Note
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Prima del 1886 erano state emanate solo: la legge 11 dicembre 1873 sull’impiego dei fanciulli nelle professioni girovaghe; la legge 11 luglio 1883, che istituiva la cassa nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro. Per i fanciulli, il parlamento subalpino aveva provveduto con la legge 20 novembre 1859, n. 3755, che vietava l’adibizione dei minori di dieci anni nel lavoro sotterraneo nelle miniere. Queste leggi erano state accolte con benevolenza dalla classe dirigente perché, senza imporre sacrifici agli industriali, consentivano di appagare i buoni sentimenti filantropici e placare i timori per la questione sociale (G. Monteleone, La legislazione sociale al Parlamento italiano. La legge sul lavoro dei fanciulli, in «Movimento operaio e socialista», 1974, n. 4, p. 263). Persisteva invece la resistenza a provvedimenti che regolassero il lavoro nelle fabbriche, nel duplice aspetto dello sfruttamento della manodopera (specie donne e fanciulli) e della responsabilità degli imprenditori per gli infortuni sul lavoro. Cfr. S. Merli, Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale. Il caso italiano: 1880-1900, Firenze, 1972, vol. 1, p. 225.
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Con l’unità d’Italia erano state abrogate tutte le disposizioni sul lavoro vigenti negli stati preunitari. Così, per quanto specificamente riguarda il lavoro dei fanciulli ‒ oggetto in tutta Europa dei primi interventi della legislazione sociale ‒ era stata abrogata l’ordinanza vicereale 10 novembre 1843, vigente nelle province del Lombardo-Veneto, che stabiliva in 10 ore giornaliere l’orario massimo di lavoro per i fanciulli al di sotto dei 12 anni e vietava per essi il lavoro notturno. Ma l’ordinanza, occorre ricordarlo, era sempre rimasta lettera morta, «sia per incuria, sia per indifferenza di chi avrebbe dovuto curarne l’applicazione»: così S. Bonomi, Sul lavoro dei fanciulli negli opifìci: proposte presentate al consiglio provinciale di sanità di Como nella seduta del 21 giugno 1872, in «Annali universali di medicina», 1872. p 331. Dalla lettura delle relazioni degli studiosi dell’epoca dedicate al problema dell’occupazione dei fanciulli nelle fabbriche (a partire dalla famosa dissertazione del conte C. I. Petitti di Roreto, Sul lavoro dei fanciulli nelle manifatture, Torino, 1841, ripubblicata in C. I. Petitti di Roreto, Opere scelte, a cura di G. M. Bravo, Torino, 1969, vol. I, pp. 596-691) si apprende che, con l’unità d’Italia, niente era cambiato; solo che il fenomeno dello sfruttamento dei bambini e delle donne si era aggravato, agevolato anche dall’assenza di qualsiasi limitazione legale. Al lavoro dei fanciulli nel periodo 1840-1886 ho dedicato un saggio in: M. V. Ballestrero e R. Levrero, Genocidio perfetto. Industrializzazione e forza lavoro nel lecchese 1840- 1870, cit., al quale rinvio per ulteriori informazioni, anche bibliografiche; nel vol. sono pubblicate le relazioni di G. Sacchi, S. Bonomi, A. Errerà, cit. infra.
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S. Nitti, cit. da G. Monteleone, La legislazione sociale al Parlamento italiano, cit., p. 275. Sulla legge del 1886 cfr. anche M. L. Zavattaro, La disciplina giuridica del lavoro femminile durante gli ultimi cento anni, in Società Umanitaria, L’emancipazione femminile in Italia. Un secolo di discussioni 1861-1961, Firenze, 1963, pp. 136 seg.
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Ampi ragguagli sulle leggi che in altri paesi europei regolavano il lavoro delle donne e dei fanciulli sono contenuti nella relazione di A. Errera, Inchiesta sulle condizioni degli operai nelle fabbriche, in «Archivio di statistica», 1879, pp. 113 seg., ma specialmente nei numerosi scritti che L. Luzzatti, il più autorevole fautore di una legislazione sociale modellata sulla legislazione inglese, dedicò al problema della disciplina legale del lavoro dei fanciulli (L. Luzzatti, Opere, IV, L’ordine sociale, Bologna, 1952, pp. 699 seg., 707 seg., 711 seg., 731 seg.). In Italia, la questione del lavoro femminile divenne oggetto di inchiesta e proposte di disciplina legale solo più tardi, rispetto alla questione del lavoro infantile, di cui si preoccupavano gli studiosi (statistici, medici, economisti) già nella prima metà del secolo scorso (cfr. G. C. Marino, La formazione dello spirito borghese in Italia, Firenze, 1974, pp. 377 seg.). Si debbono a questi studiosi le prime, circostanziate denunce dell’inumano trattamento cui erano sottoposti i fanciulli operai, e le prime richieste di provvedimenti diretti a «tutelare l’infanzia e la puerizia dai pericoli fisici e morali che uno sbrigliato industrialismo le reca con sempre crescente pericolo per l’avvenire»: così G. Sacchi, Sullo stato dei fanciulli operai nelle manifatture, in «Annali universali di statistica», 1843, p. 238, riproponendo, per il Lombardo-Veneto, le conclusioni cui era pervenuto Petitti nella sua inchiesta sul lavoro dei fanciulli negli stati di S. M. Sarda. Lo stesso Sacchi premetteva alla sua inchiesta (dedicata alla Lombardia, e in particolare al distretto di Lecco, la «Manchester» italiana) l’osservazione, già di Petitti, che «la fisica e morale degradazione dei fanciulli occupati nelle manifatture istituite nei varj Stati d’Italia» era un fatto ancora nuovo per questi paesi. Ma dimostrava (con calcoli «moderatissimi», e con dovizia di particolari) quanto il malanno, seppure nuovo, fosse esteso: risultava infatti che nei grandi opifici delle province lombarde erano occupati almeno 37.800 fanciulli tra i sei e i dodici anni, che lavoravano per oltre dodici ore al giorno nelle filature di seta, cotone, lino e lana, nelle officine metallurgiche, nelle cartiere, nelle tintorie, nelle fonderie. E per capire quale portata avesse il fenomeno denunciato, descriveva dettagliatamente le condizioni dei fanciulli operai: dall’orario di lavoro (14-16 ore al giorno d’estate, 12 al giorno in media per il resto dell’anno), alle malattie (polmonari, scrofola, rachitide) «che suggono una morte immatura»; all’indole del lavoro, tale da «rendere un fanciullo macchina e peggio che macchina»; «fate che una ragazzetta frequenti il filatojo per un pajo d’anni ‒ scriveva {op. cit. p. 243) ‒ e ne avrete un imbecille».
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Sulla formazione del regolamento, v. ancora G. Monteleone, La legislazione sociale al Parlamento italiano, cit., pp. 271 seg.
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Afferma S. Merli, Proletariato di fabbrica, I, cit., p. 225, che il ricorso all’illegalità non era necessario, almeno per i grossi industriali: «diramata la legge, su pressione dei padroni, circolari ai prefetti contemplavano già una serie di deroghe».
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Cosí S. Bonomi, Sul lavoro dei fanciulli negli opifici, cit., p. 341; l’a. (nel 1872, data di pubblicazione della relazione) riteneva necessario che la protezione legale del lavoro dei fanciulli non fosse limitata ai grandi opifici, ma si estendesse a «tutti i lavoranti indistintamente: l’esecuzione della legge potrà trarre con sé delle eccezioni, la legge non deve punto riconoscerne e ancor meno crearne».
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L’esclusione degli opifici piccoli e piccolissimi dall’applicazione della legge sul lavoro dei fanciulli aveva notevole rilevanza pratica. Risulta infatti dall’inchiesta condotta da A. Errera (e pubblicata nel 1879: op. cit.) che anche in Lombardia, dove avevano sede gli stabilimenti industriali di maggiore dimensione, era grandissima la diffusione di piccolissimi opifici e del lavoro a domicilio (segnatamente per la filatura del cotone). L’a. descriveva così le condizioni di lavoro: «si lavora in camere spesso troppo anguste e scarse di luce, umide spessissimo. Uomini e donne, fanciulli d’ambo i sessi si trovano uniti al lavoro in uno stesso locale. Tutto qui attesta che l’industria vi è condotta di solito con mezzi scarsi, capitali insufficienti, poca conoscenza dell’arte esercitata. Gli effetti ne sono risentiti anche dagli operai che qui lavorano. Nulla di quei benefici economici e morali che son frutto di benevoli rapporti tra padroni e operai. I fanciulli sono aggravati di lavoro, male sorvegliati e peggio corretti nelle loro mancanze» (op. cit., pp. 138-139). E aggiungeva, a proposito del lavoro a domicilio (pp. 140-141): «gli operai, fra cui un buon numero di donne, si recano dai vari negozianti a prendere il filato, per riconsegnare la pezza di solito al cader della settimana. Certamente che il beneficio che ritraggono tali operai non è un gran che lauto, ma in compenso hanno essi il bene di restare in seno alla famiglia [...]. C’è però un grave difetto [...] cioè che i genitori, o per bisogno, o per avidità di guadagno, sottopongono ben di spesso troppo precocemente i loro figli ai pesanti lavori del telaio».
