Dalla tutela alla parità
DOI: 10.1401/9788815374257/c5
Capitolo quintoLe riforme degli anni Settanta
1. La nuova legge sulle lavoratrici madri. Efficienza della tutela e valore sociale della maternità.
Gli orientamenti della legislazione sulle
lavoratrici madri ‒ di cui ho riferito nei capitoli precedenti ‒ sono stati corretti
dalle riforme dei primi anni settanta. Le leggi del 1971 (n. 1204 sulle lavoratrici
madri, e n. 1044 sugli asili nido) sono il risultato di una lunga azione sindacale,
culminata con la presentazione di due progetti elaborati unitariamente dalle
confederazioni, e accolti pressoché integralmente nelle predette leggi. Questa
derivazione sindacale è sicuramente alla base del consenso che le riforme del 1971
(successivamente integrate dalla legge n. 877 del 1973, sul lavoro a domicilio: infra,
par. 2) hanno incontrato fra le lavoratrici, nei sindacati, nelle forze politiche, e
sulla stampa vicina alle organizzazioni sindacali.
[1]
Benché non siano certo copiose né la dottrina né
la casistica giurisprudenziale, i contenuti della legge n. 1204/1971 sono troppo noti
perché io debba riferirne in questa sede. Non mi propongo infatti di interpretare le
singole disposizioni, ma di ricostruire il significato dell’intervento legislativo come
tale. A tal fine è sufficiente, mi pare, prendere in considerazione le norme nelle quali
è ravvisabile una soluzione di continuità rispetto al passato, e segnalare sia le
integrazioni (spesso discutibili) che la legge ha subito con l’emanazione del
regolamento di esecuzione (D.P.R. n. 1026 del 1976), sia le modificazioni introdotte con
la legge 9 dicembre 1977, n. 903, sulla parità uomo-donna nei rapporti di
lavoro.
La prima importante innovazione da segnalare è
l’ampliamento della sfera di applicabilità della L. 30 dicembre 1971, n. 1204, e la
conseguente (relativa) parità di trattamen¶{p. 176}to, così realizzata,
fra le lavoratrici di diversi settori. Sono infatti destinatarie degli artt. 4, 5, 6, 8,
e 9 le lavoratrici addette ai servizi domestici e familiari
[2]
. Degli artt. 2, 4, 6, e 9 sono destinatarie le lavoratrici a domicilio,
rientranti nell’ampia definizione di cui all’art. 1 L. 18 dicembre 1973, n. 877
[3]
. L’applicazione parziale della legge n. 1204 alle lavoratrici a domicilio è
un’innovazione, il cui peso potrà essere meglio valutato in sede di analisi della legge
n. 877 (infra, par. 2). Una legge, questa, che ha imboccato finalmente la strada della
disciplina rigorosa del lavoro a domicilio, con l’obbiettivo di contenere il fenomeno in
preoccupante espansione, e di ridurre lo sfruttamento di cui sono oggetto
prevalentemente le donne. Nelle intenzioni del legislatore, l’estensione alle
lavoratrici a domicilio di importanti norme di tutela della maternità (come, ad esempio,
il divieto di licenziamento e l’assistenza sanitaria) e, insieme, la restrizione delle
possibilità, per i datori di lavoro, di fare ricorso al lavoro a domicilio
[4]
, dovevano rappresentare la definitiva chiusura delle molte falle lasciate
aperte dalla legislazione precedente. Purtroppo, la scarsa efficienza pratica della
nuova legge sul lavoro a domicilio ha finora impedito che la riforma disegnata con le
leggi del 1971 e del 1973 prendesse corpo.
