Dalla tutela alla parità
DOI: 10.1401/9788815374257/p1
Prefazione alla riedizione digitaledi Gisella De Simone e Marco NovellaQuesta breve premessa è frutto di una riflessione comune, ma di una scrittura separata. A G. De Simone si devono i §§ 1 e 2; a M. Novella i §§ 3 e 4
1. Come un libro «non classico» diviene un classico
Una delle tante definizioni di cosa
sia un «classico» proposte da Italo Calvino (1981) recita così: un classico è un libro
che non ha mai finito di dire quel che ha da dire; e potremmo proseguire, rinvenendo
nell’opera che abbiamo il piacere e l’onore di ri-presentare oggi ai lettori molti altri
tratti caratteristici di un «classico», appunto. Questo libro parlava ai lettori della
fine degli anni ’70, e parla, diversamente, al lettore di oggi, dopo più di
quarant’anni.
Ma alla sua prima pubblicazione non
fu certo considerato un’opera giuridica «classica»: troppo diversa l’impostazione
rispetto alla letteratura giuslavoristica dell’epoca, inusuali le domande alle quali
l’autrice si propone di rispondere: «a) se lo sfruttamento e l’emarginazione delle donne
siano stati assecondati o favoriti dalle leggi c.d. protettive o, meglio, se quelle
leggi abbiano avuto un’incidenza sui rapporti sociali reali; b) se siano riscontrabili
nella recente legge sulla parità» – denominazione che diverrà poi un altro «classico» –
«segni di una rottura col passato tali da giustificare l’affermazione che si sia
verificata una rilevante inversione di tendenza nei rapporti fra occupazione femminile e
leggi che la regolano». Non esattamente una monografia tradizionale «da concorso»
[1]
¶{p. 2}
.
Quasi paradigmatica la breve sintesi
presentata in quella rassegna della dottrina giuslavoristica, a firma Gino Giugni, che
diverrà presto un «classico», nel suo genere, ogni anno atteso con ansia da
giuslavoristi giovani e meno giovani, nel neo nato «Giornale di diritto del lavoro» (la
cui fondazione è coeva proprio all’opera dell’autrice). Apparentemente asettica,
giustapposta e quasi assimilata ad un’altra monografia sul lavoro femminile (De
Cristoforo 1979), poiché entrambe, secondo il recensore, impostate «sull’analisi delle
vicende evolutive della legislazione in materia», evidenziando quale unica differenza
«gli accenti critici nei confronti della l. n. 903/1077 [che costituiscono] un motivo
dominante» dell’opera di Maria Vittoria Ballestrero, autore (al maschile, lo si desume
dal genere dell’aggettivo) «anche fortemente critico nei confronti della scelta del
legislatore di valorizzare l’autonomia collettiva».
L’autrice, di fatto, con lucida
consapevolezza, sfidava almeno un taboo (la centralità della
contrattazione collettiva) e con fiera convinzione costruiva un lavoro che aveva
l’ambizione, pienamente realizzata, di costruire le categorie giuridiche del presente
attraverso l’utile strumento dell’indagine storica (parafrasando l’autrice, nella sua Presentazione)
[2]
. Una giurista, dunque, che utilizza la storia «non come accattivante
premessa culturale al discorso giuridico «vero», ma come chiave conoscitiva per
allargare i confini del discorso giuslavoristico» – dirà poi uno storico del diritto
(Passaniti 2016)
[3]
, esprimendo un giudizio pienamente condivisibile.
La ricerca storica, in questo lavoro
come in molti altri che hanno punteggiato la sua copiosa produzione, è puntuale, ma
senza mai cadere nel vezzo della citazione testuale o della ricostruzione pignola delle
vicende storiche e politiche che hanno condotto ad un testo normativo per il mero gusto
di ¶{p. 3}mostrare la vastità delle sue letture (sempre di prima mano,
dettate da una vivace curiosità per la ricerca e lo studio delle fonti e della
letteratura, non solo giuridica). Un diritto che vive nella storia, con tutto ciò che
nella storia rileva: i movimenti sociali, le rivendicazioni, individuali e collettive,
dei diritti di cittadinanza, la condizione giuridica, economica e sociale delle
(diverse) donne nei diversi periodi e regimi, al di là della lettera delle leggi (ma
senza mai dimenticarle, le leggi, per verificarne e criticarne l’applicazione o la
mancata attuazione).
Il libro restituisce tutto il lavoro
che pure, quasi con pudore, in molti casi cela, o scopre solo al lettore che abbia
voglia di perdersi, senza preconcetti ideologici, nella narrazione dell’autrice, che
racconta, appunto, una storia, o meglio molte storie, ma al contempo condivide
generosamente con il lettore le fonti dalle quali ha tratto tutte le informazioni che
offre, così che ciascuno possa ricostruire una propria storia, una propria
interpretazione dei fatti e del diritto.