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G. Monteleone, op. cit., p. 261. Ad es., il sen. Alessandro Rossi, laniere di Schio, politico e strenuo oppositore della legislazione sociale, riteneva che, se si fosse istituito un ispettorato sulle fabbriche, secondo il sistema inglese, francese o svizzero, si sarebbero avuti «ispettori continuamente tentati di armarsi di fiscalità e di arbitrio, coprendosi di pretesti di popolarità per cui farsi credere necessari al paese, ed arrogarsi il diritto di recare noie e perditempo ai fabbricanti, assorbiti da ben altre cure» (A. Rossi, Perché una legge? Osservazioni e proposte al progetto di legge per regolare il lavoro delle donne e dei fanciulli, Firenze, 1880; il passo che ho citato può leggersi nel volumetto L’organizzazione del lavoro in Italia, a cura di M. Lichtner, Roma, 1975, nei quale sono raccolti alcuni documenti e inchieste sulle condizioni di lavoro negli stabilimenti industriali alla fine del secolo scorso). Sulla figura e il ruolo di A. Rossi, v. L. Avigliano, Alessandro Rossi e le origini dell’Italia industriale, Napoli, 1970.
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S. Bonomi, op. cit., p. 343.
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Questa affermazione (di Bequerel, a proposito delle frequenti violazioni della legge francese del 1841) è riportata da A. Errera, op. cit., p. 130; Errera riteneva, e non a torto, che ove non si tenesse conto della necessità di garantire l’applicazione della legge mediante la vigilanza sulle fabbriche di un corpo speciale di ispettori, si sarebbe mancati «di ogni buona disposizione legislativa».
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Occorre ricordare, peraltro, che in Italia non esisteva un ministero del lavoro (istituito solo con R.D.L. 3 giugno 1920, n. 700); delle questioni del lavoro si occupava il ministero dell’agricoltura, industria e commercio (MAIC). Un ufficio del lavoro, presso quest’ultimo ministero, venne istituito nel 1902. Quanto alla vigilanza sull’applicazione della legge del 1886, il MAIC invitava i pochi ispettori ad osservare criteri di tolleranza e ad usare «mezzi persuasivi più che repressivi».
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G. Monteleone, La legislazione sociale al Parlamento italiano, cit., p. 275.
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Il favore degli industriali italiani per la protezione doganale è testimoniato già dagli Atti del comitato dell’inchiesta industriale. Riassunto delle deposizioni orali e scritte, Roma, 1873, e ivi specialmente la deposizione del sen. A. Rossi. Rossi, figura di primissimo piano nel contesto economico e politico del periodo, sosteneva infatti, in polemica con L. Luzzatti, che non era possibile un vero miglioramento delle condizioni dei lavoratori, senza che fosse stata sviluppata la struttura industriale del paese, tutelata da un organico e lungimirante piano protezionistico. Con questo, e non con premature leggi sociali, lo stato avrebbe affermato ‒ secondo Rossi ‒ il proprio diritto di intervenire nell’ordine economico, quale interprete delle esigenze della nazione («comunità di produttori»): cfr. G. Are, Alla ricerca di una filosofia dell’industrializzazione nella cultura economica e nei programmi politici in Italia dopo l’unità, in L’industrializzazione in Italia ( 1861-1900), a cura di G. Mori, Bologna, 1977, pp. 174 seg. Sull’inchiesta industriale (1870-74) e gli sviluppi della politica economica protezionistica (definitivamente inaugurata nel 1888, con l’entrata in vigore della tariffa dell’87) v., di recente, F. J. Coppa, Commercio estero e politica doganale nell’Italia liberale, in L’industrializzazione in Italia, cit., pp. 161 seg.; in generale, G. Luzzatto, Storia economica dell’età moderna e contemporanea, II, L’età contemporanea dal 1700 al 1894, Padova, 1948, pp. 386 seg.
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Saranno dirette a riconoscere la «libertà di lavoro» le nuove norme (artt. 165 e 166) del codice penale Zanardelli sulla coalizione e lo sciopero; libertà ‒ affermava Zanardelli ‒ che «tempera i risentimenti e i rancori e rende più amichevoli le relazioni tra gli industriali e gli operai» (cit. da G. Neppi Modona, Sciopero, potere politico e magistratura 1870/1922, Bari, 1969, p. 7).
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Bando ai sentimentalismi, diceva il sen. Rossi, qui si tratta di pane.
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Lo stesso Berti era il promotore del primo disegno di legge sui probiviri (presentato nel 1883); il disegno non giunse neppure in discussione, perché fu coinvolto nel fallimento dell’intero disegno di dare al paese una legislazione sociale. Le ragioni di tale fallimento possono ravvisarsi nell’opposizione della borghesia industriale, nell’indifferenza della classe politica e, alla fine, nella complessità dei problemi di politica interna che contribuiva a porre in secondo piano i progetti di leggi sociali, anche quelli proposti più per fini di conservazione che di riforma: cosí G. Monteleone, Una magistratura del lavoro: i collegi dei probiviri nell’industria, 1883-1911, in «Studi storici», aprile-giugno 1977, n. 2, pp. 88 seg.
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G. Monteleone, La legislazione sociale al Parlamento italiano, cit., p. 274.
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V. le dichiarazioni del socialista A. Costa alla camera, riportate da O. Antozzi, I socialisti e la legislazione sul lavoro delle donne e dei fanciulli,in «Movimento operaio e socialista», 1974, n. 4, p. 286. La stessa rassegnazione traspare dalla relazione con cui il conservatore L. Luzzatti, che per tanti anni si era battuto a favore di una disciplina legale del lavoro delle donne e dei fanciulli, presentò la legge al parlamento: la relazione è riportata in Opere, IV, cit., pp. 788-89.
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«È il momento in cui le esigenze, i bisogni, la realtà della classe operaia e contadina vengono ormai accettati come un dato di fatto ineliminabile, di cui, più o meno a malincuore, bisogna tener conto ed acuì, in qualche modo, bisogna rendere conto»: G. Neppi Modona, op. cit., p. 10.
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Mi riferisco soprattutto ai numerosi interventi del sen. Rossi e alla sua lunga polemica con L. Luzzatti (Le leggi sulle fabbriche in Inghilterra. Tre lettere ad Alessandro Rossi, in Opere, IV, cit., pp. 731 seg.) su cui v. G. Monteleone, La legislazione sociale al Parlamento italiano, cit., pp. 241 seg.; M. V. Ballestrero, Tre proposte ottocentesche per la disciplina legale del lavoro dei fanciulli, cit., pp. 254 seg. Inoltre mi riferisco agli interventi degli industriali riassunti in MAIC, Direzione generale dell’industria e commercio, Documenti legislativi italiani sul lavoro delle donne e dei fanciulli,Roma, 1880, ampiamente commentati da S. Merli, Proletariato di fabbrica, I, cit., pp. 212 seg; le dichiarazioni degli industriali sono riportate anche nei nn. 14-20 degli «Annali dell’industria e commercio», 1880.
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MAIC, Sul lavoro dei fanciulli e delle donne, Roma, 1880 su cui cfr. G. Monteleone, op. cit., pp. 249 seg.; S. Merli, op. cit., pp. 212 seg.