Destinatarie della L. 1204/1971 sono, per espressa
previsione (art. 1), le apprendiste; ma i periodi di astensione obbligatoria e
facoltativa dal lavoro non si computano ai fini della durata del periodo di
apprendistato (art. 7 D.P.R. n. 1026/1976). I dubbi sussistenti intorno all’applicazione
della legge alle lavoratrici assunte in prova sono stati dissipati invece dall’art. 1
D.P.R. 1026/1976, secondo cui le norme che vietano il licenziamento della lavoratrice
madre non escludono il licenziamento per esito negativo della prova
[5]
. La disposizione regolamentare non nega immediatamente l’applicabilità della
legge n. 1204 alla lavoratrice in prova: ma è evidente che, essendo integro il potere di
recesso del datore di lavoro, ed essendo l’esito della prova lasciato alla sua
valutazione discrezionale, la gravidanza, di cui il datore di lavoro medesimo venga a
conoscenza durante l’esperimento della prova, lo porterà a scegliere più probabilmente
il licenziamento che l’assunzione definitiva
[6]
.¶{p. 177}
Destinatarie della tutela, ma solo dopo l’entrata
in vigore della legge n. 903/1977, sono anche le lavoratrici che abbiano ottenuto un
bambino in affidamento preadottivo (ex art. 314/20 c.c.), le quali godono (art. 6 L. n.
903) dei diritti sanciti dall’art. 4, lett. c, e dall’art. 7, I e II comma, L. n.
1204/1971, con alcuni limiti e adattamenti
[7]
. L’estensione alle madri adottive e affidatane delle norme, che consentono
di assentarsi dal lavoro per provvedere alla cura del bambino, è dunque recente. Ma la
soluzione era già stata anticipata in via interpretativa
[8]
. Numerose sentenze avevano affermato infatti l’applicabilità alle madri
adottive dei diritti sanciti dall’art. 7 (prolungamento facoltativo dell’astensione
obbligatoria dal lavoro e assenze per malattia del bambino) e dall’art. 10 (cosiddetto
riposo per allattamento) della legge n. 1204, ma con gli stessi limiti previsti nelle
norme predette: cioè, entro un anno di età del bambino l’astensione facoltativa e i
riposi, entro i tre anni di età del bambino le assenze per malattia. Era invece incerto
l’orientamento circa l’estensione alla madre adottiva dell’art. 4, lett. c (astensione
dal lavoro post-partum), su cui si era pronunciato sfavorevolmente il ministero
[9]
. L’art. 6 della legge n. 903/1977 ha risolto molte delle questioni aperte,
assimilando al parto l’ingresso nella famiglia del bambino adottato o affidato; quanto
ai limiti di età del bambino (sei anni per l’astensione di cui all’art. 4, lett. c; tre
anni per le assenze di cui all’art. 7,1 e II comma, L. n. 1204/1971) sono fissati con
ragionevole riferimento alle esigenze fisiche e affettive dell’adottato o adottando. Il
silenzio della legge n. 903 lascia invece all’interprete la soluzione di due importanti
questioni: se alla madre adottiva si applichi l’art. 10, L. n. 1204/1971 (entro il
limite di un anno d’età del bambino), come già aveva affermato la giurisprudenza; se,
pure in mancanza di espressa menzione, spetti alla madre adottiva o affidataria il
trattamento economico previsto dall’art. 15, II comma, della legge n. 1204, per
l’assenza di cui all’art. 7,1 comma, della stessa legge. Credo che ambedue le questioni
possano essere risolte in senso positivo: in caso contrario, la tutela finalmente
accordata alla madre adottiva risulterebbe irragionevolmente mutilata
[10]
.
Al di là di qualche problema interpretativo
ancora aper¶{p. 178}to, si può dire che la legge n. 903 ha superato la
concezione puramente fisica della maternità (che domina invece la legge n. 1204/1971),
riconoscendo alla donna, anche quando non è fisicamente madre, una «essenziale» funzione
materna. Non c’è molto da obbiettare: ma vale la pena di sottolineare che la scelta del
legislatore appare ispirata più dalla considerazione del normale assetto dei rapporti
domestici (del bambino, anche adottato, si occupa e si prende cura la donna), che non da
preoccupazioni circa la più giusta (per il bambino) e la più equa (per la donna)
riparazione dei ruoli familiari
[11]
.