2. Un successo (non) annunciato
Abbiamo già detto che non si tratta
di una monografia giuridica classica: un mondo di esperienza e un metodo radicalmente
diverso e innovativo, e non solo la nuova legge n. 903/1977, la separa dalle precedenti
e coeve opere tradizionali
[4]
. Ma la diversità del libro, la sua «anomalia», potremmo quasi dire, nel
panorama della letteratura giuridica dell’epoca (ma forse anche di oggi) non si ferma
qui.
La si può rilevare da molti punti
di vista, e ci soffermeremo qui brevemente su alcuni di questi. A partire dalla scelta,
quasi iconoclasta per l’epoca, di pubblicare il suo lavoro nella collana Universale
Paperbacks de Il Mulino, nella quale, sino a quel momento, davvero poche, seppur tutte
di rilievo e di attualità, erano le opere giuridiche
[5]
. La scelta ha consentito ¶{p. 4}la diffusione del libro ben
al di là dei confini della comunità accademica giuslavoristica, nel grande mondo «delle
donne» come tra gli studiosi di altre scienze sociali.
Ma una precisazione subito occorre:
il libro non voleva essere (ci permettiamo di dire nostra sponte) e
non è un libro «per le donne», né un pamphlet, nonostante il titolo
sicuramente accattivante, che segnerà il successo di quella espressione («dalla tutela
alla parità»)
[6]
. Men che mai un libro corrivo rispetto alla vogue
dell’epoca, nel variegato mondo delle forme di presenza e di rappresentanza
delle donne e del dibattito ideologico del tempo (la cui ricostruzione richiederebbe
riflessioni non proponibili in questa sede)
[7]
. È sufficiente considerare l’approccio critico (una critica «da sinistra»,
per così dire) ai contenuti, e agli stessi protagonisti della elaborazione e
approvazione della legge n. 903/1977. Ciò che segnala l’onestà intellettuale
dell’autrice è l’opzione di fondo che attraversa l’intero lavoro: con le sue parole,
distinguere «intenzionalmente fra questioni giuridiche e questioni politiche»; non per
esimersi «dall’esprimere quei giudizi politici che i giuristi sempre, esplicitamente o
meno, esprimono»
[8]
, ma perché «essendo l’approccio alla legge ancora fortemente ideologizzato»
– come poi è rimasto, giova osservare – «ogni analisi, dettagliata, e magari critica,
degli ¶{p. 5}enunciati contenuti nella legge è destinata a essere
confinata (con qualche spregio) fra i discorsi «tecnici» o peggio «da tecnico»»
[9]
. Il messaggio è chiaro, e chiaramente individuabili sono i destinatari,
politici e sindacalisti, in ispecie donne. Insomma: l’analisi giuridica non può e non
deve piegarsi mai all’ideologia o anche solo agli obiettivi politici. Approccio niente
affatto scontato, alla fine degli anni ’70, per una giurista «impegnata».
L’impegno (anche) politico, nel
senso più alto del termine, nell’analisi dei problemi che poneva (e continua a porre) il
lavoro femminile emerge dall’attenzione dedicata, nell’intero libro, alla situazione «di
fatto» delle lavoratrici, nel mercato del lavoro e nel rapporto di subordinazione.
Lavoratrici al plurale, perché un’indicazione importante, direi fondamentale – e da
riscoprire oggi – che offre questo libro è la scelta di coniugare l’affermazione del
principio di eguaglianza nelle due dimensioni, individuale e collettiva. Se pure, per
l’autrice, le donne non sono tutte eguali tra loro, e la loro individualità merita
rispetto e strumenti giuridici per garantirla, il problema – oggi considerato un po’
démodé – del «lavoro delle donne» non può essere risolto, e
neppure affrontato in una prospettiva meramente individualistica, senza un approccio
(anche) collettivo.
In quegli anni, d’altronde, un
filone importante della ricerca economica aveva ad oggetto proprio il lavoro femminile,
e l’autrice – senza subire, allora come oggi, quella fascinazione per la presunta
oggettività dell’economia che inizierà a cogliere tanti giuslavoristi molti lustri dopo
– stava partecipando, mettendo a frutto la sua tecnica di giurista, alla pubblicazione
dei risultati, teorici ed empirici, di quelle ricerche
[10]
. Il rapporto con economisti del lavoro quali Luigi
¶{p. 6} Frey, Renata Livraghi,
Michele Salvati non pare marginale, nella maturazione del pensiero dell’autrice e per la
sua sensibilità verso le ragioni strutturali della diseguaglianza delle donne nel
mercato del lavoro, che sa rileggere con gli occhiali del diritto, e in una continua
rivisitazione delle condizioni storiche di quelle differenze deficitarie. Così come
niente affatto marginale fu il rapporto con una sociologa del lavoro che in quegli anni
iniziava a occuparsi con rigoroso metodo scientifico delle politiche del lavoro
femminile e più in generale della prospettiva di genere nella sociologia economica e del
lavoro (Beccalli 1985).
