Territori in bilico
DOI: 10.1401/9788815374240/c3
In tale scenario, i governi locali
si muovono sempre più in un ambiente normativo ispirato all’idea di governance
an
¶{p. 43}ziché di government [Rhodes
2000; Newman 2001] nel quale la mano pubblica non ha più il diretto controllo di molte
leve della regolazione, è piuttosto regista, dove riesce, di una pluralità di attori
pubblici e privati dotati di ampi margini di autonomia. Ciò significa non solo che i
governi locali hanno maggiori limiti nella capacità di imporre misure ed erogare
servizi, ma che lo stesso processo decisionale delle policies
locali non è più composto dal solo attore pubblico bensì da un network più o meno
formale e più o meno inclusivo di soggetti che in modo esplicito o implicito esprimono
le proprie preferenze, in termini di interessi, visioni del mondo e idee stesse della
regolazione [Blanco et al. 2011].
La questione del governo acquista
particolare rilevanza nel momento in cui i territori sono attraversati da periodi di
crisi, nei quali più facilmente rischiano di perdere i loro patrimoni economici
(imprese, banche, luoghi di formazione professionale) e sociali (soprattutto
l’emigrazione della popolazione più giovane in aree più ricche di opportunità). Proprio
in questi periodi, la presenza di una strategia deliberata di reazione alla crisi può
divenire essenziale per far fronte alle derive di frammentazione di soluzioni
individuali o addirittura di abbandono del territorio stesso da parte degli attori dello
sviluppo [Jessop 2018; Jones 2018].
La possibilità di un’azione di
governance strategica non è un elemento da dare per scontato. Non sono mancate, nella
letteratura degli studi urbani degli anni Novanta e Duemila [Wilson e Swyngedouw 2014],
interpretazioni delle trasformazioni territoriali per le quali l’esistenza di un
elemento di governo che orienti le condotte degli attori è divenuta sostanzialmente
irrilevante. In base a questa idea le forme di governance diventano cioè impotenti
rispetto a processi socio-economici che le sovrastano, riducendole ad agenti che, al
più, possono amministrarne l’ordine esteriore senza orientare in alcun modo le scelte di
fondo. Certamente, tutti gli studiosi riconoscono come le istituzioni locali soffrano di
molti limiti nell’assolvere ad una funzione strategica e orientativa: limiti
istituzionali, dati dalla scarsità di competenze rispetto ai livelli di governo
superiori, limiti economici dati dai vincoli di spesa pubblica in epoca di
¶{p. 44}austerità, e limiti politici, dati dall’indebolimento storico
dei soggetti partitici deputati a orientare le scelte pubbliche. Altri autori, tuttavia
[Andreotti 2019; Le Galès e Ugalde 2018; Le Galès 2017; Marques 2021], hanno messo in
luce come il governo locale possa essere decisivo nel costruire assetti che consentano
la collaborazione tra gli attori locali nel disegnare e implementare strategie
sinergiche di fronteggiamento dei problemi.
È utile, in questo quadro, mettere a
fuoco come si stiano attrezzando i territori a mettere in campo politiche e strumenti di
governo per lo sviluppo locale sostenibile, di quali strumenti e leve essi si dotino,
con quali attori pubblici e privati e come questi assetti mutino nel tempo. Non si
intende restringere il campo di attenzione alla sola azione degli attori locali ma
osservare come le diverse scale di azione degli attori possono influire sulla governance
locale. Lo sviluppo locale dipende infatti dall’intreccio di fattori locali, come la
presenza di reti e tradizioni di collaborazione tra gli attori del territorio o di fonti
di risorse specificamente radicate, con fattori extra-locali, come la presenza di
strategie nazionali o regionali e di connesse risorse, di leve istituzionali presenti
conferite al livello locale per la programmazione e progettazione di interventi e dalla
presenza, creata da strategie sovralocali, di staff formati con competenze tecniche e
relazionali per gestire tali strumenti.
