Dalla tutela alla parità
DOI: 10.1401/9788815374257/c1
L’Italia si rendeva conto ad un tratto
dell’importanza del lavoro femminile: fu in questo periodo che vennero avanzate, da
parte dell’interventismo di origine democratica (re
¶{p. 31}pubblicano e
socialista), le proposte paritarie più contrastate in passato (suffragio e parità
salariale), riprese nel 1917 dal P.S.L e dalla C.G.L. Quanto alla classe dirigente, essa
abbandonava temporaneamente la vecchia demagogia (l’alta funzione di madre, la grazia
femminile), per stimolare la produttività delle operaie e delle contadine, magari in
nome della «patria» e dei «figli»; e il governo l’assecondava, istituendo le medaglie al
merito agricolo e i diplomi di benemerenza. Ma, alla fine della guerra, alle
duecentomila operaie smilitarizzate, alle tante contadine improvvisate, quegli stessi
ambienti non seppero suggerire che di riprendere l’antico posto tra i fornelli: la
«patria vittoriosa» compensava la fatica e il sacrificio delle donne con un assegno di
smobilitazione
[84]
.
C’è da considerare che la massiccia reimmissione
nelle fabbriche, in condizioni di lavoro molto pesanti, e con salari al 50% di quelli
maschili, aveva costituito la premessa ad una ripresa della partecipazione sindacale e
politica delle donne: le manifestazioni di Torino, nel 1917, costrinsero il governo ad
emanare un decreto sulla mobilitazione industriale
[85]
, il cui punto fondamentale era la creazione di un comitato regionale ‒ del
quale faceva parte anche una rappresentanza operaia ‒, avente funzione di controllo
sull’applicazione delle norme igienico-sanitarie e sull’orario di lavoro. Anche questa
(non gradita) ripresa di combattività deve essere messa tra le ragioni che
determinarono, nel dopoguerra, la scelta dell’espulsione di massa delle donne, quale
risposta ai problemi della riconversione dell’industria bellica e del reinserimento
degli ex combattenti nelle attività produttive. Il padronato, appoggiato dal governo,
usò l’espulsione come strumento per il controllo delle forti tensioni sul mercato del
lavoro, e per la rapida reintegrazione dei tradizionali ruoli familiari, modificati
dalle contingenze belliche.
Mancò alle donne la capacità di reagire ai
licenziamenti di massa, perché: a) venne meno, di fronte al pesante
attacco padronale, la solidarietà della classe operaia e degli organismi sindacali;
travolti dall’antifemminismo del momento
[86]
e preoccupati della concorrenzialità del lavoro femminile, essi diedero la
priorità al lavoro degli uomini e favorirono il «ri¶{p. 32}torno delle
donne in famiglia»; b) mentre nella vita dei partiti si
riflettevano le contraddizioni della condizione femminile di quegli anni, all’interno
del movimento femminista affioravano fermenti antidemocratici (fino al costituirsi di
associazioni politiche nazionaliste, come si è accennato), in cui devono trovarsi i
precedenti ideologici della soluzione che darà poi il fascismo alla questione
femminile.
5. Dallo stato liberale al fascismo: la capacità giuridica e il voto alle donne.
Tutto il progresso della condizione femminile nel
dopoguerra si risolse nell’approvazione (a grande maggioranza) della legge 17 luglio
1919, n. 1176 sulla capacità giuridica delle donne. La legge, oltre ad abrogare
l’istituto dell’autorizzazione maritale, sanciva (art. 7) l’ammissione delle donne, «a
pari titolo degli uomini, ad esercitare tutte le professioni ed a coprire tutti i
pubblici impieghi», esclusi soltanto «quelli che implicano poteri pubblici
giurisdizionali, o l’esercizio di diritti o potestà politiche, o che attengono alla
difesa militare dello stato, secondo la specificazione che sarà fatta con apposito
regolamento».
La «specificazione» avvenne con R.D. 4 gennaio
1920 (artt. 2-5) che precisò i casi di esclusione, attenendosi, grosso modo, ai criteri
stabiliti dalla legge
[87]
.