La normalità, di cui la legge tiene conto, può
ovviamente subire delle eccezioni. È successo così che un giudice si sia trovato a dover
applicare ‒ in via d’urgenza ‒ l’art. 4, lett. c, della legge n. 1204 ad un
ragazzo-padre, nella specie unico genitore in grado di garantire al bambino le cure e
l’assistenza necessarie
[12]
.
Importanti innovazioni sono state introdotte
dalla legge n. 1204/1971 per quanto attiene alla tutela della salute della lavoratrice
madre. Anzitutto la legge ha allungato il periodo di astensione obbligatoria dal lavoro
(art. 4: da due mesi prima della data presunta del parto a tre mesi dopo il parto;
l’astensione è anticipata a tre mesi prima del parto, quando i lavori che la donna
svolge siano da ritenersi gravosi o pregiudizievoli in relazione all’avanzato stato
della gravidanza, e può essere ulteriormente prolungata nei casi di cui all’art. 5). La
legge n. 1204 ha anche portato a sette mesi dopo il parto (anziché tre, come prevedeva
la L. n. 860/1950) il divieto di adibire le lavoratrici madri ai lavori pericolosi,
faticosi, e insalubri (secondo l’elenco contenuto nell’art. 5 D.P.R. n. 1026/1976, che
ha abrogato il D.P.R. 21 maggio 1953, n. 568), nonché al trasporto e sollevamento di
pesi. Durante il periodo che va dall’inizio della gestazione (300 giorni prima della
data presunta del parto indicata nel certificato medico: artt. 4 e 14 D.P.R. n.
1026/1976) a sette mesi dopo il parto, le donne che erano addette ai lavori interdetti,
ovvero a mansioni giudicate pregiudizievoli per la salute dall’ispettorato del lavoro,
debbono essere adibite ad altre mansioni. Secondo quanto previsto nell’art. 3 ult.
comma, L. n.¶{p. 179} 1204, l’art. 13 dello statuto dei lavoratori si
applica solo quando le lavoratrici vengano addette a mansioni equivalenti o superiori.
La legge sulle lavoratrici madri consente perciò quanto l’art. 13 st. vieta, vale a dire
l’adibizione della lavoratrice a mansioni inferiori rispetto a quelle abitualmente
svolte. La conservazione della qualifica e della retribuzione ripristina, per le
lavoratrici madri, la vecchia e abrogata disciplina dello jus variandi (l’ex art. 2103
c.c.): si tratta di un’anomalia, la cui obbiettiva giustificazione è subordinata alla
temporaneità della retrocessione
[13]
. La stessa disciplina delle mansioni vale nel caso di spostamento della
lavoratrice da un reparto ad un altro dell’azienda, determinato dalla sospensione
dell’attività del reparto al quale la lavoratrice madre era addetta (art. 3 D.P.R. n.
1026/1976): sempre che il reparto fosse privo di «autonomia funzionale», perché in caso
contrario (sospensione dell’attività nel reparto autonomo) la lavoratrice madre può
essere sospesa al pari degli altri lavoratori addetti alla stessa unità produttiva (art.
2 ult. comma L. n. 1204)
[14]
.
Con la legge n. 1204/1971 risulta rafforzato il
diritto alla stabilità nel posto di lavoro della lavoratrice madre
[15]
. Le eccezioni al divieto di licenziamento sono rimaste pressoché identiche
[16]
, ma l’esperienza maturata nei venti anni in cui è stata vigente la legge n.