La necessità di promuovere strategie
di sviluppo e coesione che sappiano tenere insieme le diverse scale di governance è
sottolineata negli ultimi anni dalla letteratura [Un-Habitat 2016]. Negli ultimi decenni
e soprattutto con la grande crisi economica del 2008 e le conseguenti politiche di
austerità, è emersa la progressiva distanza tra territori più densamente popolati di
risorse economiche e urbane in grado di attrarre capitali e persone, tipicamente le
metropoli e i territori che rimangono indietro, perdendo tessuto produttivo, servizi per
la cittadinanza e abitanti. Abbiamo assistito a fenomeni di delocalizzazione, di
passaggio di proprietà di realtà produttive e di credito del territorio, di dismissione
o disgregazione di alcuni distretti produttivi storici, i quali sembrano aver patito la
forza centripeta delle ¶{p. 45}grandi città. Sono così aumentati sempre
più i divari tra territori densamente popolati come le città medie e grandi e gli altri
[Coppola et al. 2021], alimentando le disuguaglianze
socio-economiche che anche il dato politico conferma, con una crescente distanza tra gli
esiti del voto nelle città e nelle aree non urbane. Tale distanza sta producendo quella
che un celebre saggio di Rodriguez-Pose ha chiamato «la vendetta dei luoghi che non
contano» [2018], che si manifesterebbe appunto nel crescente risentimento sociale e
politico di chi abita in questi territori e si sente sempre più escluso dalle dinamiche
di sviluppo e coesione.
Tale scenario rende urgente, per i
policy makers e per chi studia le dinamiche dello sviluppo
territoriale, individuare quali specifiche forme e strumenti può assumere una governance
multilivello che assicuri strategie sovralocali coordinate e dotate di risorse
(economiche e di competenze) e allo stesso tempo sia capace di preservare le specificità
e l’autonomia dei territori.
3. La stagione della programmazione negoziata e i suoi limiti
Un primo elemento utile
all’inquadramento del tema può essere individuato nel ripercorrere la traiettoria di
strategie e strumenti per lo sviluppo locale messi in campo negli ultimi decenni, così
da indagarne punti di forza e di debolezza e i possibili apprendimenti sull’oggi.
Abbiamo già vissuto, intorno alla
metà degli anni Novanta, una fase nella quale molti territori italiani ed europei si
sono trovati ad affrontare una fase di transizione tra un modello economico consolidato
ma entrato oramai in fase critica, quello legato all’industria manifatturiera basata
sulla piccola e media impresa, spesso a carattere distrettuale, e un nuovo modello di
sviluppo da ricostruire. Di fronte a quel passaggio, i governi italiani dell’epoca, in
particolare di centro-sinistra (guidati da Romano Prodi prima e Massimo D’Alema poi) con
Carlo Azeglio Ciampi al Ministero del Tesoro, scelsero di intraprendere una strategia
basata su un massiccio sostegno alle forme di programmazione negoziata
¶{p. 46}locale, coinvolgente amministrazioni locali (comuni e province
soprattutto), rappresentanze delle categorie produttive locali, del mondo del lavoro e
associativo. Tali programmi prevedevano incentivi economici rilevanti, messi a
disposizione dal governo centrale per quei territori che riuscivano a costruire dei
partenariati con componenti economiche e sociali locali, su piani pluriennali. La
presenza di alleanze locali plurali e l’orizzonte temporale di medio-lungo periodo erano
requisiti miranti da una parte a consolidare sinergie locali che superassero la
frammentazione tipica del tessuto produttivo italiano e dall’altro a consentire
investimenti in innovazione per creare beni collettivi per la competitività [Crouch
et al. 2004] che riuscissero a reggere le dinamiche di
competitività globale sempre più pressanti nei confronti dei fattori produttivi.