L’art. 7 della L. n. 1176 è
generalmente ‒ e non infondatamente ‒ considerato una tappa decisiva dell’emancipazione
delle donne
[88]
. Chi esprime tale giudizio tiene certo conto dell’intento dichiarato del
legislatore di «proclamare l’uguaglianza completa della donna all’uomo nell’ammissione
all’esercizio di tutte le professioni e di tutti gli impieghi pubblici». Nella relazione
al senato, Bensa avvertiva che, se non era quello il momento di esaminare la
rivendicazione femminile della parità assoluta (particolarmente in relazione
all’elettorato politico e amministrativo ed alle funzioni che implicassero una
partecipazione ai pubblici poteri), per quanto invece riguardava «l’ammissione delle
donne alle professioni e agli impieghi, la questione se le donne [...]
deb¶{p. 33}bano essere escluse pel solo motivo del sesso, è diventata
una questione di giustizia sociale, che non può risolversi negativamente»
[89]
. E nel dibattito alla camera era già prevalsa la volontà di considerare
tassative le eccezioni previste dall’art. 7, limitando con ciò la potestà del governo di
interpretare la formula astratta della legge, e circoscrivendone l’azione regolamentare,
al fine di non consentire alcuna estensione dell’esclusione delle donne dai pubblici
impieghi
[90]
.
Basta però non fermarsi al testo dell’art. 7 (e
del regolamento) o alle dichiarazioni dei parlamentari, per essere costretti ad avanzare
giudizi più prudenti: non sul valore di principio della norma, indubbiamente
innovatrice, ma sui risultati pratici che le donne avrebbero tratto dall’entrata in
vigore di essa.
Punto di partenza della vicenda applicativa
dell’art. 7 L. n. 1176, può essere considerato il parere formulato dal consiglio di
stato (adunanza generale, 20 maggio 1920)
[91]
sui quesiti, proposti dal ministero della pubblica istruzione, circa
l’ammissibilità delle donne all’insegnamento nelle scuole medie maschili di secondo
grado e ad altri impieghi (ad es., direttore o istitutore di convitti nazionali
maschili, ecc.). Alle domande del ministero, il consiglio di stato rispondeva che le
disposizioni precedenti l’entrata in vigore della legge n. 1176/1919, nelle quali
fossero contenute limitazioni all’accesso delle donne agli impieghi pubblici, diverse ed
ulteriori rispetto a quelle previste dalla nuova legge (e relativo regolamento), non
potevano essere «senz’altro» applicate dalla pubblica amministrazione. Ma aggiungeva
subito (a chiarimento del «senz’altro») che «l’ammissione delle donne a tutti gli
impieghi e uffici», sancita dalla legge n. 1176, comportava sì la piena uguaglianza di
diritto dei due sessi, ma non l’«assoluta eguaglianza di fatto». Ad avviso del consiglio
di stato, la parità giuridica non aveva infatti tolto che, in concreto, fosse
«necessario o utile od anche conveniente che, per ragioni derivanti dalle esigenze
proprie di determinati uffici, in relazione alle qualità inerenti al sesso», le donne
venissero in via d’eccezione escluse da tali uffici, «quasi come con i medesimi
incompatibili». Una «ragionevole» interpretazione della legge portava a concludere nel
senso che fosse nel¶{p. 34} potere delle amministrazioni di individuare
casi di esclusione delle donne non previsti dall’art. 7 L. n. 1176 (e regolamento). il
consiglio di stato riteneva tuttavia necessario che, nella determinazione delle
esclusioni, la pubblica amministrazione si conformasse a due direttive:
a) le esclusioni non potevano essere motivate sul presupposto
dell’inferiorità morale o intellettuale della donna (inferiorità disconosciuta dall’art.
7 L. n. 1176), ma solo sulle obiettive esigenze di determinati uffici;
b) l’amministrazione doveva precisare con «concrete e tassative
norme, da approvarsi nei modi di legge» (cioè con regolamento) quali degli uffici da
essa dipendenti ritenesse, per speciali ragioni, di dover interdire alle
donne.
Per spiegare il senso di tale seconda direttiva
(necessità di determinare nel regolamento i casi di esclusione), il consiglio di stato
argomentava che la revisione delle norme sull’accesso agli impieghi, resa necessaria
dall’entrata in vigore della legge n. 1176, non poteva essere riservata ai capi delle
amministrazioni che, nel fissare l’esclusione delle donne, avrebbero potuto lasciarsi
guidare «dall’inammissibile presupposto della loro inferiorità».