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Contribuirono a diffondere l’interesse sul problema della disciplina legale del lavoro dei fanciulli l’inchiesta industriale (1870-74) ed il Io congresso degli economisti italiani (Milano, 4 gennaio 1875), promosso su iniziativa di L. Luzzatti che propose, in esso, le leggi sulle fabbriche e l’emigrazione. Dal congresso nacque l’Associazione pel progresso degli studi economici in Italia; ne fu organo «il giornale degli economisti» che, tra il 1876 e il 1878, pubblicò alcune delle indagini sulle condizioni di lavoro delle donne e dei fanciulli svolte da commissioni di studiosi per conto dei comitati locali di studi economici aderenti all’Associazione
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Non intendo riferirmi qui alle questioni di datazione (terminus a quo il 1861?) dell’industrializzazione in Italia (su cui v. G. Mori, Il tempo della protoindustrializzazione, in L’industrializzazione in Italia, cit., pp. 9 seg.), ma ai lenti e moderati progressi che. fino alla svolta del nuovo secolo, conobbe l’industria italiana (allora essenzialmente rappresentata dalle filature della seta, cotone, lino e lana), poco sensibile alle esigenze dell’aggiorna- mento tecnico e favorevole a sfruttare le condizioni piu facili, cioè il basso costo della manodopera e la protezione doganale: cfr. L. Cafagna, La rivoluzione industriale in Italia, 1830-1900, in L’industrializzazione in Italia, cit., pp. 57 seg. Il compimento dell’industrializzazione avvenne piti tardi, nell’ultimo lustro del secolo, quando si consolidarono due fattori decisivi per l’affermazione dell’industria nazionale: la protezione doganale, che assicurava all’industria la riserva del mercato interno; la riorganizzazione dell’alta banca, «intorno ad un nuovo nucleo di comando, dotato di mezzi adeguati e di ispirazione e capacità di manovra improntate alle modeste esigenze dello sviluppo industriale »: L. Cafagna, La formazione di una «base industriale» fra il 1896 ed il 1914, in La formazione dell’Italia industriale, a cura di A. Caracciolo, Bari, 1970, pp. 144 seg.
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S. Merli, op. cit., p. 214.
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Cfr. L. Cafagna, La rivoluzione industriale in Italia, cit., pp. 57 seg.; afferma S. Merli, op. cit., p. 564, che l’industria tessile, rimasta fino al 1900 la più importante in Italia, rifletteva con maggiore frequenza e direttamente i fenomeni sociali del processo di industrializzazione.
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Così G. Monteleone, op. cit., p. 236.
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S. Merli, op. cit., pp. 214 seg.
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I dati sono in gran parte tratti dalla statistica del 1876 di V. Ellena, La statistica di alcune industrie italiane, in «Annali di statistica», vol. XIII, 1880, rielaborata da S. Merli, op. cit., pp. 90 seg.
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S. Merli, op. cit., p. 365. Le disumane condizioni di lavoro (descritte con grande efficacia dall’«apostolo» delle filandere E. Gallavresi, Il lavoro delle donne e dei fanciulli, Bergamo, 1900) procuravano alle operaie malattie generiche e professionali, aborti, e in genere danni fisici che incidevano sulla prole, contribuendo a quella «degenerazione della razza» (denutrizione, morbilità, deformazioni) caratteristica del protoindustrialismo italiano. La degenerazione (come già aveva denunciato il medico Serafino Bonomi, Sul lavoro dei fanciulli negli opifici, cit.; Intorno alle condizioni igieniche degli operai e in particolare delle operaie in seta della Provincia di Como,in «Annali universali di medicina», 1873, pp. 225 seg.) investiva «prima di tutto la classe operaia, la quale presenta una minore resistenza alle malattie e in modo particolare gli operai di fabbrica». Gli operai avevano infatti una mortalità superiore rispetto al resto della popolazione: «dai 65 anni di vita media dei contadini, si scende a 50 per i manovali, a 47 per gli operai in genere, e addirittura soltanto a 36 per gli operai di fabbrica»: così S. Merli, Proletariato di fabbrica, I, cit., p. 231. La promiscuità e la presenza giornaliera in fabbrica per 15 o 16 ore determinavano poi altri mali, di natura «sociale e morale»: sono i mali che, uniti alle malattie e agli stenti, rendevano difficile far passare, anche all’interno del movimento operaio, il giudizio di Marx (Instruction sur diverses questions aux delegués du Conseil Central Provisoire, n. 4, in Le Conseil Général de la première Internationale, 1864-1866, Procès-verbaux, Moscou, 1972, p. 293) sulla funzione progressiva del modo di produzione capitalistico e sulla legittimità della tendenza dell’industria moderna a far cooperare donne e bambini alla produzione sociale, «benché il modo in cui questa tendenza si realizza sotto il giogo del capitale sia un abominio». Cfr. M. Maddalena, Le condizioni della donna nei dibattiti della I internazionale, in «Movimento operaio e socialista», 1974, nn. 2-3, pp. 157 seg.
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C. Ravera, Breve storia del movimento femminile in Italia, Roma, 1978, pp. 27 seg. A proposito della concorrenzialità del lavoro femminile scriveva L. Barassi, Il contratto di lavoro nel diritto positivo italiano, vol. II, Milano, 2a ed., 1915, p. 27, che rientrava nella «tattica delle associazioni operaie e di mestiere l’ostilità al lavoro muliebre, causa di depressione del tasso dei salari»; più oltre (p. 28) l’illustre autore aggiungeva che la ragione del minor tasso delle mercedi femminili poteva essere vista nel minor rendimento delle donne o, «più cavallerescamente», nel minor bisogno di lavoro femminile «qui dove c’è tanta abbondanza di lavoro maschile». «Per conto mio ‒ affermava commentando il T.U. del 1907 (infra, par. 4) ‒ credo che la legge nostra abbia tenuto conto, nella tutela del lavoro muliebre, della minor resistenza della donna al lavoro [...] da cui anche il minor rendimento». Ponendo l’accento sulla funzione concorrenziale del lavoro femminile, e sulla minore resistenza (minor rendimento) delle donne, Barassi giustificava le disparità di trattamento allora esistenti, e poneva le premesse per giustificare le discriminazioni future. Gli argomenti usati da Barassi saranno utilizzati ancora nel dibattito sulla parità salariale degli anni ’60.
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P. Jannaccone, L’industria del cotone e l’abolizione del lavoro notturno, in «La riforma sociale», a. IV, vol. VII, riportato in L’organizzazione del lavoro in Italia, cit., pp. 86 seg.
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Da parte operaia, fu soprattutto la sezione socialista milanese (e il suo organo ufficiale «La battaglia») ad avversare la proposta dei cotonieri. Individuando correttamente nella crisi di sovrapproduzione che l’industria cotoniera attraversava l’origine della proposta, e smascherando le false motivazioni umanitarie dei cotonieri, si poneva l’accento sulle ripercussioni deleterie che avrebbe avuto, in quel momento, sull’occupazione e sui salari operai una legge intesa ad abolire il lavoro notturno per le donne e per i fanciulli: così O. Antozzi, I socialisti e la legislazione sul lavoro delle donne e dei fanciulli, cit., p. 290.
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S. Merli, Proletariato di fabbrica, I, cit., p. 248.
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«La battaglia», 1° gennaio 1897, cit., da S. Merli, op. cit., p. 250.
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V. la tabella sugli scioperi dal 1860 al 1900 elaborata da S. Merli, op. cit., p. 563.
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S. Merli, op. cit., p. 485.
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Sull’uso del lock-out, v. ancora S. Merli, op. cit., pp. 535 seg.; sulla repressione degli scioperi, più ampiamente G. Neppi Modona, Sciopero, potere politico e magistratura, cit., pp. 71 seg.
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S. Merli, op. cit., pp. 558 seg.
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S. Merli, op. cit., p. 559. Per i contenuti specifici delle lotte, v. le pp. 463, 467, 468, 482, 485, 487, 494, 510.
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V., in proposito, il significativo confronto tra L. Luzzatti e L. Bissolati (L. Bissolati, La lotta di classe e le «alte idealità» della borghesia. Polemica col prof. Luigi Luzzatti, deputato, in «Critica sociale», n. 24, 1892; nn. 1, 2, 3, 4, 1893), sulla legislazione sociale inglese. Nella polemica si contrappongono in modo rigido due concezioni della legislazione sulle fabbriche: legislazione concessa dalla borghesia illuminata al proletariato, per Luzzatti; legislazione conquistata dal proletariato con le sue lotte, ma fatta dalla borghesia, perché a lei vantaggiosa, secondo Bissolati.
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Il partito operaio italiano era recisamente contrario all’intervento legislativo. Accennerò più oltre all’importante ruolo svolto da A. M. Mozzoni (aderente al p.o.i.) durante la campagna per la legislazione sociale promossa dai socialisti. Cfr. A. M. Mozzoni, La liberazione della donna, a cura di F. Pieroni Bortolotti, Milano, 1975.
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G. Monteleone, La legislazione sociale al Parlamento italiano, cit., p. 260.
