Verso il museo multimediale della lingua italiana
DOI: 10.1401/9788815410283/c11
Stefano Telve La città della lingua
Notizie Autori
Stefano Telve insegna Linguistica italiana presso l’Università degli
studi della Tuscia di Viterbo. Si occupa di sintassi e linguistica testuale
dell’italiano in diacronia, grammaticografia del Cinquecento e del
Settecento, linguaggi specialistici e italiano lingua per musica. È stato
coautore della mostra sulla lingua italiana Dove il sì suona
(Firenze, Galleria degli Uffizi, 13 marzo 2003-6 gennaio 2004) e della
successiva riedizione La dolce lingua (Zurigo, Museo nazionale,
2005). Tra le sue ultime pubblicazioni il volume Lessico
specialistico (2020).
Abstract
Negli ultimi otto anni il numero dei musei a livello mondiale è aumentato del 60% circa. Nonostante la sua lunga carriera, il museo è dunque tutt’altro che un’istituzione invecchiata. È del resto fin troppo ovvio constatare quanto l’oggetto museo, col passare del tempo e delle epoche, si sia periodicamente rigenerato, riempiendosi di altro e rivestendosi di nuovo. Il compito è però assolto solo se quanto è conservato e documentato saprà anche essere valorizzato e comunicato. Il presupposto perché ciò avvenga è dato, nel caso del museo fisico o, come anche si dice, reale, dalla sua dimensione spaziale: un luogo raccolto di contatto e di incontro che, attraverso varie e originali soluzioni, consente di coinvolgere i visitatori in un’esperienza di conoscenza e di emozione che li renda effettivamente partecipi della visita e consapevoli di essere parte di una comunità definita. La città rappresenta perfettamente il museo disperso della lingua: il visitatore la potrà attraversare e vivere come singolo individuo, con la sua personale parole, e come essere sociale, con la sua langue condivisa, scegliendo a suo piacimento un certo percorso di visita e, lungo questo, le tappe e le soste che vorrà fare, con i tempi che desidera.
Negli ultimi otto anni il numero dei
musei a livello mondiale è aumentato del 60% circa. Nonostante la sua lunga carriera, il
museo è dunque tutt’altro che un’istituzione invecchiata. A perdere significato rischia di
essere oggi non tanto il termine o l’istituzione che questo designa, ma semmai
un’espressione come cosa, roba o pezzo
da museo che in italiano e in altre lingue di cultura europee sottende
un’idea del museo come mero ricettacolo di anticaglie; un’idea che la vitalità e il
rinnovamento attuali spingono irrimediabilmente in un passato sempre più lontano. Il
museo-santuario è del resto una concezione superata ormai da circa mezzo secolo,
sopravanzata da altre, più ampie e non facilmente enumerabili filosofie: l’ecomuseo, la
nuova museologia, la museologia critica, la museologia postmoderna, la sociomuseologia e
altro ancora.
È del resto fin troppo ovvio constatare
quanto l’oggetto museo, col passare del tempo e delle epoche, si sia periodicamente
rigenerato, riempiendosi di altro e rivestendosi di nuovo. Questo perché il museo è uno dei
luoghi pubblici istituzionali, per non dire il luogo pubblico
istituzionale, che più di ogni altro riflette la società nella quale è inserito, mutando e
adeguandosi in relazione alle circostanze e ai fini per meglio esprimerne i cambiamenti in
atto.
Il mutamento investe il contenuto,
naturalmente, e le differenti finalità, così come il contenitore al quale è intimamente
correlato, che tanto più in questi ultimi decenni va assumendo forme architettoniche
innovative, originali, dal forte valore simbolico: spiccando rispetto al tessuto urbano
circostante come pezzo unico e originale, il nuovo edificio e sede museale rappresenta
iconicamente l’ambiziosa funzione culturale, unica e specifica, di interpretare e al tempo
stesso esprimere e orientare gli interessi, le esigenze, ¶{p. 108}i
desideri, i sentimenti e le manifestazioni della società civile del proprio tempo, sia verso
sé stessa, sia nei riguardi dei visitatori stranieri.
Il museo aspira non più solo a
conservare, custodire ed etichettare pezzi unici e rari; diciamo pure oggetti volumetrici.