L’introduzione di queste due direttive (o cautele)
non modificava il significato complessivo del parere: come puntualmente sottolineava
Cammeo, il consiglio di stato mostrava di condividere il pregiudizio dell’inferiorità
delle donne; mostrava cioè di fare a pieno titolo parte di una burocrazia «composta di
maschi, con pregiudizi antifemministi spiccati, con legami di simpatia, di studi, di
classe, di tradizioni, con tutto l’elemento maschile degli aspiranti, pure contrario
alla concorrenza delle donne»
[92]
. L’opinione di Cammeo sulla burocrazia italiana doveva essere condivisa dal
legislatore il quale, considerando quanto il personale burocratico influisse nella
definizione dei contenuti dei regolamenti, aveva espressamente riservato a sé la
determinazione delle esclusioni delle donne dai pubblici uffici e impieghi, con ciò
impedendo al potere esecutivo di provvedere ad esclusioni ulteriori mediante
regolamento.
Quali che fossero le specifiche motivazioni ‒ di
opportunità o di interesse ‒ che avevano ispirato la formulazione del parere, è certo
che il consiglio di stato si era consape¶{p. 35}volmente discostato
dalla lettera dell’art. 7 L. n. 1176, ignorando sia i lavori preparatori alla legge, sia
la relazione ministeriale al R.D. 4 gennaio 1920, inequivoci nell’indicare la
tassatività delle esclusioni. Così facendo, il consiglio di stato non si era proposto
solo l’obiettivo di restituire alla burocrazia un potere che le era stato sottratto dal
parlamento; ancora di più premeva al collegio negare quel valore di profonda riforma che
la legge del 1919, applicata alla lettera, poteva avere. Infatti, riconoscere ‒ come
riconosceva il consiglio di stato ‒ alla pubblica amministrazione il potere di
introdurre per regolamento nuove limitazioni all’accesso delle donne agli impieghi (o di
confermare quelle già esistenti) significava affermare che la legge n. 1176 aveva si
sancito la «generica capacità giuridica delle donne», ma non aveva conferito loro
l’uguaglianza cogli uomini. E se, nonostante la legge, le amministrazioni potevano
continuare a definire con proprie norme «l’inattitudine concreta» delle donne ad uffici
ed impieghi, ai quali pure erano dichiarate giuridicamente capaci dalla legge, senza
dubbio le donne restavano di fatto diseguali.
Il parere del consiglio di stato non meriterebbe
ulteriore attenzione se ci si potesse fermare alla osservazione che, stante il carattere
imperativo dell’art. 7 L. n. 1176, e la chiarezza della sua formulazione, la distinzione
fra «capacità giuridica» ed «eguaglianza» era sicuramente insostenibile. Ma l’importanza
di questo intervento del consiglio di stato trascende di molto la scorrettezza delle
argomentazioni, o la stessa disinvoltura con cui si autorizzava la pubblica
amministrazione a violare una legge non gradita; sono invece rilevanti le negative
conseguenze che il parere, e la conforme giurisprudenza successiva del consiglio di
stato
[93]
, ebbero nell’applicazione pratica dell’art. 7.
Conviene ricordare al riguardo che, nel parere del
1920, l’oggetto prevalente dell’attenzione del collegio era la (allora) delicata
questione dell’accesso delle donne all’insegnamento nelle scuole (specie di grado
superiore). Autorizzando il ministero della pubblica istruzione ad inserire nel
regolamento esclusioni delle donne dall’insegnamento (in talune scuole e/o di talune
materie, a discrezione del ministero), il
¶{p. 36} consiglio di stato
interveniva pesantemente in un settore nel quale l’offerta di lavoro delle donne del
ceto medio era consistente
[94]
. Negare alle donne il diritto di insegnare significava, in primo luogo,
limitare l’incidenza della legge del 1919 sulla composizione del personale docente e, in
definitiva, sul livello di occupazione maschile nelle scuole. In secondo luogo, lasciare
alla discrezionalità dell’amministrazione il giudizio sull’attitudine delle donne ‒ in
quanto donne ‒ all’insegnamento, voleva dire legittimare la «meditata» opinione del
ministero, secondo il quale «la formazione della mente e del carattere del cittadino
devono compiersi nella scuola media di secondo grado in ¡specie attraverso certi
insegnamenti, e questi non possono essere affidati alla donna, la quale non dà adeguato
affidamento per le sue qualità fondamentali, che non sono modificabili da tirocinio e
cultura»
[95]
.
Note
[84] F. Pieroni Bortolotti, Socialismo e questione femminile, cit., p. 129. Ma il fenomeno della flessione dell’occupazione femminile, nell’industria e nell’agricoltura, non era solo italiano: cfr. E. Sullerot, La donna e il lavoro. Storia e sociologia del lavoro femminile, trad. it., Milano, rist., 1973, pp. 119 seg.