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L’iter parlamentare della legge del 1902 e le vicende politiche che accompagnarono la faticosa elaborazione della legge sono descritti da O. An- tozzi, I socialisti e la legislazione sul lavoro delle donne, cit., pp. 285 seg. e ivi riferimenti bibliografici. Qualche cenno anche in P. Alfieri e G. Ambrosini, La condizione economica, sociale e giuridica della donna in Italia,Torino, 1975, pp. 99 seg.
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Socialismo e questione femminile in Italia: 1892-1922, Milano, 1974, p. 70. Della stessa a. v. anche: Alle origini del movimento femminile in Italia (1848-1892), Torino, 1963; Appunti sulla questione femminile nella storia del PSI, in «Rivista storica del socialismo», 1963, n. 19, pp. 297 seg.
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La vicenda dell’istituzione delle casse di maternità è narrata da S. Puccini, Condizione della donna e questione femminile (1892-1922), in « Problemi del socialismo», 1976, n. 4, pp. 42 seg., che la ricostruisce soprattutto avvalendosi degli scritti del medico socialista Giorgio Casalini, pubblicati da «Critica sociale» tra il 1904 e il 1910.
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Fra i primi commenti alla legge del 1902: G. Farraggiana, Il lavoro delle donne e dei fanciulli: commento alla legge 19 giugno 1902, con richiami di giurisprudenza, Empoli, 1904; E. Noseda, Il lavoro delle donne e dei fanciulli: nuova legge regolamento 19 giugno 1902, 18 febbraio 1903. Testo, atti parlamentari e commento, Milano, 1903; G. Forcellini, Di alcuni casi di applicazione della legge e del regolamento sul lavoro delle donne e dei fanciulli (in udienza e fuori): appunti, Imola, 1908.
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La giurisprudenza delle corti di cassazione si era largamente occupata del problema della responsabilità penale derivante dalle trasgressioni alla legge. Sulla questione di maggior interesse (l’unità o pluralità delle contravvenzioni) si confrontavano due orientamenti. Per il primo, conforme alla lettera dell’art. 13 L. n. 242 (che stabiliva l’ammenda di lire 5 per ognuno degli operai per i quali risultasse violata la legge), l’industriale era responsabile di tante contravvenzioni quante erano le persone indebitamente impiegate (così Cass. Roma, 21 ottobre 1905, in «Foro italiano», 1905, II, c. 528; Cass. Roma, 7 marzo 1902, ivi, Repertorio, 1902, voce «Lavoro dei fanciulli», n. 11; Cass. Roma, 2 dicembre 1897, ivi, 1898, II, c. 168: le due ultime sentenze cit. si riferivano alla legge del 1886, rispetto alla quale il problema della responsabilità penale per violazione si poneva negli stessi termini; in dottrina, conf., F. Noseda, Il lavoro delle donne e dei fanciulli, cit., p. 165). Secondo l’orientamento contrario ‒ più recente ‒ (Cass. Roma, 2 maggio 1904, in «Foro italiano», 1904, II, c. 378; Cass. Roma, 24 agosto 1909, ivi, 1910, II, c. 5), qualunque fosse il numero degli operai irregolarmente occupati nel lavoro, colui che li avesse impiegati commetteva un’unica contravvenzione. C’è da notare che, ancora ad avviso della Cass. Roma (17 novembre 1920, ivi, Repertorio, 1921, voce «Lavoro donne e fanciulli», nn. 2-3) il responsabile poteva essere considerato il direttore, anziché il padrone, qualora provvedesse all’assunzione degli operai. Ma, si precisava (Cass. Roma, 25 febbraio 1913, ivi, 1913, II, c. 177), cadeva in contravvenzione l’industriale che ammettesse al lavoro fanciulli non aventi l’età richiesta dalla legge, anche se «indotto in errore dagli stessi fanciulli».
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Posto che, come aveva affermato la Cass. Roma (23 gennaio 1908, in «Foro italiano», 1908, II, c. 156), l’obbligo di denunciare l’impiego dei fanciulli negli opifici e laboratori in cui si faceva uso di macchine sussisteva anche quando le macchine fossero mosse da motore animale (nella specie: il cavallo) anziché meccanico, la discussione era aperta sulla natura di opifici o laboratori dei luoghi di lavoro nei quali non fossero usati i motori, ma fossero presenti (e occupati) più di 5 operai. Un caso ricorrente nella giurisprudenza è quello della lavanderia alla quale, dopo l’iniziale esclusione dal campo di applicazione della legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli (Cass. Roma, 2 maggio 1908, ivi, 1908, II, c. 351), venne finalmente riconosciuto il carattere di laboratorio: ma solo a patto che risultasse dimostrata la «natura industriale» (Cass. Regno, 30 gennaio 1931, in «Massimario di giurisprudenza del lavoro», 1931, p. 487; Cass. Regno, 16 marzo 1931, in «Foro italiano», 1931, II, c. 179). Più rigorosa la giurisprudenza sul computo degli operai addetti all’opificio o laboratorio: secondo la Cass. Roma, 4 maggio 1911, in «Foro italiano», 1911, II, c. 374 (annotata da M. Cevolotto, L’interpretazione delle parole «opificio industriale» e «laboratorio» nell’art. 1 legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli, in «Rivista di diritto processuale penale», 1911, p. 449), doveva considerarsi opificio ogni luogo ove fossero occupati più di 5 operai, anche se quelli oltre detto numero fossero stati assunti in via straordinaria. La stessa Cass. Roma, 22 febbraio 1912, in «Foro italiano», Repertorio, 1912, voce «Lavoro donne e fanciulli», n. 2 (annotata da A. Lavagna, Una questione nuova sull’applicazione della legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli, in «Progresso criminale», 1912, p. 302), aveva affermato che, per il computo del numero degli operai, doveva tenersi conto anche del proprietario e delle persone della sua famiglia. Molto più tardi la Cass. (ormai del regno) mutò sostanzialmente opinione: nella sentenza 16 marzo 1931, in «Foro italiano», 1931, III, c. 179, la Cass. affermò infatti che i familiari alle dipendenze di un capo famiglia (e capo dell’azienda) potevano attendere al lavoro notturno, e in genere ai lavori che sarebbero stati vietati per sesso e per età. Ancora in ordine al campo di applicazione della legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli, può essere segnalata una testimonianza della lunga tradizione che caratterizza la specializzazione dell’industria tessile pratese: Pret. Prato, 19 marzo 1914, ivi, Repertorio, 1914, voce «Lavoro donne e fanciulli», nn. 5-6, secondo cui le fabbriche di «lana meccanica che si ricava dalla carbonizzazione dei cenci» non dovevano farsi rientrare tra le industrie insalubri e pericolose (quali erano invece considerati i «magazzini di cernita» dal regolamento 14giugno 1909).
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La questione aveva notevole rilevanza. In primo luogo perché, per applicare la legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli, occorreva definire i servizi telefonici come «opifici industriali»: e vi era chi distingueva tra i servizi telefonici esercitati dai privati, ai quali si sarebbe dovuto riconoscere il carattere industriale, e servizi esercitati dallo stato, che tale carattere non avrebbero avuto (così G. Meloni, Sul carattere industriale dei servizi telefonici, in «Giustizia penale», fasc. 23 gennaio 1915, p. 93). In secondo luogo, perché il problema dell’applicazione della legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli, oltre che riguardare (eventualmente) lo stato-datore di lavoro, coinvolgeva un numero elevato di lavoratrici. Si pensi che, già nel 1901, le telefoniste e telegrafiste erano 3.000: il dato, fornito dal censimento del 1901, è riportato da S. Puccini, Condizione della donna e questione femminile, cit., p. 24.
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Così Cass. Roma, 28 novembre 1914, in «Foro italiano», 1915, II, c. 159. La stessa Cass. Roma si era però pronunciata più volte in senso contrario: Cass. Roma, 4 novembre 1905, ivi, 1906, II, c. 87; Cass. Roma, 7 dicembre 1914, ivi, 1915, II, c. 161. Dell’opinione che le telefoniste svolgessero lavoro manuale e che, pertanto, dovesse essere loro applicata la legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli era anche Ratto, Le telegrafiste e telefoniste dipendenti dallo stato o concessionari possono invocare il riposo settimanale, in «Legge», 1906, p. 154.
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Cfr. S. Puccini, Condizione della donna e questione femminile, cit., pp. 16-17. L’a. mette bene in evidenza come le denunce della stessa stampa di sinistra (specialmente i numerosi interventi pubblicati in quegli anni da «Critica sociale») si riferissero più alla degradazione fisica delle lavoratrici, che alle negative conseguenze del lavoro industriale sulla sanità della stirpe. «Si mettevano in risalto i rischi delle malformazioni congenite nei feti, la sterilità e l’alto tasso di abortività che per molte donne erano frutto ed eredità dolorosa della vita d’opificio» (op. cit., p. 17).
