Contrattazione e partecipazione
DOI: 10.1401/9788815374950/p1
Cosa peraltro già chiaramente
divenuta visibile alla fine
¶{p. 16}degli anni settanta dello
scorso secolo (Ghezzi 1981 e 2012. Cfr. pure Lassandari 2012, p. 10 ss. e Martelloni
2012, p. 169 ss.).
A proposito allora delle molte
vicende, osservazioni, suggestioni presenti in Contrattazione e partecipazione, solo in
piccola parte riportate in questa Prefazione, merita selezionarne alcune, secondo
personale libera (ed opinabile) scelta, al fine di provare a formulare rilievi utili a
descrivere od indagare anche lo scenario contemporaneo.
Intanto a proposito di elementi
risalenti, in taluni casi anzi oggettivamente divenuti parte del patrimonio di
archeologia giuridica che proprio la ricerca di Umberto Romagnoli ha così tanto
contribuito a disvelare, i quali però per alcuni versi sono riapparsi.
Quando nel 1958 viene introdotta la
CM in Bassetti - all’interno di un contratto aziendale che precede non di poco le
clausole dei contratti nazionali sulla “contrattazione articolata”; con la mancata
sottoscrizione, per più versi scontata, della Cgil ma anche la contrarietà ed
irritazione di Assolombarda – nella generalità delle aziende operava un «potere
assoluto» dell’imprenditore (p. 63).
La sperimentazione è letta dunque
anche come prima apertura verso la affermazione di un «potere costituzionale» nella
fabbrica. Pur costituendo inizialmente una esperienza isolata; forse dovuta in buona
parte al “protagonismo” politico di Piero Bassetti
[4]
, che – come ironizzò Accornero (1969, p. 140) - «sinistreggia nella
Democrazia cristiana a proposito di “partecipazione” dal basso».
Allo stesso modo, sempre in questo
frangente di fine anni cinquanta, non mancano punti di vista ed approcci di carattere o
sapore “comunitario”, i quali resteranno peraltro chiaramente visibili nello stesso
dibattito pubblico, interno ed esterno alla Bassetti, ancora per almeno un lustro.
Mentre assumeva grande importanza,
secondo il punto di vista dell’impresa, l’obiettivo, pure connesso alla sperimentazione
della CM, di diffondere presso i lavoratori, anche con il contributo del sindacato, una
adeguata ed innovata «mentalità produttivistica» (p. 12).
Ebbene questi aspetti sono tutti
ricomparsi nella fase ¶{p. 17}contemporanea, sia pure in
forme parziali ed inevitabilmente diverse. Soprattutto se si pensa al portato ideologico
ma anche concreto connesso ed innestato dalla “vicenda Fiat”, circa un decennio addietro
(vedi Il caso Fiat: una crisi di sistema? nonché La cronaca si fa storia: da Pomigliano
a Mirafiori 2011).
Nel contesto allora della
competitività esasperata, “imposta” dalla globalizzazione senza regole, la «mentalità
produttivistica» è divenuta un elemento pervasivo e fondamentalmente incontestato.
Sembrando anzi «naturale che la contrattazione collettiva ed il conflitto siano resi
funzionali alla produttività delle imprese» (Lassandari, 2012, p. 13), spesso peraltro
del tutto impropriamente confusa con la produttività del lavoro (cfr. Della produttività
e diritto del lavoro 2009).
Così però si procede molto avanti
pure a proposito della comunione di interessi tra imprenditore e prestatori. Senza in
effetti giungere a (ri)proporre schemi di configurazione giuridica del rapporto di
lavoro del tutto desueti e probabilmente irrecuperabili, è stata però implicitamente ed
esplicitamente messa in forte discussione la dialettica tra capitale e lavoro, che pure
Giugni e Romagnoli non mancano di descrivere come “inevitabile” in Contrattazione e
partecipazione. In particolare se osservata dalla e nella impresa (Bavaro 2012). Dove si
è piuttosto individuata una “alleanza” di produttori, presentata come necessaria per
competere nel mercato (con altri produttori).
Infine se risulta oggi
improponibile parlare di «potere assoluto» dell’imprenditore - in presenza dello Statuto
dei lavoratori, pur fortemente modificato, e soprattutto della cultura giuridica che a
partire da esso si è sviluppata - non può essere dimenticato come i vincoli
“costituzionali” al potere stesso siano stati ridotti in modo sostanziale, in
particolare alla luce dei provvedimenti legislativi che tra il 2012 e il 2015 hanno
riguardato il licenziamento (cfr. Romagnoli 2013, 2015a e 2015b). Così che quel potere,
in un mercato che vede un costante forte squilibrio tra domanda e offerta di lavoro, è
tornato ad essere, tra diritto e fatto, dominante e pervasivo.
