, consentendovi l’accesso libero. Altra iniziativa particolarmente degna di nota è il progetto Mu.SA: Museum Sector Alliance (http://www.project-musa.eu/it/, ultimo accesso: gennaio 2023), approvato nell’ambito del programma di finanziamento Erasmus+/Settore Skills Alliances e nato nel 2016 con «lo scopo di affrontare il crescente divario tra l’educazione formale, la formazione e il mondo del lavoro, causato dall’insorgere di nuove professionalità e dal ritmo accelerato dell’adozione delle nuove tecnologie (ICT) nel settore museale», lavorando quindi all’acquisizione di competenze digitali da parte dei professionisti del settore (su ICT e beni culturali cfr. anche Bonacini [2011]). Per i progetti italiani, cfr. l’hub di CulturaItalia (2008, http://www.culturaitalia.it/, ultimo accesso: gennaio 2023) e l’Osservatorio innovazione digitale nei beni e attività culturali (https://www.osservatori.net/it/ricerche/osservatori-attivi/innovazione-digitale-nei-beni-e-attivita-culturali, ultimo accesso: gennaio 2023) del Politecnico di Milano, che sostiene lo sviluppo dell’innovazione e della comunicazione digitali presso le istituzioni culturali. Mandarano [2019, 7-8] si sofferma opportunamente sul d.m. n. 113 del febbraio 2018 emanato dall’allora MiBACT (oggi MiC), Adozione dei livelli minimi uniformi di qualità per i musei e i luoghi della cultura di appartenenza pubblica e attivazione del Sistema museale nazionale (nell’ambito appunto del progetto Sistema museale nazionale). Nell’allegato a tale decreto spicca l’invito rivolto alle istituzioni museali italiane a dotarsi di strumenti digitali adeguati per ottimizzare la propria mission in termini di accessibilità, digitalizzazione e comunicazione.
[3] Si veda M9 – Museo del ’900 di Mestre, https://www.m9museum.it/ (ultimo accesso: gennaio 2023).
[4] Cfr. a proposito il modello di Viola e Cassone [2017, 37-41] dedicato alle tre fasi del coinvolgimento: attrazione, interazione e – appunto – esperienza.