[85] D. L. LGT. 17 febbraio 1917, n. 322. Sui moti di Torino v. ancora C. R a vera, op. cit., pp. 88 seg.
[86] La conflittualità del rapporto fra manodopera femminile e maschile era destinata ad esplodere nei momenti critici. Se nell’immediato dopoguerra le donne venivano costrette a lasciar liberi i posti che avevano fino ad allora occupato in sostituzione degli uomini, agli uomini la propaganda presentava le donne come «indebite usurpatrici delle mansioni maschili». I proletari maschi mostravano ostilità verso le donne lavoratrici, e questo atteggiamento trovava «terreno fertile e non remote radici nei pregiudizi antifemminili caratteristici delle società patriarcali pre-industriali»: S. Puccini, Condizione della donna e questione femminile, cit., p. 39. La stessa a. riporta in proposito un interessante brano di G. Giannini Alessandri, Due milioni di senza marito, in «Critica sociale», XXXII, n. 6, marzo 1922. L’interesse non nasce tanto dalle cose, un po’ ovvie, scritte dalla Giannini, quanto dalla storia personale di questa a. che ritroviamo, a pochi anni di distanza, fervente ammiratrice della politica fascista verso le donne. Della Giannini fascista possono ricordarsi il breve saggio Il lavoro della donna e il sindacalismo fascista, in «Il diritto del lavoro», 1927, p. 933 e la monografia La difesa della razza nel regime fascista, Roma, 1930, recensendo la quale G. Miraldi, in «Il diritto del lavoro», 1930, I, p. 707, scriveva: «è questa un’opera, chiara e sincera, di propaganda delle concezioni e delle realizzazioni fasciste nel campo demografico».
[87] Nell’ampia relazione ministeriale al regolamento si affermava che vi erano altri impieghi ‒ oltre quelli previsti dall’art. 7 della L. n. 1176 ‒ da cui le donne avrebbero dovuto essere escluse (come gli impieghi di istitutore nei riformatori maschili, direttore delle carceri maschili, istitutore nei collegi e convitti maschili) per ragioni di opportunità e «nell’interesse dei servizi»; tuttavia la relazione si preoccupava di precisare che, data la formula tassativa della legge, a tali opportune esclusioni non poteva procedersi nel regolamento. Il regolamento però precludeva alle donne «ogni funzione direttiva, così come la carriera diplomatica, quella dell’esercito, della magistratura»: lo sottolinea A. Picciotto, Evoluzione della condizione giuridica della donna nella famiglia, in L’emancipazione femminile in Italia, cit., p. 199. Solo nel 1960 l’art. 7 della legge n. 1176/1919 è stato dichiarato incostituzionale, per contrasto con gli artt. 3 e 51 cost.: Corte cost., 18 maggio 1960, n. 33.
[88] Così M. Bellomo, La condizione giuridica della donna in Italia. Vicende antiche e moderne, Torino, 1970, p. 136; il giudizio è ripreso da E. Santarelli, Il fascismo e le ideologie antifemministe, in «Problemi del socialismo», 1976, n. 4, p. 82, che avverte tuttavia come la legge del 1919, frutto della guerra, dovesse vivere lo spazio di un mattino.
[89] La relazione al senato, stesa da E. Bensa, si può leggere in «Giurisprudenza italiana», 1919, IV, c. 24. Le relazioni alla camera e al senato sono ampiamente citate da F. Cammeo, Le donne e gli impieghi pubblici, ivi, 1921. 11. cc. 77 seg. nota al parere Cons. stato, 20 maggio 1920.
