La Repubblica di Weimar: democrazia e modernità
DOI: 10.1401/9788815370228/p1
La Repubblica di Weimar: democrazia e modernità
Notizie Autori
Christoph Cornelissen è professore ordinario di Storia dell’Europa
contemporanea, Goethe-Universität Frankfurt a.M., e
direttore FBK-ISIG, Trento.
Notizie Autori
Gabriele D’Ottavio è ricercatore di Storia contemporanea,
Università degli Studi di Trento.
«Siamo a un punto di svolta», così
scriveva il corrispondente da Berlino della «Frankfurter Zeitung» Rudolf Kircher il 1°
gennaio 1933. E aggiungeva che in Germania erano in atto rivolgimenti profondi che
interessavano tutti i principali ambiti della società: l’economia, la politica interna, la
politica estera e più in generale lo spirito del tempo. La sua analisi portava Kircher a
concludere che «niente è più sbagliato che dichiarare morto lo spirito della democrazia liberale»
[1]
.
Le considerazioni del corrispondente
della «Frankfurter Zeitung» ci fanno intendere che ancora nel gennaio 1933 i ben informati
non ritenevano per nulla scontata la presa del potere da parte dei nazionalsocialisti.
Kircher non era l’unico a pensarla in questo modo. Alla fine del 1932, anche un influente
scienziato politico come Carl Joachim Friedrich sostenne che la Germania sarebbe rimasta
saldamente ancorata alla sua moderna Costituzione democratica. Del resto, in quel periodo la
riflessione sulla crisi della democrazia in Europa non era focalizzata esclusivamente sul
caso tedesco; semmai lo sguardo veniva puntato su altri contesti nazionali, in particolare
sui Paesi dell’Europa centro-orientale e meridionale, ma anche sulla Francia e persino sul
Regno Unito
[2]
. ¶{p. 8}
L’atteggiamento di apertura verso il
futuro e financo l’ottimismo con cui molti contemporanei guardavano agli sviluppi politici e
sociali della Repubblica di Weimar ancora nei primi anni Trenta cambiò repentinamente con
l’avvento al potere di Adolf Hitler. Dopo il gennaio 1933 i nazionalsocialisti
intensificarono la loro propaganda contro il «sistema» e avviarono un’incessante e pervasiva
campagna di diffamazione nei confronti della Repubblica di Weimar, con effetti di lungo
termine sull’immagine della prima democrazia tedesca sia in Germania sia all’estero.
Nel corso del lungo XX secolo sul
ricordo negativo della Repubblica di Weimar non influirono, però, solamente la campagna di
delegittimazione nazista e i tentativi successivi della classe dirigente compromessa con il
regime di giustificare ex post la propria condotta. L’immagine negativa
rifletteva anche le esperienze concrete che erano state maturate dalla maggioranza della
popolazione tedesca. Soprattutto i cittadini della Germania occidentale, che nel secondo
dopoguerra ebbero accesso a ruoli apicali nella società prima inaccessibili, ricordarono
Weimar non solo a causa del suo fallimento ma anche per le molte frustrazioni che molti di
loro avevano vissuto in ambito professionale negli anni Venti e Trenta.
Tuttavia, dopo il 1945 si verificò
qualcosa di più. Sullo sfondo degli accesi dibattiti sulle colpe per il fallimento della
democrazia e l’avvento del nazionalsocialismo, il costante richiamo all’esperienza
weimariana si tramutò quasi in un’ossessione che la storiografia ha poi ridefinito come «il
complesso di Weimar»
[3]
: i reiterati tentativi di trarre dalla sua parabola degli insegnamenti di
portata generale contribuirono alla costruzione dell’identità nazionale e culturale della
Germania federale all’insegna del motto «Bonn non è Weimar». Coniata dal giornalista
svizzero ¶{p. 9}Fritz René Allemann negli anni Cinquanta
[4]
, questa chiave di lettura divenne ben presto una parola d’ordine che
esemplificava la tendenza diffusa nella società tedesco-occidentale a elevare il fallimento
della Repubblica di Weimar a modello negativo nel processo di ricostruzione della
democrazia. L’esperienza e il ricordo del fallimento di Weimar finirono quindi per
proiettare un’ombra lunga sugli atteggiamenti politici e sulle disposizioni culturali di
gran parte della nuova classe dirigente della Germania occidentale. In un contesto del
genere gli spazi per una riflessione distaccata sulla complessità, sull’apertura al futuro e
sulla modernità dell’esperienza storica weimariana risultarono alquanto ridotti. La
Repubblica di Weimar era diventata un argomento politico imprescindibile a cui si faceva
ricorso nei dibattiti di diritto costituzionale o nelle discussioni in tema di riforme
politico-istituzionali ma anche nel discorso pubblico sulle sfide poste dalla democrazia.