860/1950 ha suggerito una nuova formulazione delle norme sul divieto, che opera ora in
connessione con lo stato oggettivo di gravidanza e puerperio, e non con la sua
certificazione
[17]
. Di conseguenza, ove la lavoratrice madre sia licenziata durante il periodo
coperto dal divieto, ha diritto di ottenere il ripristino del rapporto di lavoro
presentando, entro novanta giorni dalla data del licenziamento, idonea certificazione,
dalla quale risulti l’esistenza, all’epoca del licenziamento, delle condizioni che lo
vietavano. Le nuove norme riproducono, nella sostanza, il discusso art. 13 del
regolamento di attuazione della legge n. 860/1950 (D.P.R. n. 568/1953 ormai abrogato).
Del vecchio regolamento, il regolamento di esecuzione della nuova legge (D.P.R. n.
1026/1976) ha ripreso anche la disciplina del ripristino, disponendo che il periodo
intercorrente tra la data della cessazione effettiva del rapporto e la data della
presen
¶{p. 180}tazione del certificato è computato nell’anzianità di
servizio, ma la mancata prestazione lavorativa nel periodo medesimo non dà diritto alla
retribuzione. La norma regolamentare continua a riversare sulla lavoratrice le
conseguenze economiche della mancata tempestiva certificazione, benché tale
certificazione, come si è appena visto, non abbia più alcuna connessione con
l’operatività del divieto di licenziamento. La legittimità dell’art. 4 ult. comma è
dubbia, poiché quanto disposto dal regolamento pare più una innovazione che
un’attuazione dell’art. 2, II comma, della legge n. 1204/1971. Infatti, nel prescrivere
il «ripristino» del rapporto di lavoro per la lavoratrice licenziata durante il divieto,
il legislatore dal 1971 non poteva dimenticare che il significato e le conseguenze,
anche economiche, della reintegrazione nel posto del lavoratore illegittimamente
licenziato, già deducibili dai principi generali, erano ormai quelli definiti dall’art.
18 dello statuto dei lavoratori per la stragrande maggioranza dei casi di nullità,
annullabilità, e inefficacia del licenziamento. Se questo è vero, è anche ragionevole
pensare che, ove il legislatore avesse voluto, per il caso di specie, fare eccezione
alle regole generali, lo avrebbe espressamente detto: nel silenzio della legge, si può
allora ritenere che l’art. 4 ult. comma D.P.R. n. 1026 abbia esorbitato dai limiti
propri della norma regolamentare
[18]
.
Note
[1] V. Trent’anni di lotte, cit. Consenso la legge ha incontrato anche fra i giuristi che l’hanno commentata: v. ad es. R. Pessi, Orientamenti legislativi, cit.; G. Cottrau, La tutela della donna lavoratrice e la legge 30 dicembre 1971, n. 1204, cit.; V. Romano, Osservazioni sulla nuova legge per la tutela delle lavoratrici madri, in «Giurisprudenza agraria italiana», 1972, I, pp. 463 seg. Riferimenti (sommari) alla legge in G. Mazzoni, Manuale di diritto del lavoro, cit., I, pp. 387 seg.; G. Pera, Lezioni di diritto del lavoro, cit., pp. 561 seg.; più ampio il commento di L. Riva Sanseverino, Diritto del lavoro, XIII ed., Padova, 1978, pp. 336 seg.
[2] La legge 31 dicembre 1971, n. 1403 prevede l’estensione alle collaboratrici domestiche, aventi rapporto di lavoro saltuario, degli obblighi assicurativi, compresa la maternità. Per le lavoratrici familiari «autonome», v. l’art. 14 L. 9 dicembre 1977, n. 903 e, in proposito, le osservazioni di G. Cian, in Legge 9 dicembre 1977, n. 903. Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro. Commentario, a cura di T. Treu, sub art. 14, in «Le leggi civili commentate», 1978, pp. 825 seg.
[3] Sulla nuova definizione della subordinazione del lavoratore a domicilio. infra, par. 2.
[4] Sulla funzione di disincentivare il lavoro a domicilio, propria della legge n. 877/1973, v. infra, par. 2 e ivi riferimenti bibliografici.
[5] Cfr. Riva Sanseverino, op. cit., p. 336. Esprime dubbi sull’opportunità della soluzione adottata C. Assanti, La disciplina del lavoro femminile, cit., p. 30.