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Questi ed altri passi, tratti dagli atti parlamentari, sono riportati da M. Natoli, Dall’incapacità giuridica al nuovo diritto di famiglia, in Aa. Vv., La donna e il diritto, Roma, 1976, pp. 20 seg.
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La percentuale delle donne rispetto al totale dei salariati doveva drasticamente ridursi nel giro di pochi anni: dal censimento del 1911 risulterà pari al 23% (contro il 54% del 1903); ma negli anni che ci interessano l’occupazione femminile era ancora molto elevata: cfr. i dati forniti da S. Merli, Proletariato di fabbrica, I, cit., pp. 86 seg.
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V. le pagine dedicate da S. Puccini, op. cit., pp. 35 seg., al libro di G. Gambarotta, Inchiesta sulla donna, Torino, 1899, recensito da M. Pilo, su «Critica sociale», nel 1899. Il libro di Gambarotta fornisce una serie di testimonianze di illustri esponenti della cultura italiana (da Loria, a Niceforo, a Ojetti, a Pantaloni) sulla questione dei diritti politici e del lavoro produttivo delle donne: ne risulta il quadro sconfortante di un diffuso, radicato e irragionevole pregiudizio antifemminile degli intellettuali «progressisti». Sul libro di Gambarotta v. anche P. Meldini, Sposa e madre esemplare. Ideologia e politica della donna e della famiglia durante il fascismo, Firenze, 1975, pp. 27 seg.
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I socialisti e la legislazione sul lavoro, cit., p. 313.
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Nelle opere cit. retro, nota 45, e in Osservazioni sulla storia del femminismo nell’età moderna, in «Movimento operaio e socialista», ottobre- dicembre 1976, pp. 319 seg.
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La tesi venne sviluppata, con dovizia di argomenti, da A. Kuliscioff nella conferenza Il monopolio dell’uomo, in «Critica sociale», 1890 (ripubblicata ora in A. Kuliscioff, Immagini, scritti, testimonianze, a cura di F. Damiani e F. Rodriguez, prefazione di F. Pieroni Bortolotti, Milano, 1978, Appendice).
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Nell’articolo In nome della libertà della donna. Laissez faire, laissez passer!, in «Avanti», anno II, n. 447, Roma, 19 marzo 1898 (ora ripubblicato in A. Kuliscioff, Immagini, scritti, testimonianze, cit., pp. 89 seg.), la Kuliscioff replicava alle critiche che A. M. Mozzoni aveva portato all’iniziativa socialista per la legislazione protettiva; critiche motivate dalla preoccupazione che la legge sulle lavoratrici potesse provocare l’immediato licenziamento delle donne occupate nell’industria, per confinarle di nuovo al focolare domestico ed alla schiavitù familiare e sociale. Così concludeva la Kuliscioff: «i socialisti invocano l’intervento dello stato per la tutela del lavoro delle donne e dei fanciulli, perché è la riforma più urgente, non solo per coloro che più direttamente protegge, ma per tutta la classe lavoratrice. Non si tratta soltanto di una questione di pietà o di igiene sociale, ma dell’arma indispensabile al proletariato di ambedue i sessi nella lotta di classe che esso è costretto a sostenere [...]. Finché duri un così spietato sfruttamento della forza-lavoro delle donne e dei fanciulli, il proletariato italiano non potrà liberarsi della profonda miseria che lo affligge, né cessare di essere un proletariato di cenciosi».
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F. Pieroni Bortolotti, Socialismo e questione femminile, cit., pp. 58 seg. Afferma l’a. che gli errori commessi dalla Kuliscioff furono essenzialmente quello di ritenere «inutile, dopo la fondazione del partito di classe, un movimento democratico delle donne per la loro liberazione, che andasse oltre appunto il confine di classe; e di affidare alla legge sulle lavoratrici madri la funzione di raccordo ideale per l’emancipazione delle operaie [...]. Ma non si trattò di un limite personale: gran parte del socialismo, sul piano europeo, tra il 1889 e il 1914, accogliendo il principio di per sé validissimo della legislazione sociale, accolse anche quello, assai meno valido, di “tutelare” [...] la maternità, piuttosto intralciando che potenziando, come era pur sua intenzione, il lavoro e la lotta delle donne» (F. Pieroni Bortolotti, prefazione ad A. Kuliscioff, Immagini, scritti, testimonianze, cit., p. 6).
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F. Pieroni Bortolotti, Socialismo e questione femminile, cit., p. 65.
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All’elaborazione della proposta socialista avevano dato il loro contributo le camere del lavoro federate; si può ricordare che la mozione conclusiva del III congresso delle camere del lavoro (Milano, luglio 1900) aveva registrato i punti di dissenso esistenti fra le proposte contenute nella relazione di Ersilia Majno Bronzini e le proposte della camera del lavoro di Monza (fra le prime a sostenere l’iniziativa di A. Kuliscioff), accogliendo le seconde, indubbiamente più arretrate. Gli atti del congresso sono riportati da S. Merli, Proletariato di fabbrica, cit., vol. II, Documenti, pp. 786 seg. Sulla figura e sul ruolo di Ersilia Majno, presidente dell’unione femminile nazionale, v. F. Pieroni Bortolotti, op. ult. cit., pp. 25, 82, 120.
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La questione del valore sociale della maternità, scarsamente approfondita dai socialisti, sarà affrontata più tardi dai comunisti italiani, con un’impostazione che riecheggiava da vicino il pensiero di Lenin (I compiti del movimento operaio femminile della repubblica dei soviet. Discorso pronunciato alla IV conferenza degli operai senza partito di Mosca, in «Pravda», n° 213, 25 settembre 1919). Se ne occupò specialmente la «Tribuna delle donne», rubrica settimanale, diretta da Camilla Ravera, che 1’«Ordine nuovo» dedicava ai problemi della condizione femminile.
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Le disposizioni sul libretto di lavoro (introdotte nella legge 19 giugno 1902, n. 242, poi ricomprese, insieme alla legge 7 luglio 1907, n. 416, nel T.U. sul lavoro delle donne e dei fanciulli, 10 novembre 1907, n. 818), da applicarsi alle donne minorenni e ai fanciulli fino a 15 anni, assegnavano al documento (accompagnato da un certificato medico rilasciato gratuitamente dall’ufficiale sanitario del comune, e completo dei dati anagrafici) la funzione di attestare che le donne e i fanciulli fossero sani e adatti al lavoro cui erano destinati, che avessero frequentato il corso elementare inferiore. I datori di lavoro tenuti all’applicazione della legge n. 242/1902 non potevano assumere donne minorenni e fanciulli al di sotto dei 15 anni sprovvisti di libretto di lavoro; ove impiegassero donne di qualsiasi età e fanciulli (minori di 15 anni) dovevano inoltre farne ogni anno regolare denuncia. Quando ancora era in discussione la prima legge sul lavoro dei fanciulli (retro, par. I), si era pronunciato a favore dell’istituzione del libretto di lavoro S. Bonomi, Osservazioni sul progetto di legge riguardante il lavoro dei fanciulli, in «Annali universali di medicina», 1879, pp. 8 seg., sostenendo che l’obbligo della denunzia aveva «un non so che di fiscale da ripugnar troppo alle abitudini dei capi-fabbrica, che la eseguiranno di mala voglia e quindi colle maggiori possibili irregolarità». Sulla contravvenzione per omessa denuncia. v la giurisprudenza cit. retro, nota 48
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Queste posizioni, espresse con vigore da A. M. Mozzoni (cfr. nell’antologia La liberazione della donna, cit., le pp. 83 seg., 201 seg.), erano proprie del sindacalismo rivoluzionario: G. Are, Economia e politica nell’Italia liberale 11890-1915), Bologna, 1974. p. 116.
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La legge 7 luglio 1907, n. 416, aveva sancito il divieto di lavoro notturno, ma ne aveva prorogato di sei mesi l’applicazione.