Questa strategia prevedeva la messa
in campo di strumenti specifici. In particolare i più utilizzati e diffusi strumenti
espressamente pensati per lo sviluppo sono stati i Patti territoriali, i Piani Integrati
per lo Sviluppo Locale (Pisl) e le Agenzie di sviluppo territoriale: i primi come
strumenti temporanei ma con l’ambizione di creare alleanze di lungo periodo, le seconde
come forme stabili di raccordo tra gli attori e pianificazione delle strategie locali di
sviluppo. Una simile configurazione pattizia o comunque partecipativa era presente anche
in altri settori di policy, per esempio nelle politiche ambientali,
con le Agende 21, nelle politiche sociali, con gli strumenti dei Piani di Zona e nelle
politiche di riqualificazione urbana, con i Contratti di Quartiere. Il filo conduttore
era duplice: da una parte l’esistenza di una spinta dal governo centrale, mediata poi
dalle regioni, inserita dentro a strategie generali di promozione dei territori locali e
dei loro attori, e favorita dall’approvazione di strumenti normativi, come le leggi
Bassanini prima e la riforma del Titolo V della Costituzione dopo, per rendere le
amministrazioni locali in grado di agire con relativa autonomia; dall’altra il
deliberato obiettivo di creare forme di capitale sociale stabili tra attori pubblici,
del mondo economico e della cittadinanza organizzata, tramite la messa in campo di
strumenti normativi facilitanti e di incentivi economici alla
cooperazione.¶{p. 47}
La vicenda di questi strumenti è
stata ampiamente studiata [Barbera 2005; Bassoli e Polizzi 2011; Pellizzoni 2005;
Pichierri 2002; Trigilia 2005] e se ne sono messi in luce i nodi di fondo, in
particolare la centralità dell’attore pubblico nei processi di governance. Gli enti
locali (comunali, provinciali e regionali) cioè, pur non esercitando più in maniera
esclusiva e isolata la funzione di governo, grazie alla natura lasca di tali arene,
mantengono una ampia discrezionalità sia sul come indirizzare il lavoro delle arene, sia
sul contenuto delle politiche che in tali arene si discutono. Esse controllano infatti
le principali leve che determinano il processo partecipativo: la leva economica, che
determina la possibilità che le politiche discusse nelle arene di governance raggiungano
la massa critica necessaria ad avere un impatto effettivo sui destinatari a cui sono
rivolte e può essere decisiva anche come sostegno ai processi stessi di partecipazione,
per esempio attraverso la creazione di segreterie organizzative o strumenti di
comunicazione e coordinamento tra gli attori; la leva della definizione degli obiettivi
e dei significati dei processi di governance attivati, che include la possibilità di
attivare significati condivisi tra i partecipanti [Weick 1995] e di generare un senso di
appartenenza ad una mission comune [Bassoli 2010]; leva del controllo sui modi e tempi
di funzionamento delle arene negoziali e partecipative. I governi locali hanno
affrontato questi nodi in modalità assai eterogenee e spesso anche differenti tra un
settore e l’altro, in base alle caratteristiche del singolo policy
network locale [Rhodes 2006]. Ciò ha portato questi strumenti ad avere
esiti non univoci sul piano nazionale, in termini di processi di sviluppo e di raccordo
degli attori locali. In diversi territori essi hanno avuto la capacità di innescare
effettivamente processi cooperativi e di generare così strategie comuni per generare
patrimoni comuni che si sono consolidati nel tempo: nuovi distretti produttivi nel caso
delle attività economiche, con la creazione di alcuni beni collettivi per la
competitività; assetti stabili di co-programmazione e co-progettazione nel caso delle
politiche sociali; rivitalizzazione di alcuni quartieri popolari nel caso della
riqualificazione urbana. Ciò è avvenuto anche
¶{p. 48}in casi nei quali
non vi era da una tradizione previa di collaborazione tra gli attori locali. D’altra
parte, tali strumenti sembrano non aver retto alla prova del tempo lungo e la stagione
della programmazione negoziata e partecipata degli anni Novanta e Duemila si può dire si
sia ormai chiusa. Due fattori sembrano aver concorso a questo superamento. In primo
luogo essi hanno visto frequentemente un utilizzo in chiave opportunistica da parte di
molti attori locali, cioè volto prevalentemente alla distribuzione di risorse aggiuntive
ma senza riuscire a superare la frammentazione delle traiettorie individuali delle varie
organizzazioni. Anche laddove gli strumenti erano stati utilizzati in forma più
virtuosa, questi hanno avuto una fortuna spesso contingente, cioè dovuta alla presenza
di leadership locali, particolarmente capaci di generare fiducia nella strategia
collettiva anziché quella del singolo attore ma al tempo stesso fragili poiché legate
alla contingenza politico-elettorale o dal destino personale dei leader territoriali
[Barbera 2001]. In secondo luogo, a questa fragilità degli esiti si è sommato il cambio
di stagione politico-economica che ha seguito la crisi economica del 2008 e la
conseguente stagione di austerità che ne è scaturita. Essa infatti ha fatto ridurre
l’attitudine dei governi nazionali e regionali a investire in strumenti di governance il
cui effetto non è misurabile nel breve periodo e dunque li ha indotti a privilegiare un
tipo di spesa pubblica più volto ad adottare strumenti per tamponare le crisi.
Note