[6] La facoltà di licenziare la lavoratrice gestante per esito negativo della prova consente praticamente di eludere il divieto (ex art. 8 L. 20 maggio 1970, n. 300) di accertare prima dell’assunzione, mediante colloqui informativi e simili, lo stato di gravidanza della lavoratrice. La nullità del licenziamento di una lavoratrice, che all’atto dell’assunzione aveva occultato il proprio stato di gravidanza, è stata giustamente affermata dal Pret. Milano, 10 dicembre 1974, in «Rivista giuridica del lavoro», 1977, II, p. 236.
[7] Gli adattamenti riguardano la diversa situazione della madre adottiva, alla quale non è ovviamente concessa l’astensione obbligatoria prima dell’effettivo ingresso del bambino nella famiglia. I limiti concernono l’età dell’adottato o adottando: i sei anni sono considerati dalla legge il massimo, superato il quale la madre adottiva non è più considerata «lavoratrice madre» a fini di applicazione della L. n. 1204/1971.
[8] Nel senso della legittimità dell’estensione analogica della legge n. 1204 alla madre adottiva: Roma, 17 gennaio 1973, in «Foro italiano», 1973,1, c. 1278; Pret. Bologna, 24 maggio 1973, ivi, 1973, I, c. 2280; Pret. Milano, 17 dicembre 1975, in «Rivista giuridica del lavoro», 1975, II, p. 1080; Pret. Milano, 23 settembre 1975, ivi; Pret. Milano, 31 ottobre 1975, ivi; Trib. Milano, 29 aprile 1976, in «Massimario di giurisprudenza del lavoro», 1976, p. 359; Pret. Bologna, 18 gennaio 1977, in «Rivista giuridica del lavoro», 1977, II, p. 276; Pret. Bologna, 25 gennaio 1977, ivi, p. 277. In dottrina: Borgogelli, Note in tema di applicazione alle madri adottive della normativa di tutela delle lavoratrici madri, ivi, 1975, II, pp. 1082 seg.; A. Maresca, Legittimità e limiti dell’estensione analogica della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, ivi, 1975, II, pp. 1092 seg.; Galoppini, Affidamento temporaneo preadottivo e tutela della lavoratrice madre, ivi, 1974,1, pp. 161 seg.; F. Giampietro, Tutela delle lavoratrici madri e adozione speciale, in «Foro italiano», 1975, V, cc. 85 seg.
[9] Ministero del lavoro, circolare del 18 gennaio 1974, cit. da R. Bortone, in Legge 9 dicembre 1977, n. 903, cit., sub art. 6, p. 809. In senso sfavorevole all’applicazione dell’art. 4, lett. c, L. n. 1204/1971, v. Pret. Bologna, 26 gennaio 1977, in «Rivista giuridica del lavoro», 1977, II, p. 277, colla motivazione che il principio dell’astensione obbligatoria post-partum è prioritariamente diretto a favorire il ripristino delle energie psico-fisiche della puerpera.
[10] Così anche R. Bortone, op. cit., p. 810.
[11] Per superare i limiti della L. n. 903/1977, dove riconosce alla sola madre adottiva o affidataria il diritto all’astensione dal lavoro di cui all’art. 4, lett. c, L. n. 1204/1971, occorre coordinare gli artt. 6 e 7 della legge n. 903 e dedurre, dal coordinamento, l’estensione di quel diritto anche al padre adottivo o affidatario. È questa l’interpretazione proposta da Bortone, op. cit., sub art. 7, p. 811. L’operazione è indubbiamente sorretta dalla logica di porre padre e madre adottivi sullo stesso piano, ma i lavori preparatori e la lettera della legge mostrano che il legislatore, in questo caso, non si è posto il problema della parità, ritenendo probabilmente essenziale l’opera della madre adottiva al momento dell’ingresso del bambino nella famiglia.