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Un’importante questione di raccordo tra il T.U. del 1907 e la convenzione di Berna del 1906 riguardava la delimitazione dell’orario di lavoro delle donne e dei fanciulli negli stabilimenti con personale ripartito in turni. L’art. 5 ult. comma del T.U. rinviava al Io gennaio 1911 l’applicazione del limite di orario dalle 22 alle 5 (secondo l’art. 2 della convenzione), in sostituzione del limite dalle 23 alle 5. La cassazione di Roma ritenne tuttavia che, a quella data, la limitazione di cui alla convenzione di Berna non potesse entrare in vigore, non essendo stata la convenzione ratificata da tutti gli stati firmatari. La legge italiana di ratifica (del 1909) doveva essere intesa ‒ secondo la cassazione ‒ come un’autorizzazione al governo a dare ratifica alla convenzione, autorizzazione dalla quale non poteva farsi discendere l’obbligo dello stato italiano di applicare la convenzione medesima, indipendentemente dalla ratifica di altri stati (Cass. Roma, 16 aprile 1914, in «Foro italiano», 1914, 11, c. 326; Cass. Roma, 30 novembre 1915, in «Giustizia penale», 1916, p. 170; contra, in dottrina, E. Noseda, Il divieto di lavoro notturno e la convenzione di Berna, in «Il Filangieri», 1913, pp. 641 seg.).
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Il ritardo nell’istituzione delle casse di maternità ebbe causa soprattutto nell’opposizione degli industriali, assertori della necessità ‒ posto che la maternità non poteva considerarsi «rischio industriale» ‒ che i contributi gravassero esclusivamente sulle operaie e sullo stato: cfr. S. Puccini, Condizione della donna e questione femminile, cit., pp. 43 seg. Nel suo primo intervento sulla legge 17 luglio 1910, n. 520, la Cass. Roma, 23 ottobre 1913, in «Foro italiano», 1913, II, c. 11, stabilì che l’omesso pagamento, da parte dell’imprenditore, del contributo dovuto alla cassa costituiva «contravvenzione punibile e non violazione di un’obbligazione», poiché l’obbligo aveva ragion d’essere nell’interesse non solo delle operaie, ma della società.
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V. la tabella pubblicata da C. D’Apice, Mercato del lavoro e occupazione femminile tra congiuntura e crisi: 1. La flessione dei tassi di attività,in «Quaderni di rassegna sindacale», n. 54/55, 1975, Donna, società, sindacato, p. 37. V. anche C. Ravera, Breve storia del movimento femminile, cit., pp. 56 seg.
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Per le lotte sociali del periodo che interessa la fine del secolo e il primo decennio del 900, si può fare rinvio a G. Procacci, La lotta di classe in Italia agli inizi del secolo XX, Roma, 1970; ma è interessante confrontare (almeno per ciò che concerne le lotte del proletariato industriale nel periodo 880-900) S. Merli, Proletariato di fabbrica, cit., I, pp. 459 seg. Infatti Merli, in polemica con la «storiografia gramsciana», propone una storia del movimento operaio come «storia della classe» (né storia delle istituzioni sindacali e/o politiche, né storia delle ideologie e delle strategie sindacali e/o politiche): invece, analisi critica delle teorie, delle pratiche dello sviluppo e delle scienze sociali; poi, studio delle lotte (delle loro forme, delle loro caratteristiche, dei loro limiti, del loro segno tendenziale); infine, critica dell’organizzazione spontanea, sindacale e politica (S. Merli, op. cit., Introduzione). Nella stessa linea storiografica anche: S. Merli, Fronte antifascista e politica di classe, Bari, 1975; Id., L’altra storia, Milano, 1977. Per i dati sugli scioperi v. A. Lay, D. Marucco, M. L. Pesante, Classe operaia e scioperi: ipotesi per il periodo 1880-1925, in «Quaderni storici», n. 22, gennaio-aprile 1973, pp. 87 seg.
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R. Romeo, Breve storia della grande industria in Italia, 1861/1961,Bologna, 4a ed., 1972, p. 65; Id., La rivoluzione industriale deli età giolittiana, in La formazione dell’Italia industriale, cit., pp. 115 seg. Ma l’opinione di Romeo, che vede nello stato il maggiore artefice della «rivoluzione industriale», non è accettata da tutti: oltre ad A. Gerschenkron, Il problema storico dell’arretratezza economica, Torino, 2a ed., 1965, e criticamente anche sullo schema gerschenkroniano, v. S. Fenoaltea, Decollo, ciclo e intervento dello stato, in La formazione dell’Italia industriale, cit., pp. 95 seg.; v. anche L. Cafagna, La formazione di una ‘base industriale’ fra il 1896 e il 1914, cit.; Id., L’avventura industriale di Giovanni Agnelli e la storia imprenditoriale italiana, in «Quaderni storici», gennaio-aprile 1973, n. 22, pp. 148 seg.
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La lunga lotta delle sigaraie fiorentine (1874-1922) è ricostruita da F. Pieroni Bortolotti, in appendice al vol. Socialismo e questione femminile,cit. Sugli scioperi e le agitazioni che videro ‒ nel primo decennio del secolo ‒ protagoniste le operaie dell’industria, v. C. Ravera, Breve storia del movimento femminile in Italia, cit., pp. 52 seg.
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F. Pieroni Bortolotti, op. cit., p. 107.
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F. Pieroni Bortolotti, loc. ult. cit.
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R. Romeo, Breve storia della grande industria, cit., p. 69. Sulla posizione dei socialisti di fronte alle trasformazioni dell’economia italiana, cfr. G. Are, Economia e politica nell’Italia liberale, cit., pp. 63-181; «la tranquilla fiducia dei riformisti nell’evoluzione oggettiva delle strutture economiche e nell’espansione graduale, ma fondamentalmente lineare, della civiltà e delle forze industriali, capace di sgretolare e travolgere i rapporti di produzione a sé avversi» (p. 65), è alla base, secondo Are, del disarmo del socialismo italiano davanti alla situazione storica che si apriva col nuovo secolo.
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P. Grifone, Il capitale finanziario in Italia. La politica economica del fascismo, Torino, 2a ed., 1971, pp. 11 seg.; cfr. anche G. Procacci, Caratteri dell’industrializzazione nell’età giolittiana, in Conflitti sociali e accumulazione capitalistica da Giolitti alla guerra fascista, Roma, s.d., pp. 29 seg.
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P. Grifone, op. cit., pp. 18-21. Scrive A. Caracciolo, La grande industria nella prima guerra mondiale, in La formazione dell’Italia industriale,cit., pp. 163 seg.: «nelle condizioni congiunturali che si sono dette, lo scoppio del conflitto fra le grandi potenze europee [...] non poteva mancare di aver conseguenze stimolanti almeno in certi rami dell’industria e di creare nuove aspettative e programmi di espansione in molti ambienti imprenditoriali e bancari» (p. 167); «in concreto, lo scoppio delle ostilità dette luogo a un gran numero di interventi dello stato in materia economica: il fenomeno dell’interventismo statale ebbe conseguenze grandiose non solo sulla condotta della guerra, ma nel senso di una trasformazione delle strutture portanti del sistema economico italiano» (pp. 13-174).
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F. Pieroni Bortolotti, Socialismo e questione femminile, cit., p. 107.