Ma anche a documentare il transeunte e l’effimero, oggetti propri di un mondo digitalizzato:
oggetti non volumetrici, come la voce, o meglio ancora i suoni, e le immagini, statiche e
dinamiche, ricolme dei codici di cui sono portatrici, nonché le molteplici forme
comunicative che sorgono dall’incontro dei primi con le seconde; oggetti che appartengono a
quelle testimonianze immateriali introdotte nel 2004 dall’ICOM.
Il compito è però assolto solo se quanto
è conservato e documentato saprà anche essere valorizzato e comunicato. Il presupposto
perché ciò avvenga è dato, nel caso del museo fisico o, come anche si dice,
reale, dalla sua dimensione spaziale: un luogo raccolto di contatto
e di incontro che, attraverso varie e originali soluzioni, consente di coinvolgere i
visitatori in un’esperienza di conoscenza e di emozione che li renda effettivamente
partecipi della visita e consapevoli di essere parte di una comunità definita.
Ma i confini della musealizzazione si
sono estesi oltre il perimetro circoscritto degli spazi urbani e hanno trovato nei tempi
recenti nuovi territori negli infiniti spazi virtuali, dove il rapporto tra contenuto,
contenitore e fruitore è oggetto di una nuova rinegoziazione e ridefinizione.
Nel caso del MULTI, museo esclusivamente
virtuale dedicato alla storia della lingua italiana, abbiamo scelto di ricreare il luogo
d’incontro della visita, esperienza intellettuale ed emotiva insieme, nella dimensione
vitale e sociale per eccellenza: la città. La similitudine tra architettura urbana e
linguaggio è innanzitutto «interna», strutturale (a questo proposito è facile richiamare un
celebre passaggio delle Osservazioni filosofiche di Ludwig
Wittgenstein: «Il nostro linguaggio può essere considerato come una vecchia città: un dedalo
di stradine e piazze, di case vecchie e nuove, e di case con parti aggiunte in tempi
diversi; e il tutto circondato da una rete di nuovi sobborghi con strade diritte e
¶{p. 109}regolari, e case uniformi», § 18). La costruzione linguistica,
proprio come il paesaggio urbano, è un sistema definito ma incompiuto, pianificato e insieme
spontaneo, popolato di codici, di simboli, di metafore, di episodi espressivi ostentati o
nascosti, con zone di silenzio, di rumore e di voci, con aree di sosta e vie di scorrimento.
Vivere la città è fare esperienza di una lingua, e viceversa. La similitudine è dunque anche
comoda metafora espositiva che proietta in un ambiente a noi familiare una nozione
altrettanto intima e comune quanto astratta.
L’accostamento vale però anche secondo
una prospettiva «esterna», storica: la città è il centro di gravità del fare sociale,
crocevia dei dinamismi comunicativi e centro propulsore e acceleratore della lingua, il
posto dove la lingua si fa e dove la lingua
diviene, il luogo che si anima dei propri passanti, come la lingua
si anima dei propri parlanti (la lingua è i parlanti). La città è
dunque punto di formazione, di trasformazione e di convivenza dei diversi luoghi
istituzionali, privati e pubblici (piazze, strade, chiese, scuole, teatri, cinema, gallerie
d’arte, officine, studi, appartamenti…), dove le mille voci dell’italiano da sempre
s’incontrano e risuonano, ricadendo in altrettante forme di scrittura, artistica o pratica,
che si costituiscono e si consolidano socialmente in tradizioni scrittorie, rimescolandosi
tra loro e rimbalzando da una città all’altra di un paese, l’Italia, che ha proprio nel
policentrismo la sua principale peculiarità storica, sociale e geopolitica e la sua forza.
La città rappresenta perfettamente il
museo disperso della lingua: il visitatore la potrà attraversare e vivere come singolo
individuo, con la sua personale parole, e come essere sociale, con la
sua langue condivisa, scegliendo a suo piacimento un certo percorso di
visita e, lungo questo, le tappe e le soste che vorrà fare, con i tempi che desidera.
Questa forma di partecipazione – o di
«ingaggio», come a volte si dice – del visitatore è attivata non solo sensorialmente
(attraverso il dinamismo visuale di immagini, filmati, testi, voci), ma prima ancora
intellettualmente, attraverso il meccanismo d’accesso della domanda/risposta che, secondo un
modello già noto in ambito museale e didattico, consente ¶{p. 110}di
accogliere il visitatore e di soddisfarne le curiosità di fondo e gli stimoli che la visita
stessa via via sollecita; per non dimenticare che, in fatto di lingua, il visitatore non è
spettatore ma parte stessa della visita.