Del resto dopo il 1945 nemmeno la
storiografia fu risparmiata dal contagioso «complesso di Weimar». Molti storici cedettero
alla tentazione e ai condizionamenti di un diffuso determinismo retrospettivo, interpretando
la Repubblica di Weimar come un esperimento democratico sostanzialmente destinato al
fallimento sin dalla sua nascita
[5]
. Inoltre, a causa del suo esito tragico la riflessione storiografica introiettò
nei suoi assunti epistemologici l’orizzonte problematico di una «cultura del ricordo»
(Erinnerungskultur) negativamente connotata e con essa un uso
irriflesso dell’argomento politico Weimar. Come constatarono Eberhard Kolb e Dirk Schumann
in un importante studio sulla Repubblica di Weimar pubblicato per la prima volta a metà
degli anni Ottanta, «poche fasi della storia tedesca pongono gli storici dinanzi a problemi
di interpretazione e di ¶{p. 10}valutazione come l’epoca della Repubblica di
Weimar. Tutte le interpretazioni sono all’ombra di ciò che segue»
[6]
.
Tuttavia, non si può sorvolare sul fatto
che già a partire dagli anni Settanta la ricerca storica cominciò ad affrancarsi dal
«complesso di Weimar». La tesi sul momento rivoluzionario che iscriveva la nascita e il
fallimento della repubblica all’interno di una scelta inevitabile e senza alternative tra
democrazia parlamentare e repubblica socialista fu messa in discussione e, a seguire, anche
le controversie storico-politiche sulle origini e sulla fine di Weimar iniziarono a perdere
d’intensità. L’attenzione si focalizzò invece sulla società e sulla cultura della Repubblica
di Weimar, cosicché anche il periodo successivo alla fase costituente, compreso tra lo
scoppio dell’iperinflazione nel 1923 e la crisi economica mondiale del 1929, iniziò a essere
oggetto di studi più approfonditi. Al centro della riflessione storiografica finirono il
consumismo moderno e i fenomeni della cultura di massa nei contesti urbani, che, insieme
all’arte figurativa, alla musica e alla letteratura, restituivano un’immagine più vivida
della cultura di Weimar. Già nel 1968 lo storico tedesco-americano Peter Gay la definì come
una «cultura di epigoni»
[7]
e sulla scia dei lavori pionieristici di Wolfgang J. Mommsen
[8]
e dello stesso Gay una crescente attenzione venne rivolta anche ai molti
intellettuali e scienziati sociali ‘avanguardisti’ dell’epoca, i quali, non essendo riusciti
ad affermare la moderna razionalità scientifica della politica democratica nell’era delle
tirannie, negli anni Trenta erano stati costretti a espatriare o all’esilio interiore
[9]
. ¶{p. 11}
La Repubblica di Weimar veniva compresa
sempre più spesso come culmine e come crisi di una «modernità classica» che aveva avuto
inizio nell’ultimo trentennio del XIX secolo. Lo storico Detlev J. Peukert espresse in modo
originale la nuova prospettiva in una trattazione generale pubblicata in tedesco nel 1987 e
successivamente tradotta in molte lingue
[10]
. In questo studio Peukert chiariva che «Weimar non si risolve nel suo inizio e
nella sua fine»; inoltre, egli collocava nel periodo weimariano «gli anni di crisi della
modernità classica» a cui era possibile ricondurre le «affascinanti e fatali opportunità» di
una visione del mondo ancora attuale. L’opera di Peukert si allontanava dall’impostazione
focalizzata sulla dimensione socio-economica che era stata privilegiata negli studi
precedenti per dare maggiore risalto all’ambivalenza delle esperienze e dei punti di vista
che aveva caratterizzato il periodo weimariano. Successivamente anche lo storico americano
Eric D. Weitz enfatizzò la rilevanza della dimensione culturale dell’esperienza storica di
Weimar con un volume pubblicato per la prima volta nel 2007. In questo studio, accanto alla
creatività artistica e al potenziale emancipatorio della cultura weimariana, venivano
tematizzate anche le trasformazioni della cultura del corpo e nei rapporti di genere e
interpretate come evidenze dell’avvento di una nuova epoca
[11]
.
La storia politica ha comunque
continuato a esercitare un ruolo prevalente nella produzione storiografica su Weimar, anche
grazie a un ampliamento dell’orizzonte tematico che negli ultimi due decenni ha portato a
rivedere in maniera più sistematica tutte le sfaccettature delle culture politiche. In
questo contesto, gli studi di Thomas Mergel sul parlamentarismo weimariano
[12]
e quelli di Dominik Graf e Moritz Föllmer sul
¶{p. 12}discorso
della crisi condotto negli anni Venti e Trenta
[13]
, così come le ricerche sulla militarizzazione della società
[14]
e sulla memoria della Prima guerra mondiale
[15]
hanno portato a una sostanziale ridefinizione del perimetro storiografico. Anche
i rivolgimenti del biennio 1918-1919 della cosiddetta «rivoluzione dimenticata» hanno
ricevuto più attenzione rispetto al passato
[16]
. Nel frattempo alle prospettive di storia sociale e di storia culturale si è
aggiunta e in parte sovrapposta anche una maggiore considerazione per la dimensione
transnazionale della storia di Weimar e in particolare per l’ambito del diritto
internazionale e per la transizione post-imperiale della Germania del dopoguerra
[17]
. Inoltre, negli studi giuridici e politologici si può osservare già da diversi
anni un rinnovato interesse per la fase costituente e per la cultura costituzionale
dell’epoca weimariana. Specialmente i lavori di Christoph Gusy, Horst Dreier e Christian
Waldhoff hanno sottolineato la modernità della Costituzione di Weimar
[18]
. Il giudizio di Waldhoff, in {p. 13}particolare, è
inequivocabile: «la Repubblica di Weimar è fallita a causa della difficile situazione
generale e dell’azione concomitante di numerosi fattori, ma certo non a causa della sua
Costituzione, che ha continuato a risplendere fino ad oggi: una Costituzione notevolmente
moderna e innovativa»
[19]
.