Note
[1] Merita rileggere l’incipit della prima rubrica di G. Giugni, a proposito delle pubblicazioni collegate alle «vicende della vita accademica», con «la riapertura dei concorsi a cattedra» (Giugni 1980). Per suffragare il giudizio espresso nel testo è sufficiente guardare alle altre opere presentate in quella rassegna.
[2] Non si può neppure ignorare il tono chiaramente polemico di altre affermazioni contenute nelle righe seguenti, che esprimono altre ragioni che l’hanno indotta a scrivere quel libro: «la qualità [evidentemente non apprezzata] del dibattito sviluppatosi attorno alla legge n. 903» così come «la provocazioni implicita nell’accaparramento, da parte di maschi autorevoli, del tema del lavoro femminile» – e il pensiero va alle opere di Tiziano Treu, al quale pure la legherà una solida amicizia, e in particolare a Treu 1979.
[3] In quel volume peraltro compare uno dei tanti saggi, «storici», anche recenti, della nostra autrice (Ballestrero 2016).
[4] Bastino qui, quali esempi, la monografia di G. Cottrau (Cottrau 1971) e l’opera, che pur tentava di coniugare diritto e storia, di Schwarzenberg (Schwarzenberg 1982) .
[5] E una sola di accademici giuslavoristi (Romagnoli-Treu 1977), anch’essa non certo un’opera tradizionale. Sul lavoro femminile compariva il lavoro di un’economista, Padoa Schioppa F. 1977.
[6] Diverso è il caso della successiva breve opera che solo nel titolo appare come «il seguito» della prima, con l’espressione «Parità e oltre» (Ballestrero 1985). In quel caso è la stessa autrice che, nella Premessa, scrive «questo libro è dedicato alle donne», perché «il maggior numero di donne che lavorano o vogliono lavorare sappia di più e rifletta meglio anche sulla propria condizione giuridica»; pur nella sua apparente semplicità, l’agile libretto non rinuncia alla tecnica giuridica, alla presentazione delle argomentazioni giuridiche utilizzate dai giudici nella prima applicazione della legge n. 903/1977, all’analisi critica, anche spietata, della funzione effettivamente esercitata dall’autonomia collettiva. E Vittorio Foa, nella breve Introduzione, si muove sullo stesso piano, in fondo, quando accetta la critica che l’autrice rivolge, ora come nel 1979, all’azione del sindacato e al contenuto della contrattazione collettiva.
[7] Esemplare un libricino coevo che ricostruisce, in chiave marxiana, le lotte «al femminile» per il lavoro (Chisté, Del Re, Forti 1979).
[8] Traspare chiaramente la lezione che i giuslavoristi, o almeno i migliori tra loro, avevano volenti o nolenti appreso da Tarello 1967. Recentemente, ricordando Ballestrero 1988, scriveva di come quel «libro, che tutti dicevano acuto e brillante, ma che avevano accolto non senza risentimenti, fosse diventato in breve tempo un «classico», o meglio una citazione doverosa negli studi di diritto sindacale» (Ballestrero 2021).
[9] Il frammento è tratto dal terzo capoverso del Capitolo sesto, dedicato appunto alla legge n. 903, la parte del volume più segnata dall’attualità e dunque più soggetta a letture polemiche. La nota 7 di quel capitolo descrive con sarcasmo la generale disapprovazione che accolse la relazione che presentava la prima parte dell’attuale Capitolo sesto, considerata «distruttiva» e comunque soppressa nella pubblicazione degli atti di quel convegno (organizzato dall’Assessorato ai problemi del lavoro femminile del Comune di Bologna). Ineguagliabile la chiosa dell’autrice: «credo lo chiamino centralismo democratico».
[10] Molti di quei lavori furono pubblicati, in quel periodo, nei Quaderni di Economia del lavoro, editi da Franco Angeli. Ne segnaliamo tre emblematici: Frey, Livraghi, Mottura, Salvati 1976; Frey, Livraghi, Olivares 1978; Ballestrero, Frey, Livraghi, Mariani (1983 (dove compare anche Ballestrero 1983 dedicato alla rilettura della legge n. 903/1077 e all’analisi critica della sua prima applicazione).