Maria Vittoria Ballestrero
Dalla tutela alla parità
DOI: 10.1401/9788815374257/c6
La prescrizione si dirige in due direzioni essenzialmente: a) la modalità e i criteri di assunzione (nel senso ampio di as
{p. 248}sunzione definitiva) [60]
; b) l’accesso ai vari settori e rami di attività, e, al loro interno, alle varie qualifiche e mansioni.
La regola della non discriminazione governa gli atti e i comportamenti dei datori di lavoro privati, della pubblica amministrazione, e degli uffici di collocamento. Alla stregua dello stesso principio di non discriminazione si decide il destino delle norme previgenti in materia di accesso al lavoro. Ai sensi dell’art. 19, infatti, risultano abrogate le disposizioni di legge, privi di efficacia gli atti amministrativi, nulle le clausole contrattuali (anche collettive), che siano «in contrasto» col predetto principio. Per quanto particolarmente riguarda la complessa normativa sull’accesso al lavoro, poiché, oltre agli artt. 10, 12, 13, 14 della legge n. 653/1934, nessuna altra disposizione è espressamente abrogata o modificata dalla legge n. 903, è affidata alla sensibilità degli interpreti la decisione su cosa debba essere eliminato e cosa invece debba sopravvivere. Ho dedicato qualche pagina (retro. parr. 4 e 5) ad illustrare quali difficoltà si frappongano alla formulazione di giudizi sicuri in ordine alla compatibilità tra discipline differenziate per sesso e principio della parità (o non discriminazione). In alcuni casi il giudizio può essere facilitato dalla comune conoscenza e dalla comune valutazione circa la portata discriminatoria di una norma. Ciò è avvenuto, ad esempio, per l’art. 10 L. n. 264/1949, nella parte che prevede la classificazione separata delle «casalinghe» in cerca di lavoro al terzo posto della graduatoria. È generale l’opinione che la separazione delle casalinghe dagli altri disoccupati sia un espediente per posporre le donne agli uomini nell’avviamento al lavoro su richiesta numerica [61]
. Concordemente si ritiene, inoltre, che in base al divieto di discriminazione debbano essere unificate le liste di collocamento [62]
, e debba cessare la pratica di classificare le mansioni, ai fini dell’avviamento al lavoro, in «maschili» e «femminili» [63]
. Alla regola, così stabilita, della concorrenza nell’avviamento dei lavoratori di ambo i sessi, che posseggano le qualifiche richieste, fa eccezione l’ipotesi della richiesta (numerica) per mansioni particolarmente pesanti precluse alle donne dal contratto collettivo (art. 1, IV comma), su cui tornerò più avanti.
Mancano, in altri casi, elementi sicuri (o rassicuranti) di{p. 249} giudizio sul carattere discriminatorio o non delle norme considerate: l’esempio della legislazione di tutela del lavoro femminile mi pare significativo. Come per le norme (leggi, atti amministrativi, clausole contrattuali individuali e collettive), a maggior ragione per gli atti e comportamenti dei datori di lavoro, il giudizio, che volta per volta dovrà compiersi circa il loro carattere discriminatorio, dipenderà in definitiva dalle definizioni prescelte della «parità» e del suo opposto, la «discriminazione».
Né l’una né l’altra sono definite dalla legge n. 903. Al II comma dell’art. 1, la legge proibisce alcuni modi ‒ diretti e indiretti ‒ di attuare la discriminazione per sesso, specificamente enumerandoli. La formula usata è: «la discriminazione... è vietata anche se attuata» così e così. La clausola «anche se» ha, da sola, il valore di una norma di chiusura: estende cioè il divieto a tutti i modi di discriminare, anche non espressamente previsti (nominati) dalla legge. In tal senso, le forme di discriminazione specificamente nominate ai nn. 1 e 2 del II, art. 1, hanno valore ‒ per così dire ‒ di esempi [64]
. La legge inoltre prevede due ordini di eccezioni alla regola della parità di trattamento nell’accesso al lavoro: per le donne, fanno eccezione i lavori particolarmente pesanti, la cui individuazione è rimessa alla contrattazione collettiva (art. 1, IV comma), nonché il lavoro notturno (se il divieto non è rimosso dalla contrattazione collettiva: art. 5); per donne e uomini, fanno eccezione i settori dell’arte, della moda, dello spettacolo, e altre attività previste dalla contrattazione collettiva, quando l’appartenenza ad un sesso sia richiesta dalla natura del lavoro o della prestazione (art. 1, ult. comma).