Note
[2] C.J. Friedrich, The Development of Executive Power in Germany, in «American Political Science Review», 27, 1933, pp. 185-233; H.J. Laski, Democracy in Crisis, Chapel Hill, University of North Carolina Press, 1933. Per le citazioni si veda T.B. Müller, Die Weimarer Demokratie und die europäische Demokratie, in M. Dreyer - A. Braune (edd), Weimar als Herausforderung. Die Weimarer Republik und die Demokratie im 21. Jahrhundert, Stuttgart, Franz Steiner, 2018, pp. 57-78, qui p. 58; C. Gusy (ed), Demokratie in der Krise: Europa in der Zwischenkriegszeit, Baden Baden, Nomos, 2008.
[3] S. Ullrich, Der Weimarer Komplex. Das Scheitern der ersten deutschen Demokratie und die politische Kultur der frühen Bundesrepublik 1945-1959, Göttingen, Wallstein, 2009.
[5] O. Haardt - C. Clark, Die Weimarer Reichsverfassung als Moment in der Geschichte, in H. Dreier - C. Waldhoff (edd), Das Wagnis der Demokratie. Eine Anatomie der Weimarer Reichsverfassung, München, C.H. Beck, 2018, pp. 9-44.
[6] E. Kolb - D. Schumann, Die Weimarer Republik, München, Oldenbourg, 20138, p. 155 (ed. orig. 1984).
[8] W.J. Mommsen, Max Weber und die deutsche Politik 1890-1920, Tübingen, Mohr, 1959 (trad. it. Max Weber e la politica tedesca, Bologna, Il Mulino, 1993).
[9] R. Blomert, Intellektuelle im Aufbruch. Karl Mannheim, Alfred Weber, Norbert Elias und die Heidelberger Sozialwissenschaften der Zwischenkriegszeit, München, Hanser, 1999.
[10] D.J.K. Peukert, La Repubblica di Weimar. Anni di crisi della modernità classica, Torino, Bollati Boringhieri, 1996, p. 10 (ed. orig. 1987).
[11] E.D. Weitz, Weimar Germany. Promise and Tragedy, Princeton NJ, Princeton University Press, 2013.
[12] T. Mergel, Parlamentarische Kultur in der Weimarer Republik: Politische Kommunikation, symbolische Politik und Öffentlichkeit im Reichstag, Düsseldorf, Droste, 2002; D. Schumann et al. (edd), Weimar Publics/Weimar Subjects: Rethinking the Political Culture of Germany in the 1920s, New York, Berghahn, 2010.
[13] M. Föllmer - D. Graf (edd), Die Krise der Weimarer Republik: Zur Kritik eines Deutungsmusters, Frankfurt a.M., Campus, 2005.
[14] D. Schumann, Politische Gewalt in der Weimarer Republik 1918-1933: Kampf um die Straße und Furcht vor dem Bürgerkrieg, Essen, Klartext, 2001; B. Ziemann, Violence and the Soldier in the First World War. Killing, Dying, Surviving, London, Bloomsbury Academic, 2017.
[15] R. Bessel, Germany After the First World War, Oxford, Clarendon, 1995; C. Cornelissen - A. Weinrich (edd), Writing the Great War. The Historiography of World War I from 1918 to the Present, New York, Berghahn, 2021.
[16] A. Gallus (ed), Die vergessene Revolution von 1918/19, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 2010.
[17] Si veda C. Cornelissen - D. van Laak (edd), Weimar und die Welt: Globale Verflechtungen der ersten deutschen Republik, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 2020; A. Braune - M. Dreyer (edd), Weimar und die Neuordnung der Welt: Politik, Wirtschaft, Völkerrecht nach 1918, Stuttgart, Franz Steiner, 2020.
[18] C. Gusy, 100 Jahre Weimarer Verfassung. Eine gute Verfassung in schlechter Zeit, Tübingen, Mohr Siebeck, 2018; T. Kleinlein - C. Ohler (edd), Weimar international. Kontext und Rezeption der Verfassung von 1919, Tübingen, Mohr Siebeck, 2020.
[19] H. Dreier - C. Waldhoff (edd), Das Wagnis der Demokratie, p. 7; C. Gusy, 100 Jahre Weimarer Verfassung; M. Dreyer, Hugo Preuß. Biografie eines Demokraten, Stuttgart, Franz Steiner, 2018.