[90] F. Cammeo, Le donne e gli impieghi pubblici, cit., c. 84. Aggiungeva l’a.: «non fu forse una reazione e una rivendicazione determinata dalla maggioranza dell’opinione pubblica del ceto femminile. Fu, ci sembra, reazione e rivendicazione voluta dai ristretti, per quanto autorevoli, circoli femminili, da gruppi intellettuali maschili di alti e liberali sensi, da particolari ambienti politici». E concludeva affermando che, se di «eccesso rivendicatore» doveva parlarsi, questo non era soltanto nella lettera della legge, ma proprio nell’intenzione. L’intento riformatore della legge era confermato da E. Bensa, nella cit. relazione al senato: «il valore di questo articolo [art. 7] si fa sentire specialmente nell’affermazione del principio che affronta espressamente e risolutamente una tradizione di molti secoli e la infrange»; ancora, «uniche eccezioni [al principio della parità assoluta] sono quelle che si riferiscono alle funzioni che implicano poteri politici o giurisdizionali, o sono attinenti alla difesa nazionale, eccezioni che non ci soffermiamo a commentare, perché allo stato delle cose le rivendicazioni del sesso gentile non si estendono, presso di noi, alla figura della donna soldato, e neppure a quella della donna prefetto o giudice, benché il disegno in esame non indietreggi dinnanzi a quella della donna arbitro». Ma poi il relatore aggiungeva qualche graziosa argomentazione diretta a prevenire ogni critica di «eccesso riformatore»: «ci sia lecito insorgere contro l’assiomatica tesi, che il divenire la donna capace ed effettivamente investita di quegli uffici che per l’uomo sono annoverati fra i più onorevoli, la sospinge fatalmente al trapasso in quella non simpatica categoria che fu ironicamente appellata il terzo sesso, e la spogli di quelle soavi caratteristiche di bontà, di grazia, di verecondia, in una parola di femminilità nel senso più squisito della espressione, che circondano di un’angelica aureola le care figure della sposa, della madre, della sorella. La creatura che di queste doti si adorna nulla scapiterà per la sua maggiore elevazione sociale, la quale anzi contribuirà validamente a farne sempre più la preziosa collaboratrice dell’uomo nelle ardue lotte dell’esistenza».
[91] In «Giurisprudenza italiana», 1921, III, c. 77.
[92] F. Cammeo, op. cit., c. 87. Occorre ricordare che l’a. in buona parte condivideva le motivazioni sostanziali sottese al parere del consiglio di stato, giacché riteneva ancora persistenti ragioni di opportunità tali da sconsigliare l’accesso delle donne a tutti gli uffici e impieghi pubblici. Dissentiva però dal risultato cui era pervenuto il consiglio di stato nell’interpretazione; risultato che l’illustre giurista riteneva tecnicamente scorretto.
[93] Con decisione 1° aprile 1921, il Cons. stato (sez. IV), in «Giurisprudenza italiana», 1921, II, c. 202, aveva affermato il potere del ministero della p.i. di escludere le donne dal bando di concorso relativo alle cattedre nelle scuole secondarie maschili. Con ciò la IV sez. disattendeva addirittura la direttiva formulata dall’adunanza generale del consiglio di stato nel parere 20 maggio 1920. In base a quella direttiva, infatti, le esclusioni potevano essere introdotte solo mediante tassative norme (anche regolamentari) di revisione delle preesistenti disposizioni, ma non potevano essere fissate discrezionalmente caso per caso (nel bando di concorso, ad es.). Successivamente, la stessa IV sez. tornò ad uniformarsi alle indicazioni espresse nel parere: cfr. Cons. stato, 12 maggio 1922, in «Foro italiano», 1923, II, c.l 1; Cons. stato, 30 aprile 1927, ivi, Repertorio 1927, voce «Impiegato pubblico», nn. 23-24. Perché conforme al già cit. parere 20 maggio 1920, merita di essere segnalata la decisione 7 settembre 1928, in «Foro italiano», 1929, IH, c. 48, nella quale il consiglio di stato affermava la piena compatibilità tra Kart. 7 L. n. 1176/1919 e Kart. 11 R.D. 9 dicembre 1926, n. 2480, che escludeva le donne dai concorsi alle cattedre di storia, filosofia ed economia nei licei classici e scientifici, e di lettere italiane e storia negli istituti tecnici. Per giustificare le gravi misure che il fascismo andava prendendo contro le donne, il consiglio di stato non aveva avuto neppure bisogno di modificare la propria giurisprudenza.
[94] Secondo quanto riferiva A. Kuliscioff, nella relazione al congresso nazionale socialista (21-25 ottobre 1910), Proletariato femminile e partito socialista, in «Critica sociale», XX, nov. 1910, ora in «Donne e politica», IV, die. 1973, n. 20, nel 1910 le maestre e le professoresse erano già 62.643, contro 34.346 colleghi uomini. Commenta S. Puccini, Condizione della donna e questione femminile, cit., p. 26, che l’insegnamento doveva diventare un’occupazione prevalentemente femminile per due ragioni: perché è un lavoro da sempre mal retribuito; perché l’insegnamento (specie elementare) non rappresenta una brusca frattura rispetto ai tradizionali compiti femminili e consente di percepire un salario integrativo del bilancio familiare.
[95] Cfr., nel cit. parere Cons. stato, 20 maggio 1920, le motivazioni ai quesiti formulati dal ministero della p.i.