I casi nominati di discriminazione e le eccezioni alla regola della parità sono indici, di cui l’interprete deve tener conto; ma la definizione della discriminazione fondata sul sesso rimane ancora aperta alla sua fantasia ricostruttiva. Per quanto mi riguarda, mentre mi sono dilungata sulla parità, tentando di recuperarne un significato conforme alla direttiva dell’art. 3, II comma, cost., ho dedicato poco spazio al concetto di discriminazione, limitandomi a definirlo come l’opposto della parità. Questa definizione in negativo mi pare corretta e, a qualche fine, sufficiente. Tuttavia la centralità{p. 250} della nozione di discriminazione nella legge n. 903 suggerisce ora di portare in positivo la definizione stessa.
Secondo un orientamento corrente, collaudato nello studio degli artt. 15 e 16 st. lav., e dal quale non sembra il caso di discostarsi, per discriminazione deve intendersi una situazione soggettiva di trattamento differenziato in relazione ad una qualità posseduta dal soggetto (in questo caso: il sesso). Per essere discriminatorio, il trattamento diseguale deve essere oggettivamente pregiudizievole, cioè lesivo di un interesse (economico, morale, professionale, ecc.) [65]
. La discriminazione è insomma un concetto necessariamente di relazione: esso denota cioè un trattamento diseguale comparativamente sfavorevole.
Dunque, ricade sotto il concetto di discriminazione una situazione, in cui, ad esempio, in presenza di domande di assunzione di donne e di uomini, e a parità di altri requisiti, vengano preferiti gli uomini in ragione del loro sesso. Ma ricade sotto questo concetto anche la situazione, in cui, in presenza di domande di sole donne che posseggano le qualità richieste, nessuna domanda sia accolta sempre in ragione del sesso. Vigendo infatti il principio della parità di trattamento nei criteri di assunzione, non residua per il datore di lavoro alcuna possibilità di fondare le proprie scelte sull’appartenenza del lavoratore all’uno o all’altro sesso. Non vale in contrario l’argomento che si tratterebbe, nella specie, di un atto omissivo: sia perché è generalmente ammesso che anche gli atti omissivi possano rientrare nella categoria degli atti e comportamenti discriminatori [66]
; sia perché l’omissione consegue ad una comparazione fra candidate attuali e candidati potenziali, pregiudizievole per gli interessi delle candidate attuali. Nei due esempi ora fatti, la discriminazione a danno delle lavoratrici è tanto evidente, che non si pongono le difficoltà di ordine probatorio sussistenti in altri casi.
Anche per i casi in cui la discriminazione è facile da individuare e da provare (come negli esempi fatti), serie difficoltà sorgono però in ordine alla repressione del comportamento discriminatorio. Sebbene la tutela dei soggetti discriminati nell’accesso al lavoro sia agevolata dalla sanzione restitutoria-inibitoria e dallo speciale procedimento urgente previsto{p. 251} dall’art. 15, restano però da risolvere alcuni problemi teorici e politici. Il più delicato dei problemi di ordine teorico è ancora una volta questo: come costringere il datore di lavoro ad eseguire l’ordine del giudice di assumere il lavoratore discriminato? È invece problema politico (o di gestione politica della legge) quello di impedire che la conflittualità sulle assunzioni tra lavoratori di sesso diverso si trasformi in una guerra tra poveri, e che il giudice si trovi a dover compiere la scelta, molto imbarazzante in tempi di crisi, di dare lavoro a una donna piuttosto che ad un uomo. Credo che l’esistenza di queste gravi difficoltà politiche, che la formulazione dell’art. 15 ha lasciato interamente alla responsabilità individuale del lavoratore discriminato, sia una delle cause maggiori del mancato uso giudiziario della legge n. 903. Su tutti questi problemi, ad ogni modo, tornerò più oltre, con qualche osservazione conclusiva sul sistema sanzionatorio predisposto dalla legge.
Merita ancora un cenno in questa sede, poiché si tratta sempre di definizione della discriminazione per ragioni di sesso, la complessa tipologia delle discriminazioni, alla quale strettamente si connettono le questioni (e le difficoltà) di ordine probatorio.