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Sulla politica giolittiana di allargamento della rappresentatività del parlamento, che doveva portare alla riforma elettorale del 1912 (la quale concedeva il diritto di voto a tutti i cittadini maschi alfabeti e analfabeti sopra i 30 anni) v. C. Ghisalberti, Storia costituzionale d’Italia, 1849-1948,Bari, 1974, pp. 283 seg. Sulla campagna socialista per il suffragio universale in Italia, v. F. Pieroni Bortolotti, Appunti sulla questione femminile nella storia del PSI, cit., pp. 306 seg.; Id., Socialismo e questione femminile, cit., pp. 108 seg., e ivi riferimenti alle vicende degli organismi internazionali e dei movimenti per il suffragio alle donne operanti in Europa nel periodo (su cui cfr., per gli sviluppi successivi, S. Franchini, La ‘workers suffrage federa- tion’ di Sylvia Pankhurts, 1914-1918, in «Movimento operaio e socialista», 1975, n. 3-4, pp. 173 seg.; A. Comparini, Il movimento femminile nei primi anni dell’Internazionale comunista (1919-1921), ivi, 1974, n. 1, pp. 49 seg.; da ultimo F. Pieroni Bortolotti, Osservazioni sulla storia del femminismo, cit., pp. 330 seg.). La questione dell’estensione alle donne del suffragio era entrata anche nel dibattito fra i giuristi, grazie ad una sentenza della corte d’appello di Ancona (25 luglio 1906, in «Foro italiano», 1906, I, c. 1060, con nota contraria di V. E. Orlando). Secondo la corte, il diritto vigente avrebbe concesso alle donne l’elettorato politico. La sentenza era stata stesa da Mortara: ma l’autorevolezza dell’estensore ed il peso degli argomenti portati non risultarono sufficienti a far passare quell’interpretazione «paritaria» dello statuto albertino. Nello stesso anno, infatti, la corte di cassazione di Roma (15 dicembre 1906, in «Foro italiano», 1907, I, c. 73, con nota contraria di M. Siotto Pintor) provvedeva a riportare l’interpretazione dello statuto entro gli schemi abituali, seguendo in ciò i suggerimenti che V. E. Orlando aveva fornito nel commento alla sentenza di Ancona. Sosteneva Orlando che il rispetto dovuto a Mortara, «uno dei più forti giuristi dell’Italia contemporanea», non poteva indurre al consenso sulla tesi che la donna italiana, la quale certamente godeva dei diritti fondamentali di libertà, dovesse perciò godere (nel silenzio della legge) anche dei diritti politici. I diritti politici (e specificamente il diritto elettorale), lungi dal confondersi coi diritti di libertà, dovevano invece essere classificati ‒ secondo Orlando ‒ in altra categoria, dipendendo essi non dagli «stadi di civiltà», ma dalle «forme di governo»: e il diritto positivo (cioè la legge elettorale, e non lo statuto, «di valore esegetico quasi nullo») non concedeva l’elettorato alle donne. Le donne erano escluse dall’elettorato dal diritto quale è, aggiungeva Orlando, non quale dovrebbe essere: ma si intende che l’autore non vedeva l’estensione del suffragio alle donne quale dover essere. A riprova dell’assennatezza delle sue conclusioni, V. E. Orlando affermava: «nel presente vigoroso risveglio del movimento femminista [...] non pareva potesse mettersi in dubbio che il nostro diritto vigente accogliesse rigidamente il principio della esclusione delle donne da ogni partecipazione al suffragio, così politico che amministrativo. Tutto quel movimento infatti [...] era diretto a ottenere dal parlamento riforme legislative, che quel diritto concedessero: ciò che non avrebbe senso ove quel diritto già competesse». Per qualche ragguaglio sulla vicenda del diritto di voto v. M. G. Manfredini, Evoluzione della condizione giuridica della donna nel diritto pubblico, in Società umanitaria, L’emancipazione femminile in Italia. Un secolo di discussioni 1861-1961, Firenze, 1963, pp. 178 seg.
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Per la temuta influenza clericale sulle donne: cfr. G. P. Carrocci, Giolitti e l’età giolittiana. Dall’inizio del secolo alla prima guerra mondiale,Torino, 1961, pp. 138 seg.
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Di questa cultura era certamente parte la magistratura, in cui, secondo le parole di M. Siotto Pintor, nota in «Foro italiano», 1909, II, c. 228 seg., era manifesta una tendenza generale a «escogitare ogni maniera di cavilli per opporsi anche alle più legittime pretese» delle donne. La soluzione data dalla magistratura a due questioni, rilevanti sotto il profilo della parità di trattamento, dà la misura dell’atteggiamento lamentato da Siotto Pintor; si tratta dell’ammissione delle donne all’esercizio della professione forense, esclusa dalla giurisprudenza perché ufficio quasi pubblico (con l’argomento della non attitudine delle donne agli studi giuridici, o addirittura per l’espresso timore che il patrocinio femminile potesse essere fonte di «corruzione della giustizia»); della reversibilità della pensione delle donne impiegate dello stato ai figli minorenni (prima esclusa dalla corte dei conti, 18 dicembre 1908, in «Foro italiano», 1909, III, c. 319, con nota contraria di M. Siotto Pintor, poi ammessa con decisione 15 novembre 1912, ivi, 1913, III, c. 68, con nota favorevole di G. Venezian). Sugli atteggiamenti della magistratura verso le donne, e sul suo contributo cretivo alla concezione dell’inferiorità delle donne, v. il grazioso libretto di R. Canosa, Il giudice e la donna. Cento anni di sentenze sulla condizione femminile, Milano, 1978.
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F. Pieroni Bortolotti, Socialismo e questione femminile, cit., p. 129.
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Sulla condizione delle lavoratrici durante la prima guerra mondiale, v. per tutti C. Ravera, Breve storia del movimento femminile, cit. pp. 80 seg.
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F. Pieroni Bortolotti, Socialismo e questione femminile, cit., p. 129. Ma il fenomeno della flessione dell’occupazione femminile, nell’industria e nell’agricoltura, non era solo italiano: cfr. E. Sullerot, La donna e il lavoro. Storia e sociologia del lavoro femminile, trad. it., Milano, rist., 1973, pp. 119 seg.
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D. L. LGT. 17 febbraio 1917, n. 322. Sui moti di Torino v. ancora C. R a vera, op. cit., pp. 88 seg.
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La conflittualità del rapporto fra manodopera femminile e maschile era destinata ad esplodere nei momenti critici. Se nell’immediato dopoguerra le donne venivano costrette a lasciar liberi i posti che avevano fino ad allora occupato in sostituzione degli uomini, agli uomini la propaganda presentava le donne come «indebite usurpatrici delle mansioni maschili». I proletari maschi mostravano ostilità verso le donne lavoratrici, e questo atteggiamento trovava «terreno fertile e non remote radici nei pregiudizi antifemminili caratteristici delle società patriarcali pre-industriali»: S. Puccini, Condizione della donna e questione femminile, cit., p. 39. La stessa a. riporta in proposito un interessante brano di G. Giannini Alessandri, Due milioni di senza marito, in «Critica sociale», XXXII, n. 6, marzo 1922. L’interesse non nasce tanto dalle cose, un po’ ovvie, scritte dalla Giannini, quanto dalla storia personale di questa a. che ritroviamo, a pochi anni di distanza, fervente ammiratrice della politica fascista verso le donne. Della Giannini fascista possono ricordarsi il breve saggio Il lavoro della donna e il sindacalismo fascista, in «Il diritto del lavoro», 1927, p. 933 e la monografia La difesa della razza nel regime fascista, Roma, 1930, recensendo la quale G. Miraldi, in «Il diritto del lavoro», 1930, I, p. 707, scriveva: «è questa un’opera, chiara e sincera, di propaganda delle concezioni e delle realizzazioni fasciste nel campo demografico».
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Nell’ampia relazione ministeriale al regolamento si affermava che vi erano altri impieghi ‒ oltre quelli previsti dall’art. 7 della L. n. 1176 ‒ da cui le donne avrebbero dovuto essere escluse (come gli impieghi di istitutore nei riformatori maschili, direttore delle carceri maschili, istitutore nei collegi e convitti maschili) per ragioni di opportunità e «nell’interesse dei servizi»; tuttavia la relazione si preoccupava di precisare che, data la formula tassativa della legge, a tali opportune esclusioni non poteva procedersi nel regolamento. Il regolamento però precludeva alle donne «ogni funzione direttiva, così come la carriera diplomatica, quella dell’esercito, della magistratura»: lo sottolinea A. Picciotto, Evoluzione della condizione giuridica della donna nella famiglia, in L’emancipazione femminile in Italia, cit., p. 199. Solo nel 1960 l’art. 7 della legge n. 1176/1919 è stato dichiarato incostituzionale, per contrasto con gli artt. 3 e 51 cost.: Corte cost., 18 maggio 1960, n. 33.
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Così M. Bellomo, La condizione giuridica della donna in Italia. Vicende antiche e moderne, Torino, 1970, p. 136; il giudizio è ripreso da E. Santarelli, Il fascismo e le ideologie antifemministe, in «Problemi del socialismo», 1976, n. 4, p. 82, che avverte tuttavia come la legge del 1919, frutto della guerra, dovesse vivere lo spazio di un mattino.
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La relazione al senato, stesa da E. Bensa, si può leggere in «Giurisprudenza italiana», 1919, IV, c. 24. Le relazioni alla camera e al senato sono ampiamente citate da F. Cammeo, Le donne e gli impieghi pubblici, ivi, 1921. 11. cc. 77 seg. nota al parere Cons. stato, 20 maggio 1920.