Quindi potrebbero esserci le
condizioni per l’introduzione – mutatis mutandis – di un esperimento partecipativo di
portata (oggi) tanto innovativa, quanto lo fu quello realizzato, presso la Bassetti, nel
lontano 1958?
Tenendo evidentemente conto del
fatto che l’autonomia ¶{p. 18}collettiva ha nel tempo
individuato forme ben più articolate, sofisticate e complesse di partecipazione (Ghezzi,
1978; Pedrazzoli 1985; Perulli 1999). Senza che ciò abbia però mai consentito di dare
vera e corretta attuazione all’articolo 46 della Costituzione, operazione che molto
probabilmente richiederebbe l’intervento della legge, come avvenuto in altri ordinamenti
(Pedrazzoli 1991. Cfr. pure Biasi 2013 e Corti 2012. Su alcune proposte di legge
presentate più di recente in Italia vedi L’attuazione degli articoli 39 e 46 della
Costituzione 2016).
Si è per il vero molto scettici
sull’intervento della legge, per varie ragioni che qui non è possibile approfondire. A
proposito invece di ipotetiche operazioni di rafforzamento di esperienze partecipative,
che sempre e comunque coinvolgano la (sola) autonomia collettiva, trovo attuali e capaci
probabilmente ancora oggi di sollecitare e dividere nel dibattito, due osservazioni di
Umberto Romagnoli già contenute in Contrattazione e partecipazione.
Ecco allora che viene tuttora
frequentemente proposta la divisione tra sindacato “partecipativo” e “conflittuale”. La
quale però a me sembra impropria - al di là di rilievi sempre meno significativi, in
presenza dei radicali cambiamenti di cui si diceva, su ipotetiche preferenze e tendenze
presenti presso le diverse organizzazioni – perché un sindacato autorevole, se è tale,
utilizza quali strumenti il contratto collettivo, il conflitto e la partecipazione
innanzitutto, in relazione a ciò che a suo avviso la situazione richiede, per
raggiungere i propri obiettivi. Senza poter escludere – si perdoni l’“eresia” – che lo
stesso conflitto risulti all’occorrenza propedeutico e strumentale … alla
partecipazione.
Invece se il sindacato non è
autorevole non ha in verità a disposizione alcuno strumento: tantomeno la
partecipazione, certo non concessa o riconosciuta a prescindere da considerazioni, da
parte dell’impresa, sulle proprie convenienze ed i rapporti di forza.
Questa sembra però sia anche
l’opinione di Romagnoli, espressa più volte appunto in Contrattazione a partecipazione.
Nel 1958 – ma anche in seguito - erano i sindacati ad avere dubbi sulla «natura
sindacale e contrattuale del fatto consultivo» nonché sul fatto che «le richieste di
consultazione preventiva sulle decisioni organizzative si pongano come legittime
rivendi¶{p. 19}cazioni di nuovo tipo» (p. 114). Oggi invece,
a partire da una diffusa - quanto velleitaria, direi, considerati gli esiti concreti -
preferenza per la partecipazione, sembrerebbe il conflitto ad essere stato esiliato: non
perché non “sindacale”, che fino a tanto non sembra possibile giungere; piuttosto perché
ritenuto obsoleto, inutile, dannoso.
C’è però anche un’altra questione,
in parte connessa alla prima, che coinvolge ora l’approccio sindacale. La medesima che
spinse Accornero a criticare le considerazioni espresse da Romagnoli.
E’ opportuno che il sindacato “si
sporchi le mani”, provando davvero ad incidere sul processo organizzativo, anche in
relazione ad es. alle ricadute sulla salute e sicurezza dei prestatori, oppure no?
Meglio eventualmente contrapporsi, senza intervenire “nel merito”.
E’ passato molto tempo dalla
pubblicazione di Contrattazione e partecipazione; sono in particolare venuti meno, come
si diceva, anche i “sogni”, per alcuni, di ottenere quella radicale modificazione del
“sistema della fabbrica” già auspicata da Accornero, ma non si è affatto certi che in
ambito sindacale l’atteggiamento già allora registrato sia davvero e/o completamente
mutato.
Spesso si parla al riguardo,
probabilmente a ragione, di carenza di competenze, da parte dei lavoratori come dei loro
rappresentanti sindacali. Come per il vero si osservava nel lontano 1958, in Bassetti.
Il profilo principale da
considerare forse è tuttavia un altro e concerne appunto le scelte, non necessariamente
esplicite, delle organizzazioni sindacali.
Note
[4] Vedi la nota 2.