La tipologia invero può solo emergere da una complessa casistica, che a tutt’oggi manca. Ma a tentare un primo repertorio, tutto ipotetico, sono gli stessi esempi forniti dal legislatore ai nn. 1 e 2 dell’art. 1, II comma. Tali esempi contribuiscono ad agevolare il lavoratore discriminato nel dare prova dell’avvenuta discriminazione, perché precostituiscono ‒ senza essere presunzioni legali ‒ il giudizio su comportamenti evidentemente diffusi, e divenuti così tipicamente discriminatori. Seguendo una classificazione importata dalla esperienza anglosassone [67]
, la legge n. 903 distingue fra discriminazioni dirette e indirette. Tra quelle dirette, il legislatore menziona espressamente ogni riferimento, che, a fini di assunzione, sia fatto allo stato matrimoniale, di famiglia, o di gravidanza. I casi previsti, ai quali altri potrebbero aggiungersi, guardano essenzialmente alle donne, riprendendo, per estenderla alla assunzione, la specifica direttiva antidiscriminatoria della legge n. 7/1963, che vieta il licenziamento{p. 252} delle lavoratrici per causa di matrimonio [68]
. Le discriminazioni dirette elencate ribadiscono, mettendolo al femminile, il divieto, sancito dall’art. 8 st. lav., di indagare su fatti non rilevanti per la valutazione dalle attitudini professionali del lavoratore da assumere. In questi casi, alla lavoratrice discriminata sarà sufficiente provare che le sono state richieste informazioni sul proprio stato civile o di gravidanza. L’irrilevanza professionale dello stato matrimoniale e di famiglia molto difficilmente potrà essere contestata dal datore di lavoro. Qualche dubbio potrebbe residuare sul caso della gravidanza, anche per i limiti legali esistenti in ordine alle mansioni cui la lavoratrice gestante può essere adibita. Tuttavia, è presente in dottrina e in giurisprudenza l’opinione che considera senz’altro irrilevante lo stato di gravidanza a fini di valutazione delle attitudini professionali [69]
. A mio avviso, il fatto che la legge n. 903 abbia inserito tra le discriminazioni dirette il riferimento allo stato di gravidanza rafforza l’orientamento, già diffuso nell’interpretazione dell’art. 8 st. lav. In generale, però, non escluderei la possibilità, per il datore di lavoro, di provare il contrario, dal momento che non vige in materia un regime di presunzioni assolute [70]
.
Ancora un cenno va fatto alle discriminazioni indirette, esemplificate dalla legge al n. 2, li comma, art. 1. La prescrizione colpisce, in questo caso, quelle varie e diffuse pratiche di reclutamento (meccanismi di preselezione, pubblicità e mezzo stampa, ecc.), nelle quali è indicata come requisito professionale l’appartenenza all’uno o all’altro sesso. Malgrado la non felice formulazione letterale, il divieto di discriminazione indiretta, molto ampio per il suo stesso oggetto, ricomprende tutte le ipotesi nelle quali l’appartenenza ad un sesso sia richiesta non solo espressamente, ma anche in via mediata, attraverso la specificazione di requisiti che sono esclusivamente ‒ o più frequentemente ‒ di un sesso e non dell’altro [71]
. I casi più comuni sono quelli della statura, della resistenza fisica, delle caratteristiche estetiche. Ma talora possono richiedersi anche elementi caratteriali che si ritengono (a torto, secondo me) tipicamente maschili, come l’aggressività e l’attitudine al comando [72]
; spesso tali qualità vengono richieste per l’inserimento nelle qualifiche dirigenziali e
{p. 253} impiegatizie di alto livello.
Note
[60] Il riferimento alla definitiva assunzione vuole ricomprendere nell’accesso al lavoro anche il periodo di prova: cfr. L. Ventura, La legge sulla parità, cit., pp. 280 seg.
[61] L’osservazione è di L. Ventura, op. cit., pp. 269 seg.