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F. Cammeo, Le donne e gli impieghi pubblici, cit., c. 84. Aggiungeva l’a.: «non fu forse una reazione e una rivendicazione determinata dalla maggioranza dell’opinione pubblica del ceto femminile. Fu, ci sembra, reazione e rivendicazione voluta dai ristretti, per quanto autorevoli, circoli femminili, da gruppi intellettuali maschili di alti e liberali sensi, da particolari ambienti politici». E concludeva affermando che, se di «eccesso rivendicatore» doveva parlarsi, questo non era soltanto nella lettera della legge, ma proprio nell’intenzione. L’intento riformatore della legge era confermato da E. Bensa, nella cit. relazione al senato: «il valore di questo articolo [art. 7] si fa sentire specialmente nell’affermazione del principio che affronta espressamente e risolutamente una tradizione di molti secoli e la infrange»; ancora, «uniche eccezioni [al principio della parità assoluta] sono quelle che si riferiscono alle funzioni che implicano poteri politici o giurisdizionali, o sono attinenti alla difesa nazionale, eccezioni che non ci soffermiamo a commentare, perché allo stato delle cose le rivendicazioni del sesso gentile non si estendono, presso di noi, alla figura della donna soldato, e neppure a quella della donna prefetto o giudice, benché il disegno in esame non indietreggi dinnanzi a quella della donna arbitro». Ma poi il relatore aggiungeva qualche graziosa argomentazione diretta a prevenire ogni critica di «eccesso riformatore»: «ci sia lecito insorgere contro l’assiomatica tesi, che il divenire la donna capace ed effettivamente investita di quegli uffici che per l’uomo sono annoverati fra i più onorevoli, la sospinge fatalmente al trapasso in quella non simpatica categoria che fu ironicamente appellata il terzo sesso, e la spogli di quelle soavi caratteristiche di bontà, di grazia, di verecondia, in una parola di femminilità nel senso più squisito della espressione, che circondano di un’angelica aureola le care figure della sposa, della madre, della sorella. La creatura che di queste doti si adorna nulla scapiterà per la sua maggiore elevazione sociale, la quale anzi contribuirà validamente a farne sempre più la preziosa collaboratrice dell’uomo nelle ardue lotte dell’esistenza».
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In «Giurisprudenza italiana», 1921, III, c. 77.
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F. Cammeo, op. cit., c. 87. Occorre ricordare che l’a. in buona parte condivideva le motivazioni sostanziali sottese al parere del consiglio di stato, giacché riteneva ancora persistenti ragioni di opportunità tali da sconsigliare l’accesso delle donne a tutti gli uffici e impieghi pubblici. Dissentiva però dal risultato cui era pervenuto il consiglio di stato nell’interpretazione; risultato che l’illustre giurista riteneva tecnicamente scorretto.
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Con decisione 1° aprile 1921, il Cons. stato (sez. IV), in «Giurisprudenza italiana», 1921, II, c. 202, aveva affermato il potere del ministero della p.i. di escludere le donne dal bando di concorso relativo alle cattedre nelle scuole secondarie maschili. Con ciò la IV sez. disattendeva addirittura la direttiva formulata dall’adunanza generale del consiglio di stato nel parere 20 maggio 1920. In base a quella direttiva, infatti, le esclusioni potevano essere introdotte solo mediante tassative norme (anche regolamentari) di revisione delle preesistenti disposizioni, ma non potevano essere fissate discrezionalmente caso per caso (nel bando di concorso, ad es.). Successivamente, la stessa IV sez. tornò ad uniformarsi alle indicazioni espresse nel parere: cfr. Cons. stato, 12 maggio 1922, in «Foro italiano», 1923, II, c.l 1; Cons. stato, 30 aprile 1927, ivi, Repertorio 1927, voce «Impiegato pubblico», nn. 23-24. Perché conforme al già cit. parere 20 maggio 1920, merita di essere segnalata la decisione 7 settembre 1928, in «Foro italiano», 1929, IH, c. 48, nella quale il consiglio di stato affermava la piena compatibilità tra Kart. 7 L. n. 1176/1919 e Kart. 11 R.D. 9 dicembre 1926, n. 2480, che escludeva le donne dai concorsi alle cattedre di storia, filosofia ed economia nei licei classici e scientifici, e di lettere italiane e storia negli istituti tecnici. Per giustificare le gravi misure che il fascismo andava prendendo contro le donne, il consiglio di stato non aveva avuto neppure bisogno di modificare la propria giurisprudenza.
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Secondo quanto riferiva A. Kuliscioff, nella relazione al congresso nazionale socialista (21-25 ottobre 1910), Proletariato femminile e partito socialista, in «Critica sociale», XX, nov. 1910, ora in «Donne e politica», IV, die. 1973, n. 20, nel 1910 le maestre e le professoresse erano già 62.643, contro 34.346 colleghi uomini. Commenta S. Puccini, Condizione della donna e questione femminile, cit., p. 26, che l’insegnamento doveva diventare un’occupazione prevalentemente femminile per due ragioni: perché è un lavoro da sempre mal retribuito; perché l’insegnamento (specie elementare) non rappresenta una brusca frattura rispetto ai tradizionali compiti femminili e consente di percepire un salario integrativo del bilancio familiare.
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Cfr., nel cit. parere Cons. stato, 20 maggio 1920, le motivazioni ai quesiti formulati dal ministero della p.i.
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Concezione triviale, ma certo non nuova e neppure estranea al patrimonio di idee della élite politico-culturale italiana all’inizio del secolo. Basta confrontare, nel libro di G. Gambarotta, Inchiesta sulla donna, cit., le opinioni degli intellettuali intervistati sull’inferiorità naturale della donna.
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Nel 1925, a commento dell’approvazione della legge 15 maggio 1925 sul voto amministrativo alle donne, Mussolini aveva affermato: «non divaghiamo a discutere se la donna sia superiore o inferiore; constatiamo che è diversa. Io sono piuttosto pessimista [...] io credo ad esempio che la donna non abbia potere di sintesi e che, quindi, sia negata alle grandi creazioni spirituali». Il passo, molto famoso, è citato anche da M. A. Macciocchi, La donna ‘nera’. ‘Consenso’ femminile e fascismo, Milano, 1976, p. 46, che gli attribuisce il pregio di esprimere chiaramente la concezione mussoliniana («mistificazione misogina») della donna come «coniglia da riproduzione».
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Il partito comunista dichiarava invece di non occuparsi della questione del voto alle donne, «di cui vanno forse chiacchierando altri partiti. Questione superata dai comunisti, i quali ben altra concezione hanno della vera eguaglianza fra tutti i lavoratori d’ambo i sessi, i quali sanno che nel loro regime la donna con l’uomo parteciperà a tutti gli uffici e collaborerà alla costruzione e alla vita della nuova società comunista». La citazione di Amedeo Bordiga (intervento pubblicato nella «Tribuna delle donne», «L’ordine nuovo», 7 aprile 1921), è riportata da F. Pieroni Bortolotti, Socialismo e questione femminile, cit., p. 138. Sulle opinioni dei comunisti italiani intorno all’emancipazione delle donne, v. C. Ravera, Breve storia del movimento femminile, cit., pp. 110 seg.; la Ravera fornisce un ampio resoconto delle idee di emancipazione (come pieno inserimento nel lavoro produttivo e liberazione dalla schiavitù della casa) che la «Tribuna delle donne» e il quindicinale «Compagna» diffondevano fra le donne comuniste.
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F. Pieroni Bortolotti, op. cit., p. 140: l’a. è tornata di recente sulla vicenda del suffragio femminile: Femminismo e partiti politici in Italia 1919-1926, Roma, 1978.
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Sui fasci femminili, v. il sintetico giudizio di C. Ravera, op. cit., p. 132. Sulla organizzazione dei fasci v. G. Giannini Alessandri, La difesa della razza nel regime fascista, cit.; ma le informazioni fomite da quest’a. sono poco attendibili, perché viziate dall’intento propagandistico.
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Sul progetto di legge elettorale fascista per il voto amministrativo alle donne, v. M. A. Macciocchi, La donna ‘nera’, cit., pp. 43 seg.; le pur utili informazioni che l’a. ci fornisce sono purtroppo annegate in un commento insopportabilmente ridondante, giocato sul tasto del rapporto sado-masochista tra le donne e il duce.
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Cfr. M. G. Manfredini, Evoluzione della condizione giuridica della donna nel diritto pubblico, in L’emancipazione della donna in Italia, cit, p. 185.
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Sulla politica di promozione della tutela delle lavoratrici perseguita dall’O.I.L., a partire dal 1919 (anno di fondazione) e improntata, almeno all’inizio, alla considerazione della debolezza ed inferiorità delle donne, v. E. Sullerot, La donna e il lavoro, cit., pp. 135 seg.; ivi alcune giuste osservazioni sulle conseguenze della legislazione «protettiva», sull’inopportunità del divieto assoluto del lavoro notturno e sulle ragioni delle difficoltà incontrate dalle donne per ottenere il riconoscimento di un’effettiva parità salariale. Sulla condizione femminile negli anni venti, in Europa e negli Stati Uniti, v. A. Camparini, Questione femminile e terza internazionale, Bari, 1978, pp. 53 seg.