[12] Pret. Milano, ord. 30 ottobre 1978, in «I diritti dei lavoratori», marzo 1979, n. 30, p. 30.
[13] Cfr. G. Cottrau, La tutela della donna lavoratrice, cit.; dello stesso a. v. anche Alcune considerazioni sul regolamento di esecuzione alla legge di tutela delle lavoratrici gestanti e madri, in «Notiziario giuridico del lavoro», 1977, pp. 712 seg.
[14] In base alla legge n. 1204/1971 e al regolamento (D.P.R. n. 1026/1976) l’autonomia funzionale del reparto lo definisce come unità produttiva; ma non è sempre facile rilevare l’autonomia di questo nucleo minore dell’azienda. Secondo M. Biagi, La dimensione deli impresa nel diritto del lavoro, Milano, 1978, pp. 168 seg., occorre verificare caso per caso, oltre l’importanza delle funzioni, la complessiva autosufficienza dei mezzi.
[15] Il divieto di licenziamento è ancora sorretto dalla sanzione (art. 31 L. n. 1204). Quanto alle dimissioni volontarie della lavoratrice presentate durante il periodo di divieto di licenziamento, l’art. 11 D.P.R. n. 1026/1976 ha stabilito che debbano essere comunicate all’ispettorato del lavoro, che le convalida: la risoluzione del rapporto di lavoro è condizionata alla convalida. La procedura è diversa, ma la ratio della norma regolamentare è la stessa dell’art. 1, III comma, L. n. 7/1963 (retro, cap. IV, par. 4).
[16] Ma v. l’art. 3 D.P.R. n. 1026/1976 e l’art. 2, IV comma, L. n. 1204/1971 per le addette ad industrie e lavorazioni stagionali.
[17] Retro, cap. IV, par. 3.
[18] Esprime dubbi sulla legittimità dell’art. 4, ult. comma, D.P.R. n. 1026/1976 C. Assanti, La disciplina del lavoro femminile, cit., p. 30. Per la ricostruzione della disciplina dei licenziamenti, contenuta nell’art. 18 statuto dei lavoratori, rinvio a quanto ho scritto in I licenziamenti, cit., pp. 76 seg., e ivi specialmente la critica all’opinione che spiega retribuzione e risarcimento dei danni dovuti al lavoratore illegittimamente licenziato come risarcimento dei danni derivanti dalla mora del creditore (pp. 104 seg.). Seguendo l’indirizzo criticato, e vigente la legge n. 860/1950, la mancata corresponsione della retribuzione alla lavoratrice ripristinata (ai sensi dell’art. 13 del regolamento) era giustificata da F. Carinci, In tema di «divieto di licenziamento» della lavoratrice gestante, cit., p. 1626, con la inesistenza del dovere del datore di lavoro creditore di cooperare, prima della presentazione del certificato medico, e cioè quando ignorasse lo stato di gravidanza della lavoratrice. Alla luce della nuova disciplina del divieto di licenziamento, la mancata corresponsione della retribuzione non trova più una spiegazione credibile. Infatti, se il divieto opera con lo stato oggettivo di gravidanza della lavoratrice, la conoscenza (soggettiva) che il datore di lavoro abbia della gravidanza medesima è irrilevante: del resto, la presentazione del certificato nei termini previsti dalla legge produce senz’altro l’annullamento del licenziamento e il ripristino del rapporto. Poiché allora la mancata prestazione lavorativa consegue ad un licenziamento, e l’annullamento di questo prescinde dalla considerazione delle intenzioni del datore di lavoro, dalla sua buona fede (e persino dai suoi giustificati motivi), la situazione della lavoratrice madre non è diversa da quella di ogni altro lavoratore licenziato senza giusta causa o giustificato motivo (art. 18 st. lav.). Pertanto, appare ingiustificato il peggior trattamento che l’art. 4 ult. comma D.P.R. n. 1026/1976 riserva alla lavoratrice.