[62] I commentatori della legge n. 903 sono concordi nel ritenere che le liste di collocamento debbano essere unificate. Così v., per i giuristi, T. Treu, in Legge 9 dicembre 1977, n. 903, cit. sub art. 1, p. 788. Per i sindacalisti, v. Aa. Vv., La parità. Commento alla legge, a cura degli uffici legislativi e legali della C.G.I.L., C.I.S.L., U.I.L., Roma, 1978, sub art. 1. A quanto riferiscono fonti di parte sindacale, si registrano notevoli ritardi degli uffici nell’adempimento all’obbligo di unificare le liste: cfr. «I diritti dei lavoratori», n. 29, 1979.
[63] Il ministero del lavoro, nella cit. circolare n. 92/78 del 29 dicembre 1978, ha precisato che il I comma dell’art. 1 impone il «superamento di ogni discriminazione, basata sul presupposto di fatto relativo alla esistenza di mansioni cosiddette maschili e femminili».
[64] Ritiene invece necessario delimitare al massimo l’area delle discriminazioni indirette G. Simoneschi, La donna e il lavoro: dalla tutela alla parità, cit., pp. 34-35; l’a. pensa che per questa via si ottenga sì una riduzione dell’area dei comportamenti discriminatori vietati, largamente compensata, però, dal fatto che «una volta provata la relazionabilità ‒ in un rapporto di causa ad effetto ‒ degli atti del datore di lavoro a condizioni e caratteristiche proprie di un sesso o ad esso riferite da norme o non di meno dalla comune opinione, verrà tolta al datore di lavoro ogni facoltà di recupero» (ovvero gli verrà negata la possibilità di provare che il requisito, tipico di un sesso, o presunto tale, richiesto a fini di assunzione, era essenziale per lo svolgimento della prestazione lavorativa). La tesi di Simoneschi mi pare poco convincente: il risultato di privare il datore di lavoro della prova liberatoria (dubbio, ove manchi un espresso regime di presunzioni assolute) non compensa il sacrificio della interpretazione restrittiva dell’art. 1, proprio nell’area più significativa delle discriminazioni.
[65] La definizione formulata nel testo ricalca, con qualche semplificazione, quella di recente riproposta da E. Ghera, Le sanzioni civili nella tutela del lavoro subordinato, cit., p. 38, e già contenuta nel suo Atti e trattamenti economici collettivi discriminatori, in Commentario dello statuto dei lavoratori, diretto da U. Prosperetti, I, Milano, 1976, pp. 430 seg. Ma v., già prima, l’ampia nozione di discriminazione elaborata da T. Treu, Condotta antisindacale e atti discriminatori, cit., pp. 34 seg.
[66] Giustamente osserva T. Treu, in Legge 9 dicembre 1977, n. 903, cit., sub art. 13, pp. 822, che quella degli «atti omissivi» è una categoria di dubbia consistenza; è invece certo che la discriminazione può essere attuata con, o consistere di, un’omissione.
[67] V. il Titolo VII del Civil Rights act del 1964 (USA); secondo E. Silverstein, The Status of Women Workers in the United States, in «Bullettin of Comparative Labour Relations», n. 9/1978, pp. 347 seg., «the courts have defined sex discrimination as any practice, including a facially neutral criterion, which has a disproportionate impact on women’s employment opportunities and is not justified by business necessity». L’a. aggiunge che «an intent to discriminate need not be proven, since Congress directed the thurst of the act to the consequences of employment practice, not simply the motivation».
[68] Cfr. C. Assanti, La disciplina del lavoro femminile, cit., p. 29.
[69] Si può fare rinvio a S. Sciarra, Il divieto di indagini sulle opinioni, in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», 1977, pp. 1062 seg. (qui p. 1073). V. anche Pret. Milano, 10 dicembre 1974, in «Rivista giuridica del lavoro», 1977, II, p. 236.
[70] Di diverso avviso ‒ mi pare ‒ G. Simoneschi, loc. ult. cit.
[71] Così T. Treu, in Legge 9 dicembre 1977, n. 903, cit., sub art. 1, pp. 789 seg. Si può riprendere l’esemplificazione ancora da E. Silverstein, loc. ult. cit.: «facially neutral criteria which tend to riserve jobs for men include height, weight, and lifting requirements, experience and education prerequisites, union referral system (most skilled crafts unions have few women members), supervisors evaluations for promotion, no transfer rules in plants where jobs had initially been classified by sex, veteran’s preference policies, and word-of-mouth recruiting by male employes».
[72] S. Sciarra, Intervento, in La disciplina giuridica del lavoro femminile, cit., p. 101.